Ricerca Psicoanalitica, n. 1/2006
Il peggioramento in corso di terapia non è sempre segno che le cose vadano davvero male: tutti noi riscopriamo quasi ogni giorno, nella nostra pratica, la verità dell’antico adagio per cui “non tutto il male viene per nuocere”. A pensarci bene, il concetto che la cura psicologica passi attraverso crisi, nelle quali il male si attualizza e si acutizza prima di scomparire definitivamente, è così antico da creare quasi una sensazione di sgomento. È un’esperienza, infatti, che la psicoanalisi ha ereditato dalla psichiatria dinamica, la quale godeva già di una lunga tradizione ai tempi di Charcot e di Bernheim, i maestri ipnotisti di Freud. Ellenberger fa risalire l’inizio della psichiatria dinamica a Franz Anton Mesmer, il quale, alla fine del Settecento, “magnetizzava” le persone malate e provocava in esse delle crisi catartiche. Ma, a sua volta, Mesmer aveva rubato lo scettro della psicoterapia a Gassner, l’ultimo dei grandi guaritori esorcisti (Ellenberger, 1970)… e non aggiungo altro; quindi, come si vede, la questione della crisi attraversa, in realtà, tutta la storia della psicoterapia e risale gli abissi del tempo.
Venendo in particolare alla
psicoanalisi, lo sviluppo della nostra scienza è avvenuto fin dall’inizio come una continua lotta contro
gli ostacoli e le complicazioni che si frappongono alla guarigione psicologica e
sono ben note le tappe concettuali che segnano l’opera di Freud lungo questo faticoso
percorso: la resistenza, il transfert, il controtransfert, la coazione a
ripetere, il masochismo primario, la reazione terapeutica
negativa…
Freud introduce la nozione
di coazione a ripetere in Ricordare, ripetere e rielaborare (1914),
presentandola come una forma agita del ricordare, alla quale, tutto sommato,
l’analista poteva dare il
benvenuto, soprattutto all’interno del transfert, dove essa,
determinando l’insorgenza della
nevrosi di transfert, agiva al servizio dell’analisi. Sei anni più tardi, però, in
Al di là del principio di piacere (1920), la coazione a ripetere viene
già da lui interpretata come un’espressione di quella forza psichica,
diversa dal principio di piacere, che vuole riportare a zero ogni sviluppo
psicologico e che, in definitiva, vuole riportare la vita alla morte. Alla fine
poi del suo combattivo percorso intellettuale e professionale, Freud, in
Analisi terminabile e interminabile, spiegando esplicitamente tutti gli
ostacoli che si frappongono alla guarigione psicologica come altrettante
espressioni dell’istinto di
morte, non solo dà prova del suo cosiddetto pessimismo ma, in un certo senso,
effettua anche un’operazione poco
trasparente da un punto di vista scientifico, perché pretende di fissare una
sorta di limite definitivo, sbarrando di fatto la via allo sviluppo futuro delle
potenzialità teoriche e terapeutiche delle psicoanalisi: “(…) le manifestazioni
derivanti dall’immanente
masochismo di tanta gente, dalla reazione terapeutica negativa e dal senso di
colpa dei nevrotici (…) costituiscono prove inequivocabili della presenza, nella
vita psichica, di una forza che per le sue mete denominiamo pulsione di
aggressione o di distruzione e che consideriamo derivata dall’originaria pulsione di morte insita
nella materia vivente” (Freud, 1937: 525).
Freud arrivò, per l’appunto, a questa spiegazione
definitiva, sviluppando la teoria delle pulsioni, cioè portando alle estreme
conseguenze quel leit-motiv che ha accompagnato la sua ricerca dall’inizio alla fine: il tentativo di
fondare la psicologia del profondo sulla biologia e non sulla relazione
psicologica fra gli esseri umani. Egli era condizionato dal suo tempo, da una
pretesa di scientificità vecchio stampo e forse anche da certe problematiche
psicologiche personali che erano sfuggite alla sua autoanalisi: “(…) noi
pensiamo che la teoria freudiana dello sviluppo psicosessuale serva non solo a
spostare nel bambino la causa di ogni male, per assolvere la madre da ogni
responsabilità, ma che serva anche a mantenere difensivamente separati gli
aspetti buoni della madre da quelli cattivi, per arginare l’intenso conflitto inconscio d’ambivalenza che Freud aveva nei suoi
confronti. Il presupposto freudiano di un istinto di morte innato, che fa
dell’ostilità una necessità
biologica piuttosto che una reazione al tradimento e alla delusione, può essere
interpretato come il definitivo trionfo del desiderio di assolvere la madre”
(Atwood and Stolorow 1984: 57-58).
In effetti, le cose sono
andate un po’ diversamente,
rispetto alle pessimistiche previsioni di Freud. L’interpersonalismo americano, le scuole
inglesi delle relazioni oggettuali, la psicologia del Sé e, per finire, l’attuale sfaccettata corrente della
Psicoanalisi Relazionale hanno progressivamente e definitivamente spostato il
fuoco della riflessione psicoanalitica dalle pulsioni agli affetti, cioè dalle
cause biologiche a quelle psicologiche, e, contemporaneamente, dalla prospettiva
psicologica della mente isolata a quella dell’interdipendenza e dell’intersoggettività (Stolorow e Atwood,
1992). Alla ribalta dell’interesse clinico sono salite le
problematiche relative all’insicurezza, all’attaccamento, alla fragilità del Sé,
ai bisogni d’oggetto-sé, ai
principi inconsci che organizzano e leggono l’esperienza in maniera precostituita e
danno origine a previsioni pessimistiche e a schemi emotivi e comportamentali
rigidi e ripetitivi. La teoria della cura, di conseguenza, si è maggiormente
interessata alle relazioni oggettuali, ai bisogni di conferma, di sostegno e di
sviluppo del Sé, al bisogno di costruire nuovi principi organizzatori inconsci
che si affianchino a quelli vecchi e al bisogno di smentire determinate
convinzioni patologiche, in modo da potere aprire la propria esistenza ad
esperienze nuove. Ovviamente, si è infranto anche il monopolio terapeutico
dell’insight conoscitivo che nella teoria
classica era considerato come l’unico fattore curativo autenticamente
psicoanalitico. Questo è successo perché non crediamo più che l’inconscio se ne stia là, dentro la
mente del paziente, come una cosa che possiamo osservare nella sua datità, come
se fosse un oggetto del mondo fisico. Non pensiamo più che questa sia la natura
della mente, né di quella conscia, né di quella inconscia. Inoltre, pensiamo che
ci sia una particolare complessità in gioco: una dialettica intrapsichica e una
dialettica intersoggettiva, le quali, a loro volta, interferiscono fra di loro.
A proposito della dialettica
intrapsichica, James Grotstein si è spinto provocatoriamente ad affermare quanto
segue: “L’Es che Freud aveva
scoperto venne contrapposto all’Io e Freud assegnò all’Io, ma non all’Es, la consapevolezza delle
percezioni. Di conseguenza, l’Es
divenne, fra le altre cose, un oggetto di osservazione da parte dell’Io. Ciò che Freud sembra avere
ignorato è che anche l’Es, a sua
volta è un osservatore. La mia teoria a doppio binario è un tentativo di
perorare la causa di una co-soggettività, in modo che l’Es possa essere considerato un
osservatore tanto quanto l’Io: un
osservatore che osserva empaticamente, cioè attraverso l’introspezione empatica, mentre l’Io potrebbe essere l’agente di un’osservazione distaccata” (Grotstein
1983: 167).
Risale al 1968 la
pubblicazione degli Studi sulla tecnica psicoanalitica, nei quali
Heinrich Racker (1968) ha sviscerato l’argomento del controtransfert in
maniera estremamente dettagliata e, da allora in poi, lo studio della dialettica
intersoggettiva è stato sempre più al centro dell’interesse di autori provenienti da
scuole diverse (tra i più attuali, basti citare Seinfeld, Ogden, Weiss,
Mitchell, Stolorow e coll.). Attualmente essa è oggetto di particolare
attenzione nell’ambito della
Relational Psychoanalysis, dove il concetto di controtransfert tende ad essere
abbandonato e sostituito con quello, puro e semplice, di soggettività dell’analista (Renik,
1993).
Questa diversa prospettiva
che si è venuta a creare, un cambiamento filosofico complessivo, originato come
una spinta dal basso proveniente dal lavoro quotidiano di tanti analisti di
orientamenti e scuole diverse, non ci consente più di credere nella possibilità
o nell’utilità di isolare e di
esorcizzare il male (le manifestazioni dell’inconscio) attraverso delle polarità
identificatorie simili a quelle che caratterizzano la medicina organica, che
tendono a separare nettamente la salute dalla malattia (e, di conseguenza, il
medico sano dal paziente malato), per separare, a sua volta, il paziente in una
parte sana (fatta di razionalità genericamente condivisa) e una parte insana
(irrazionalità e distorsioni inconsce da smascherare e ricondurre alla norma).
Perciò, Hoffman afferma che: “(…) il pensiero dicotomico è inerente all’oggettivismo, come il pensiero
dialettico è inerente al costruttivismo. Pensare in maniera dicotomica (…) fa
parte dell’idea oggettivista che
l’analista possa scoprire con
precisione dove finiscono il suo contributo e l’effetto dell’interazione attuale. Al contrario,
vedere il transfert e il controtransfert in relazione dialettica fra loro crea
una zona d’irriducibile ambiguità
e indeterminatezza circa la natura della loro interazione e della reciproca
influenza, una zona che è spesso aperta a molteplici possibili costruzioni
interpretative” (Hoffman, 1998).
Grazie a questo cambiamento
generale di prospettiva, possiamo oggi accostarci alla coazione a ripetere, alla
reazione terapeutica negativa e a tutte le sopra citate manifestazioni del
presunto istinto di morte in maniera decisamente più fiduciosa, e nel corso
degli anni sono state avanzate diverse nuove ipotesi per spiegare le complesse
dinamiche emotive che hanno luogo quando le dimensioni psicopatologiche più
basilari si mobilitano nella relazione e investono la coppia
analitica.
Secondo la scuola kleiniana,
il paziente proietta nell’analista quei contenuti mentali che
non è in grado di gestire autonomamente, allo scopo (inconscio) che questi li
elabori e li restituisca trasformati in qualche forma più abbordabile: “La
tecnica terapeutica per gestire l’identificazione proiettiva (…) è
intesa per mettere a disposizione del paziente in una forma lievemente
modificata ciò che era già suo, ma che in origine non era utilizzabile ai fini
dell’integrazione e della
crescita psicologica” (Ogden 1991, trad. it. 1994:
48).
Jeffrey Seinfeld riprende da
Searles la concezione di uno sviluppo del processo psicoanalitico, nella terapia
del paziente grave, che passa attraverso quattro fasi: la fase senza contatto,
la simbiosi ambivalente, la simbiosi terapeutica e la risoluzione della
simbiosi. La reazione terapeutica negativa è tipica della simbiosi ambivalente,
cioè della fase in cui si concretizza una lotta, a tratti anche molto violenta,
fra l’”oggetto cattivo” che
domina il mondo interno del paziente e presiede agli equilibri patologici che
hanno caratterizzato la sua sopravvivenza psicologica e l’”oggetto buono” che viene attivato nel
rapporto con il terapeuta: “la paziente cominciò a pensare, tra una seduta e
l’altra, a quello che le avevo
detto sulla sua paura dei sentimenti positivi e si sentì turbata (…) inoltre
cominciò a provare contemporaneamente sentimenti positivi e negativi verso di
me. Questa temporanea ambivalenza la colpì come un fatto strano e sconvolgente;
si sentì come se stesse impazzendo” (Seinfeld, 1990).
Secondo la Psicologia
del Sé, il paziente grave avanza dei bisogni narcisistici di rispecchiamento e
di idealizzazione che hanno qualità arcaiche e fusionali. L’analista deve accogliere tali bisogni
durante una fase anche molto prolungata di comprensione empatica, allo scopo di
poterli, solo successivamente, trattare in maniera interpretativa: “(…)
nell’analisi di pazienti
gravemente traumatizzati, lo stadio della comprensione deve restare l’unico per un periodo molto lungo del
trattamento” (Kohut, 1984).
Secondo la scuola americana
di Mount Zion Hospital, il paziente mette inevitabilmente a dura prova
l’analista, a causa del suo
impellente bisogno di smentire determinate convinzioni pregiudizialmente
pessimistiche e, di conseguenza, patologiche: per questo motivo, quando si
sente sufficientemente al sicuro nella relazione con l’analista, comincia a coinvolgerlo in
intense drammatizzazioni, dando per scontato il rifiuto, l’abbandono o la ridicolizzazione di
sé, allo scopo inconscio di poter fare un’esperienza diversa e di arrivare a
smentire e a smantellare i propri soffocanti paradigmi emotivi. “Il paziente
mette alla prova le sue credenze patogene attraverso azioni sperimentali, con un
comportamento che, in base a tali credenze, dovrebbe avere un determinato
effetto sull’analista; spera
tuttavia che tale effetto non si verifichi” (Weiss, 1993). “(…) il terapeuta non
deve essere neutrale, ma deve diventare alleato del paziente nello sforzo di
disconfermare le sue credenze patogene e di perseguire i suoi obiettivi. Non
deve evitare di utilizzare la rassicurazione o l’autorità in situazioni in cui possono
essere d’aiuto. L’interpretazione non è quindi la
condizione sine qua non della terapia” (Weiss, 1993). Da questo punto di
vista, la crisi è inevitabile e, nella migliore delle ipotesi, rappresenta un
peggioramento solo apparente, ossia un indispensabile emergere di contenuti
emotivi inconsci che investono la relazione e si rendono finalmente disponibili
per la cura.
Stolorow e Atwood, esponenti
della corrente dell’intersoggettività (che hanno
sviluppato a partire dalla psicologia del Sé), si spingono ad affermare che “le
impasses terapeutiche, se analizzate
dal punto di vista dei principi che organizzano a livello inconscio le
esperienze del paziente e del terapeuta, rappresentano un’occasione unica, una via regia
per raggiungere l’obiettivo della
comprensione psicoanalitica” (Stolorow e Atwood, 1992). Gli stessi autori, in
collaborazione con Bernard Brandchaft, presentano, in effetti, la terapia del
paziente grave come una tormentosa e inevitabile successione di crisi. Nel caso
di Anna, una ragazza psicotica di 19 anni, la prima impasse s’incentrò intorno alla sua pretesa,
apparentemente assurda di essere picchiata dall’analista. Voleva essere picchiata
perché, emotivamente, questa le sembrava l’unica possibilità di essere raggiunta
nel suo ritiro difensivo (nella “caverna isolata, dentro la mia mente”), ma fu
duro arrivare a questa spiegazione. La seconda impasse fu la conseguenza di avere
inglobato l’analista nel proprio
sistema delirante, per cui percepiva “raggi bloccanti” che partivano dai suoi
occhi e “costruivano muri” dentro al proprio cervello. Concretizzandola,
esprimeva così l’emozione
sopraffacente di sentirsi bloccata, quando l’empatia del terapeuta veniva meno. La
terza impasse si manifestò come
richiesta impellente e intransigente di essere totalmente compresa: “Tu puoi
comprendere tutta la mia vita, non è vero? Sbrigati! Dai, forza, fallo subito,
fai luce su tutta la mia vita!”.
Qui l’accento era sulla parola “tutta”, come
arrivò a comprendere il terapeuta dopo molto penare: ciò significava il bisogno
di essere tenuta insieme, di ritrovare l’unità del Sé, ora che la ragazza aveva
abbandonato molte delle sue precedenti difese patologiche (Stolorow, Brandchaft,
Atwood, 1987).
Casi clinici
Riferirò adesso alcuni esempi di situazioni di crisi che si sono verificate nella mia pratica terapeutica, con particolare attenzione rivolta ad individuare il momento determinante di soluzione dell’impasse, nel tentativo di chiarire il fattore terapeutico che finalmente, entrando in scena, ha dato origine alla svolta. Il primo esempio è particolarmente drammatico.
Frank, un uomo di 25 anni, è
entrato in terapia a causa di intensi e ricorrenti stati di depressione vuota,
subentrati in lui dopo che al padre è stato diagnosticato un tumore incurabile
al cervello. Ben presto risulta evidente un grave disturbo del Sé: c’è un falso Sé che si è sviluppato a
scapito del vero Sé, manifestandosi come tendenza coatta a soddisfare le
aspettative degli altri, ad essere esageratamente bravo, forte, coraggioso,
responsabile e addirittura impavido, a scapito della spontaneità e del senso di
essere più genuinamente se stesso nelle diverse situazioni della vita. Si
tratta, per di più, di un falso Sé particolarmente pervasivo che, praticamente,
non lascia spazio al vero Sé. Nei sogni, esso si presenta inizialmente come
animale infernale, come gatto nero che ha preso il comando dei centri del
piacere del suo corpo e che non può essere tirato via, perché, mentre con una
zampa lo masturba, con le altre tre affonda tenacemente le unghie nella carne.
In altri sogni appare un vampiro che ha la meglio su di lui, fino a sopraffarlo
completamente e a morderlo canonicamente sul collo. Altri sogni adombrano una
particolare somiglianza fra la nevrosi di quest’uomo e il tema letterario del patto
con il diavolo. Con preoccupazione e sconcerto, assisto ad un progressivo
peggioramento delle condizioni del paziente: la presa di coscienza lo porta alla
disperazione. Ho la sensazione di avere ampiamente sottovalutato la gravità del
caso. Le sue difese crollano troppo rapidamente e ciò produce uno sconfinamento
di tipo psicotico. Solo a questo punto mi si rivela la reale estensione del
fenomeno di alienazione nel quale ha sempre vissuto e il suo ritornello diventa:
“Dottore, non sento! Non sento
niente…”. La tragedia di quest’uomo si può riassumere così: il ritiro
emotivo da se stesso e, di conseguenza, dalla vita reale è tale che egli non ha,
si potrebbe dire, la sensazione di esistere, o meglio non ha nessuna sensazione
di provare emozioni e vive se stesso come una macchina umana, un robot al quale può comandare
comportamenti e simulazioni. Non conserva neppure il ricordo di avere mai
provato qualcosa, a livello emotivo. Dice che, da tempo immemorabile, ha
imparato a “guardare gli altri” e ad adeguarsi alle diverse situazioni,
imitandoli: se le persone ridono, capisce che bisogna ridere e ride anche lui,
se sono tristi, finge la tristezza, ecc.. Ancora oggi stento a credere ad una
generalizzazione così totale del male e penso che, esprimendosi in questi
termini, esagerasse un poco; fatto sta che, da quel momento, avendo messo a
fuoco così impietosamente il proprio totale vuoto interiore, cominciò con la
serie dei tentati suicidi. Il primo tentativo fu tramite l’assunzione di un’ingente dose di psicofarmaci. La
spietatezza contro se stesso fu tale che, non morendo subito ma svegliandosi
dopo alcuni giorni di sonno semi-comatoso, ebbe la disumana determinazione di
tornare barcollando in farmacia e di procurarsene ancora. Viveva da solo e
dovetti intervenire io a salvarlo. Il seguito fu una serie di ricoveri e nuovi
tentativi: con il tubo di scappamento, con l’accetta, strangolandosi, tagliandosi
le vene… Sembrava chiaro che, dopo ogni nuovo ricovero in Psichiatria (dove,
senza tanti complimenti, gli avevano fin da subito appioppato una bella diagnosi
di schizofrenia), la sua situazione psicologica fosse peggiore di quella
precedente e la madre (che, a partire dal primo tentativo, si era trasferita
nella casa del figlio) prese insieme a me la coraggiosa decisione di non
ricoverarlo più. Durante le sedute, alle quali veniva regolarmente, Frank era
per lo più taciturno e sottilmente ostile. Si lamentava costantemente del fatto
di “non sentire” e mi spiegò che soltanto quando progettava un suicidio e faceva
i preparativi per togliersi la vita riusciva ad emozionarsi un poco e a sentirsi
quasi vivo. Aveva dunque sviluppato una sorta di dipendenza dal suicidio:
togliersi la vita era l’unico
modo per dare un significato emotivo alla propria vita. Ricordo di essermi
sentito piuttosto provato dalla situazione: ero costantemente in allarme e mi
capitava anche di passare delle notti insonni. Non c’erano segnali di miglioramento,
nonostante la regolarità delle sedute, e non avevo idea di come le cose
sarebbero potute andare.
A questo punto, dopo lunga
preparazione (ma vorrei dire dopo lunga macerazione), avvenne l’episodio drammatico che dette una
svolta alla terapia. Un giorno, Frank entrò puntualmente alla sua ora e si
diresse macchinalmente verso la sua poltrona. Anch’io mi stavo dirigendo verso il mio
solito posto quando, alle spalle dell’uomo, sbucò improvvisamente la madre,
che si era introdotta nello studio come la sua ombra. Non mi ero affatto accorto
di lei e la sua improvvisa comparsa mi fece l’effetto che la donna si fosse
materializzata dal nulla. La madre si precipitò sul figlio, e, quasi gridando,
ripeté più volte: “Fallo vedere, fallo vedere al dottore!”. Contemporaneamente
gli afferrò i polsi e sollevò con decisione le maniche. È qui che mancano le
parole per descrivere l’esperienza che io feci in quel
momento, nonostante che sia impressa ancora oggi in maniera vivida nella mia
mente. Sapevo che, fra le altre pratiche autolesive, Frank usava coricarsi la
sera provvisto di lametta, per tagliuzzarsi un po’ le vene prima di addormentarsi e per
cullarsi nell’idea consolatoria
di morire dissanguato durante il sonno. Quindi mi aspettavo di vedere qualche
taglietto. Vidi invece qualcosa di completamente diverso. L’avambraccio era totalmente martoriato
ed essendo stato tagliato e ritagliato tante volte era diventato nero e l’unico modo per descrivere l’aspetto che aveva è dire che ormai era
fatto di carne morta. Vidi questo orrore in uno stato di sogno, mentre la scena
tragica che avevo davanti irradiava una sorta di potenza mitologica: mi trovavo
di fronte alla Pietà e Frank era diventato il Cristo deposto dalla croce. So di
non avere nascosto la mia emozione, anche se non ricordo esattamente le parole
con le quali, al momento, devo averla accompagnata. Quel che è certo, è che in
quell’attimo è avvenuto qualcosa
di assolutamente determinante, tant’è che Frank, da allora in poi, non ha
mai più tentato il suicidio. Da quel momento ha ripreso (a suo dire) per la
prima volta gradualmente a sentire. Prima la paura e l’angoscia di sentirsi diverso dagli
altri. Poi, nascostamente, inconfessabilmente, l’euforia di un piccolo successo
personale (la costruzione di un sito internet). Poi, faticosamente, l’intera gamma dei sentimenti,
attraverso un tormentato percorso di alti e bassi, che ha richiesto molto
sostegno da parte mia e che, inizialmente, è stato segnato da altre difficoltà e
da altre crisi (bastava che si sbilanciasse anche poco nell’interagire con altri, per riattivare
un senso di persecuzione sempre in agguato). Ma, come ho detto, niente di
paragonabile a quanto era avvenuto in precedenza.
Nessuna difficoltà
incontrata intaccava il solido rapporto di fiducia che si era stabilito con me e
la gravità delle ultime crisi, nel complesso, è risultata progressivamente
decrescente. A distanza di anni, mi sento di dire che il cambiamento di Frank
risulta stabile e definitivo.
Tornando al punto cruciale
della storia, che cosa è realmente avvenuto in quel momento particolarissimo che
ha segnato la svolta di una terapia così difficile? Per esprimermi nel modo più
semplice e immediato, credo di aver percepito Frank per la prima volta; credo,
cioè, che in quel momento io abbia potuto vedere per la prima volta fino in
fondo al suo dolore. Per certi versi, ero anch’io, insieme a lui, nella condizione
del “non sentire”, ma in quel momento ho abbandonato anch’io le mie difese e ho sentito e
Frank si è sentito e, da quel momento in poi, ha cominciato a sentire se stesso
e a rapportarsi agli altri attraverso la mediazione del senso di sé. Per
usare il linguaggio di Kohut, in quel momento è avvenuta l’integrazione del Sé
nucleare.
Caterina si è presentata
come una ragazza dai lineamenti piacevoli e dal fisico muscoloso e un po’ robusto, in altri termini, una
ragazza palestrata e leggermente sovrappeso. Aveva 21 anni all’inizio della terapia e un passato di
anoressia, alla quale, col tempo, attraverso fasi alterne, si era andata
sostituendo la bulimia. Manifestava seri problemi con la propria immagine
corporea, ma sarebbe eufemistico dire che non si piaceva, perché i livelli di
autodisprezzo e di auto-odio che era capace di raggiungere risultavano, a dir
poco, spaventosi. Inoltre, per essere ancora più precisi, il vero problema si
collocava ad un livello antecedente al piacersi o non piacersi. Si potrebbe
parlare di non accettazione di sé, ma nemmeno questo renderebbe veramente l’idea. Ci si avvicina di più alla
realtà delle cose, dicendo che non aveva un’immagine sufficientemente definita di
sé, come se facesse molta fatica a metterla a fuoco e non fosse in grado di
mantenerla stabile dentro di sé, e che questa mancanza di senso di sé la rendeva
vulnerabile e disperata, spesso incapace di affrontare il rapporto con gli
altri, nonostante la validità intellettuale, la capacità lavorativa, il senso
spiccato dell’ironia e la vivace
curiosità per il mondo intorno. Caterina aveva due sorelle e tutte e tre
vivevano in casa con i genitori. Il padre, grandioso e inconcludente, passava la
vita a controllare ossessivamente i comportamenti degli altri membri della
famiglia. La madre, insegnante di scuola elementare, viveva una vita di
sopportazione e di sacrificio. I genitori non erano poveri, perché, per esempio,
possedevano case, ma non concepivano di sostenere e aiutare le figlie nella loro
formazione al di là della scuola dell’obbligo, per cui queste, se volevano
studiare, dovevano contemporaneamente lavorare e auto mantenersi agli studi.
Caterina aveva, di conseguenza, enormi problemi pratici, se lavorava non le
restava tempo per studiare, se studiava non poteva pagarsi l’analisi, ecc.. Ma, al di là del
mancato aiuto economico, Caterina non si era mai sentita valorizzata come
persona. Nessuno si era mai interessato all’andamento dei suoi studi, pur essendo
stata per molti anni una studentessa impegnata e brillante.
Nessuno era mai andato a
parlare con i professori, di modo che sentiva che le sue capacità erano date
semplicemente per scontate. Anche al di là della scuola, non aveva mai sentito
una considerazione o un interessamento reali da parte dei genitori e, in certi
casi, aveva la netta sensazione di risultare invisibile ai loro occhi. A
posteriori, quando finalmente una valida capacità autoanalitica prese il posto
dell’auto-odio e dell’autodisprezzo, mi mandò per mail alcuni lucidi sfoghi, da cui traggo
quanto segue: “Questo ambiente mi fa impazzire, non un giornale, non un’idea, sempre e solo questa democrazia
cristiana che papà mi diceva, quando ero piccola, che avrei dovuto votare da
grande. Meno male che non c’è
più. Non un viaggio, una curiosità, un quotidiano di cui discutere, notizie di
cronaca, niente. Non leggono, non parlano, cos’è importante per loro? Come passare
una serata in casa quando fuori piove? Io ho paura di essere come loro”.
Nessuno, in famiglia, era in grado di percepire il fatto che Caterina avesse dei
seri problemi e un urgente bisogno d’aiuto. Il trattamento riservatole
all’epoca dell’anoressia si basava sulle pressioni
fisiche e morali e sullo svergognamento pubblico e sconfinava spesso nella
violenza. Risulta superfluo aggiungere che nemmeno in seguito allo sviluppo
puberale si era sentita vista, riconosciuta e, tanto meno, ammirata nella
propria identità femminile, all’interno di una talmente apatica
famiglia d’origine. Una famiglia,
inoltre, totalmente ripiegata su se stessa e costantemente vittima del senso
fantasmatico e persecutorio di ciò che pensavano “gli altri”. Una famiglia che
viveva in un appartamento dominato da un’enorme sala di ricevimento, dove
nessuno poteva mettere piede, perché un giorno lì, fantasticamente, il padre
avrebbe intrattenuto degli incontri ad alto livello e dove, per il resto,
mancava lo spazio fisico, oltre a quello psicologico e risultava sempre
impossibile delimitare e proteggere un minimo indispensabile di privacy. Pesava molto, a questo
riguardo, l’intrusività del padre
che frugava, spiava i comportamenti, ascoltava le telefonate e annotava ogni
cosa, non si sa per quale scopo, per cui Caterina non aveva mai avuto la
sensazione di potersi fidare o di sentirsi sufficientemente al sicuro in casa
propria. In particolare, poi, aveva sempre avuto forte l’impressione di vivere in un set teatrale, piuttosto che in una vera
casa, perché, intorno a lei, le cose immaginarie erano sempre risultate più
importanti e più significative di quelle reali.
Dopo una luna di miele
analitica durata pochi mesi, questo tema del vero e del falso segnò la prima
inaspettata crisi di transfert che ci trovammo ad affrontare. Tipicamente, come
ho imparato ad aspettarmi in seguito, le crisi di Caterina comportavano una
preoccupante qualità di disorganizzazione e confusione mentali: un improvviso
peggioramento generale, dopo un periodo all’insegna della sintonia e del progresso
analitico, che ogni volta mi sorprendeva e mi spiazzava, perché ogni volta
sembrava raggiungere livelli di sofferenza peggiori della crisi precedente. Mi
ero già vagamente accorto dello sguardo furtivo di ricognizione generale che la
ragazza lanciava, all’ingresso e
all’uscita dallo studio. Ma non
potevo immaginare che Caterina, intimamente, identificasse il mio studio in una
sorta di set teatrale che io
allestivo prima delle sedute e smontavo subito dopo: come mi rivelò in seguito,
era seriamente convinta che fosse tutto finto. Temeva che ogni mio atteggiamento
fosse una finzione e che anche lo studio fosse solo una parvenza. Perciò, ogni
volta controllava che le cose fossero tornate tutte al loro posto, nel timore
che io avessi dimenticato qualche particolare, nel timore di scoprire qualche
conferma della sua angosciosa convinzione persecutoria e nella speranza
inconscia di poterla smentire. Ma non è di questo primo episodio che vorrei
parlare. E nemmeno vorrei dilungarmi sulla successiva serie di drammatizzazioni
e ridimensionamenti di un lungo elenco di paure (Weiss parlerebbe,
probabilmente, di una serie di test
che la paziente mi ha fatto e che io, bene o male, sono riuscito a superare),
perché vorrei arrivare direttamente alla crisi culminante che si verificò dopo
quasi due anni di terapia, quando, alla fine, ci trovammo alle prese con la
paura più grande di tutte. La paura, voglio anticipare, che, se l’avessi conosciuta più intimamente di
quanto non fosse ancora avvenuto fino a quel momento, se avessi ascoltato le
cose che ancora non aveva avuto il coraggio di confessare, sicuramente io avrei
reagito con il più assoluto ribrezzo e non avrei potuto fare a meno di
rifiutarla e di volerla allontanare definitivamente da me. Entrando in questa
fase, Caterina avvertì un senso di completo abbattimento e di disperazione
terrorizzante e cominciò a condurre attacchi feroci a se stessa e al legame.
Ripetutamente dichiarò la sua sfiducia totale nella psicoanalisi e mi accusò di
averla privata delle difese che le avevano consentito fino a quel momento di
vivere. Ventilò più volte l’ipotesi del suicidio come unica
soluzione possibile e, alla fine, minacciò di interrompere l’analisi, poi lo fece veramente. A
questo punto, dopo avere sperimentato la solita altalena di preoccupazione,
impotenza e angoscia, io mi sorpresi di essermi calmato completamente e, quando,
dopo una decina di giorni, Caterina mi telefonò per chiedermi se la sua ora era
sempre disponibile, le risposi tranquillamente di no, che l’avevo assegnata ad un’altra persona. Le proposi un’alternativa, che accettò senza battere
ciglio e, da quel momento, fu evidente per entrambi che qualcosa era davvero
cambiato. Caterina ritrovò quasi per magia un approccio più realistico ai suoi
diversi problemi psicologici ed economici e riprese a collaborare nel dialogo
analitico. Da allora in poi non ci sono più state crisi degne di questo nome,
anche se, naturalmente, hanno continuato a presentarsi dei momenti difficili, ma
qualcosa era definitivamente cambiato nel modo di essere di Caterina. Direi che
ha compiuto un “salto quantico” nella relazione con se stessa e, di conseguenza,
con me e con gli altri. Il suo modo di essere ha acquistato stabilità e
corporeità: la sento meno in balia degli opposti, meno imprevedibile, più
collaborativa e anche più affettuosa. Il disturbo alimentare è quasi
completamente scomparso, ma, soprattutto, si è dissolta la carica esplosiva di
autodisprezzo e di auto-odio, al posto della quale si è stabilito un rapporto
riflessivo e autoanalitico con se stessa, fatto di curiosità e di scoperte, di
percorsi e di traguardi, capace di dare alla sua vita una carica motivazionale
totalmente nuova.
Discussione
La prima considerazione che sento il bisogno di anteporre a tutte le altre riguarda il fatto che, in tutti e tre i casi che ho presentato, la parte più importante del mio contributo, nel momento di soluzione della crisi, è stata quella emotiva. Vorrei anche sottolineare il carattere di assoluta genuinità della mia risposta emotiva. Mi sono trovato coinvolto in forme di psicodramma d’intensità quasi sopraffacente, spaventato dalla gravità delle situazioni e spiazzato dal precipitare degli eventi. A parte che non ne sarei mai stato capace (non credo di essere un attore così bravo), non riesco proprio a credere che se io avessi finto, o mi fossi sforzato di emozionarmi di più di fronte alla disperazione di Frank o di sentirmi tranquillo in relazione ai comportamenti di Caterina, ciò avrebbe funzionato.
Ho descritto situazioni di
crisi che rientrano probabilmente fra quelle che Freud, a discolpa del
terapeuta, avrebbe denominato “reazioni terapeutiche negative”: come dire che
l’analista ha fatto bene il suo
lavoro, ma, ciò nonostante, il paziente peggiora anziché migliorare. Sono
situazioni caratterizzate da una dimensione psicologica di intensa
drammatizzazione di angosce basilari e arcaiche e ciò le rende qualitativamente
diverse da qualsiasi genere di “normalità” che ci aspetteremmo di trovare anche
negli scambi emotivi che avvengono all’interno di una relazione d’aiuto così particolare. Mai come in
queste circostanze abbiamo la sensazione di seguire il paziente fino in fondo
all’inferno nel quale si trova
imprigionato e, in verità, questo compito ci spetta, poiché esso caratterizza
specificamente la psicoanalisi e la distingue dalle altre forme di psicoterapia.
Tale inferno corrisponde al manifestarsi di veri e propri nuclei di follia. Così
come sarebbe impossibile curare un delirio spiegando al delirante che la realtà
non è brutta come lui la vede, risulta altrettanto impossibile uscire da un’impasse del tipo che ho descritto
minimizzandola o restando fuori dal gioco. I fantasmi, che si attivano in questi
casi, sono delle spaventose realtà per il paziente. Al sopraggiungere di tali
angosce, che sono vere e proprie forme di panico, egli si sente spacciato e non
gli servirebbe a nulla, anzi si sentirebbe abbandonato e potrebbe anche reagire
infuriandosi se, da parte dell’analista, fosse fatto oggetto di una
forma di partecipazione più distaccata. In questi casi, temo che la neutralità e
il distacco dell’analista
classico produrrebbero una spirale maligna e sono d’accordo con quanto sostengono Stolorow
e coll. relativamente alla natura iatrogena della “reazione terapeutica
negativa” (Stolorow e Atwood, 1992).
Inoltre, sono perfettamente
d’accordo con Kohut, quando
afferma: “Se l’analista è capace
di sopportare il calore, se continua ad allargare la sua osservazione
empatica anziché allontanarsi dal paziente dichiarandolo non analizzabile
- come se questo termine connotasse una realtà oggettiva nella quale l’analista stesso non è incluso - potrà
essere ricompensato dall’assistere al modo in cui un caso al
limite diventa un disturbo narcisistico della personalità (cioè una nevrosi
grave, ma analizzabile)” (Kohut, 1984). Soltanto che, in questi casi, credo che
l’unico modo per “allargare
l’osservazione empatica”, cioè
l’unico modo da parte dell’analista per mettersi nei panni del
paziente e quindi nella condizione di comprendere le sue terrificanti esperienze
emotive dall’interno della
sua prospettiva psicologica soggettiva, sia proprio quello di lasciarsi
coinvolgere, suo malgrado, nella poco agevole spirale di una circoscritta follia
a due. In un precedente lavoro, ho sviluppato la tesi di una relazione di
complementarità fra empatia e controtransfert (Lorenzini, 2004), qui però sto
andando un poco oltre, perché, in sintonia con gli autori delle diverse scuole
che ho precedentemente citato, anch’io mi sono convinto che la crisi sia
non solo inevitabile (fallimento dell’empatia), ma, in certi casi, anche
indispensabile nella terapia del paziente grave (accompagnamento nell’inferno di un nucleo psicotico).
Il crollo psicologico che dà
inizio alla crisi sembra corrispondere, nella maggior parte dei casi, al crollo
di una difesa primitiva, alla perdita traumatica di un’illusione, d’una idealizzazione di se stessi o del
partner analitico, all’improvviso
venir meno d’una speranza di
onnipotenza, alla quale il paziente era aggrappato. Tale crollo si verifica
nell’impatto con i limiti della
relazione, in quanto relazione con una persona reale, cioè con l’effetto inevitabilmente prodotto
dall’analista in quanto persona
reale, e quindi separato, diverso ed esterno rispetto al Sé del paziente. È
inevitabile, per esempio, che si manifesti qualche forma d’inadeguatezza o d’imperfezione nello svolgimento di
quelle funzioni di comprensione, di spiegazione e di sostegno del Sé, delle
quali l’analista è stato
incaricato. Così come è inevitabile che falliscano determinate strategie di
controllo onnipotente o che, con l’importanza che viene progressivamente
ad assumere il legame, entri in crisi la possibilità di mantenere un marcato
ritiro emotivo. In analogia con la classica spiegazione freudiana che paragona
la depressione alla condizione affettiva del lutto, potremmo arrivare a pensare
che anche il paziente in crisi sta vivendo il lutto di una perdita ma, siccome
non si tratta della perdita di un oggetto ma di una difesa onnipotente (Sé
grandioso) o di un oggetto-sé onnipotente, possiamo capire come mai egli patisca
spesso degli affetti simili a quelli di una grave ferita narcisistica, come la
confusione, l’intensa vergogna,
l’angoscia di annientamento e di
frammentazione, e, in certi casi, la rabbia vendicativa.
Secondo la psicologia del
Sé, la cura avviene attraverso l’esperienza ripetuta di “frustrazioni
ottimali”: il paziente passerebbe attraverso una lunga serie di mini-crisi e in
questo modo interiorizzerebbe le funzioni psicologiche precedentemente
attribuite all’oggetto-sé arcaico
(onnipotente). Ma quello che rimane più difficile da capire, ed appare semmai in
contrasto con questa teoria della cura, è un percorso fatto di episodi
ricorrenti e ingravescenti, fino ad una crisi culminante che dovrebbe essere la
più traumatica di tutte e che, invece, dà luogo ad una svolta terapeutica
decisiva.
È forte l’impressione di un processo che si
svolge nel tempo, o meglio che ha bisogno del suo tempo, sia per quanto riguarda
la serie delle crisi, sia per quanto riguarda la dinamica di ogni singola crisi.
Quando, dopo un tempo caratteristicamente prolungato, la risposta emotiva
dell’analista sembra presentarsi
all’improvviso come una chiave di
volta, ciò potrebbe semplicemente significare che, improvvisamente, c’è una serratura nella quale, con un
po’ di abilità, non è difficile
introdurre una chiave. È possibile che l’inconscio di Frank, inscenando lo
psicodramma, abbia generato l’immagine del dolore (la pietà) di modo
che io potessi riconoscerla e il Sé di Frank, rispecchiandosi nella mia risposta
emotiva, potesse finalmente riconoscere se stesso? In altri termini, che il suo
inconscio abbia predisposto le cose come un abile regista, allo scopo che Frank
ritrovasse il proprio Sé? In effetti, ciò mi sembra non solo plausibile, ma
anche altamente probabile. In questo caso, la serratura sarebbe comparsa
prima della chiave. Per quanto
riguarda Caterina, il cambiamento ha avuto un carattere di simultaneità:
quando mi ha telefonato, mi ha trovato tranquillo e penso che ciò sia stato
determinante per il corso successivo degli eventi, ma lei stessa si era già
calmata, dopo avere trovato il coraggio d’interrompere l’analisi. Volendo utilizzare la
terminologia di Searles e di Seinfeld, perché, arrivati ad un certo punto della
simbiosi terapeutica, è necessario regredire alla simbiosi ambivalente o alla
fase senza contatto, per potere solo successivamente procedere nella via della
guarigione? Si può forse rispondere che ciò accade per la necessità di fare
emergere e di elaborare determinati nuclei psicopatologici precedentemente
scissi. In mancanza di ciò, il progresso sarebbe soltanto apparente e si
baserebbe su una patologia di falso sé, su una forma di compiacenza verso l’analista e non su un vero processo di
guarigione.
Winnicott predisponeva per i
pazienti gravi un particolare ambiente di holding, atto a facilitare e a
contenere la loro regressione, cosa che per lui era molto faticosa. Egli aveva
formulato un’illuminante
distinzione fra la madre che è capace di fare e la madre che è capace di
essere, nell’accudimento
del bambino: “Essere, unitamente a identità tra il Sé e l’oggetto, sono secondo Winnicott
caratteristiche dell’elemento
femminile presente in entrambi i sessi, mentre fare e separatezza
sarebbero tratti dall’elemento
maschile. L’elemento femminile
(…) costituisce la base del senso di esistere e il fondamento del Sé. Se la
madre non gli offre un seno che è, ma un seno che fa, il bambino
tenderà a sviluppare una capacità deficitaria di essere” (Bacal e Newman,
1990). Sarebbe quindi in gioco, da parte del paziente, la difficoltà di
regredire fino a quel modo di essere arcaico dal quale deve ripartire, se vuole
realizzare il suo vero Sé. Ogni crisi sarebbe un tentativo di spingersi in
quella direzione e ogni nuova crisi si avvicinerebbe un po’ di più al compito necessario.
All’analista, invece, si
richiederebbe un’analoga
“capacità di essere (se stesso)”, soltanto in presenza della quale, come in
presenza di un catalizzatore indispensabile, il paziente troverà il coraggio per
riprendere il contatto con il proprio vero Sé.
Kohut ha definito l’empatia, nel suo aspetto attivo di
metodo osservativo, “introspezione vicariante”, cioè una forma vicariante
dell’osservare, per cui, per
contrapposizione, si potrebbe definire quest’altro indispensabile aspetto dell’empatia verso il paziente bloccato
nella crisi, cioè la capacità di essere se stesso da parte dell’analista, come una “forma vicariante
del sentire”. Per esercitare l’”introspezione vicariante” l’analista compie un esperimento
mentale: ascolta il paziente e ricorda o immagina alcune esperienze personali
analoghe a quelle di cui sente parlare. In altri termini, ricrea
attivamente nel proprio pensiero la rappresentazione di un’esperienza emotiva analoga e,
successivamente, la porge in forma simbolica al paziente, nel tentativo di
ricreare un po’ per volta, entro
se stesso, determinati aspetti del mondo interno del paziente, finché non ha
luogo la cosiddetta “risonanza empatica” e il paziente afferma di sentirsi
pienamente compreso. Ma tutto questo funziona, finché le emozioni accettano
di farsi rappresentare dai simboli. Quando il mare dell’inconscio è troppo agitato e le
emozioni sono così violente da urtare e squassare la fragile imbarcazione del
Sé, il simbolo, questo duttile riflesso della realtà interiore, appare come un
appiglio troppo elusivo e inconsistente. A questo punto, la seduta analitica si
trasforma in psicodramma e le emozioni si presentano, inevitabilmente, in una
forma agita e concreta. La pesante richiesta che viene fatta all’analista nelle situazioni di crisi è
quella di stare al gioco quando il gioco si fa più duro; proprio allora deve
spogliarsi di ogni suo potere di ruolo e conservare il coraggio di essere
semplicemente se stesso.
Questo “vero Sé in azione”
sembra l’essenza del metodo
utilizzato da Renik nelle situazioni di crisi e da lui denominato
self-disclosure. Nel seminario romano del 20 novembre 2004, organizzato
dalla SIPRe, Renik ha parlato di un caso che ebbe un’importanza cruciale nello sviluppo del
suo metodo. All’inizio della
professione, infatti, egli si trovò imprigionato in un’impasse con una paziente che avanzava
richieste fusionali alle quali non sapeva come rispondere. La crisi si protraeva
e ormai, pur dispiacendosi, pensava, sulla base del training e degli
insegnamenti ricevuti, di dovere interrompere il trattamento, quando si risolse
a parlare francamente delle proprie difficoltà e dei propri dubbi con la
paziente stessa e questo ebbe il potere di sbloccare la situazione. Di lì è nata
la sua convinzione riguardo all’utilità di “giocare a carte
scoperte”.
Mi sembra che Weiss,
affermando la necessità del paziente di sottoporre l’analista a test, abbia proposto una spiegazione
plausibile non solo dell’inevitabilità, ma anche della
necessità della crisi, con l’unico limite che si tratta di una
spiegazione molto pragmatica, utile nella pratica clinica, ma non del tutto
soddisfacente in ambito di teoria della clinica.
Stolorow e coll. hanno
elaborato il prezioso concetto di concretizzazione (concretization) e
l’hanno messo in connessione con
la gravità del disturbo del Sé, perciò sono andati più avanti nel comprendere le
vere ragioni e il linguaggio della crisi: “Noi non teorizziamo il cosiddetto
acting out sessuale o aggressivo nei termini di un apparato
mentale difettoso e incapace di controllare gli impulsi, ma piuttosto
nei termini del bisogno di compiere degli agiti comportamentali allo scopo di
puntellare un mondo soggettivo pericolante” (Atwood, Stolorow,
1984).
Esiste quindi un rapporto di
proporzionalità diretta fra la gravità della condizione psicopatologica e la
“necessità” dell’agito (e della
crisi come unica via d’accesso
per conoscere e curare gli aspetti peggiori del male). La comunicazione
simbolica cede il posto all’agito
quando il senso di sé vacilla, perché in questo modo si può prendere a prestito
la solidità di elementi comportamentali o di percezioni sensoriali
intensificate, allo scopo precipuo di sostituire con esse e di tamponare la
perdita di coesione del Sé.
Può apparire suggestivo
avvicinare la concretizzazione al processo della simulazione incarnata,
messo recentemente in luce dalla ricerca neurofisiologica sui neuroni specchio.
Si è scoperto, infatti, che determinati neuroni motori si attivano non solo
quando compiamo i gesti che tali neuroni sono predisposti a innescare, ma anche
quando vediamo compiere o immaginiamo di compiere gli stessi gesti.
Pare che la mente, al
livello neurofisiologico, funzioni attraverso un’incessante processo di simulazione che
ha il sistema motorio come base unica comune: “L’osservazione di un oggetto, pur in un
contesto che con esso non prevede alcuna interazione attiva, determina l’attivazione di un programma motorio
che impiegheremmo se volessimo interagire con l’oggetto. Vedere l’oggetto significa evocare
automaticamente cosa faremmo con quell’oggetto. Significa immaginare un’azione potenziale:
l’oggetto è l’azione potenziale. Le cose, gli
oggetti acquisiscono la piena significazione solo in quanto costituiscono uno
dei due poli di una diadica relazione dinamica con il soggetto agente, che di
questa relazione costituisce il secondo polo” (Gallese, 2000). Possiamo forse
intuire che l’indebolimento del
soggetto agente, cioè del Sé, significhi, a livello neurofisiologico, un
indebolimento o un’incapacità di
organizzare determinate azioni potenziali, nelle quali si esplica la forza e la
coesione del Sé. Ecco allora la necessità di reagire a questo venire meno,
surrogando le azioni potenziali con azioni reali e, con esse, riguadagnare un
certo tipo di presa sugli oggetti e (forse anche solo illusoriamente) rafforzare
quel “secondo polo” dell’azione
che è il soggetto agente, restituendo quasi per magia coesione al Sé
indebolito.
Conclusione
La crisi getta l’analista in una condizione gravosa,
delicata e di grande responsabilità. Rifacendomi a Fosshage (2004), potrei dire
che, in una prima fase della terapia del paziente grave, il mio tentativo di
essere empatico in senso kohutiano (la prima delle tre modalità di ascolto di
cui parla Fosshage) mette in moto un processo che è fatalmente
(fisiologicamente) destinato a fallire. La crisi alla quale puntualmente si va
incontro è una verifica sperimentale del fatto che la cosa (al di là di una
certa gravità psicologica) risulta impossibile: l’empatia in senso kohutiano è un’idealizzazione di ciò che l’analista può fare, perché in realtà
nessuno può provare emozioni (cosa indispensabile, d’altra parte, per ascoltare in maniera
emotivamente partecipe e per restituire un’eco emotiva attraverso il proprio
ascolto), senza essere personalmente (e imprevedibilmente) coinvolto e, quindi,
essere se stesso e non l’altro della relazione (Mitchell,
per esempio, esprime apertamente questa obiezione). Essere personalmente
coinvolto, sostiene articolando più sottilmente Fosshage, comporta due livelli:
diventare in maniera controtransferale l’altro del paziente (il “vecchio
oggetto” di cui ha parlato Altman nel corso del seminario SIPRe del 2004) o, più
autenticamente, essere se stessi: “prospettiva centrata sul sé dell’analista” (“nuovo oggetto” di Altman o
self-disclosure di Renik). Il mio lavoro riguarda l’intergioco di queste diverse modalità
di ascolto e l’effetto
terapeutico che ne può derivare. Nella crisi, il paziente vive la disperazione
del fatto che io non posso essere lui, cioè la necessità di rompere una
simbiosi. Nella svolta si realizza una specie di morte e rinascita, avviene cioè
una trasformazione psicologica, o una nuova delimitazione del sé nucleare, per
usare il linguaggio della psicologia del Sé, per cui il paziente diventa
improvvisamente capace di autoriflessione e di riconoscere e di accettare il
fatto che io non sono lui, pur non essendo nemmeno il suo vecchio oggetto. Sulla
base dell’esperienza che fa di
me come oggetto nuovo, ricostruisce improvvisamente un senso di sé nuovo che gli
consente di riorganizzare, in forma non più patologica, determinate esperienze
emotive che non poteva precedentemente integrare con il vecchio senso di sé che
era mantenuto fisso nella ripetitività della relazione con il vecchio oggetto.
Il punto cruciale perché questa operazione avvenga resta però difficile da
individuare e vorrei che queste riflessioni stimolassero i colleghi a dibattere
ulteriormente l’argomento. Lo
sforzo empatico prolungato che io faccio seguendo Kohut porta il paziente a
sbilanciarsi, nel senso di osare di vivere la sua illusione simbiotica
(appassionatamente e disperatamente conservata nascosta nel suo intimo) che
qualcuno possa finalmente essere lui. La strada che si imbocca in questo modo è
inevitabilmente quella della ripetizione del trauma. Qualcosa però fa sì che nel
momento massimamente (e giustamente) temuto dell’avverarsi della delusione traumatica
non succeda realmente né l’avverarsi dell’illusione, né l’avverarsi della delusione, ma un nuovo
modo di essere in relazione con l’altro e con se stesso e quindi un
nuovo modo di essere se stesso e, per così dire, un nuovo Sé. Come riesce questa
operazione? Dobbiamo accontentarci di credere che sia in gioco una forma di arte
terapeutica, di sensibilità particolare che si sviluppa soltanto con l’esperienza e che consiste nel saper
abilmente dosare i tre diversi elementi (empatia, oggetto vecchio e oggetto
nuovo) in maniera terapeutica e opportuna e non in maniera dannosa e fatale,
oppure possiamo sperare, col tempo, di arrivare a comprendere questo
procedimento in maniera ancora più accurata e scientifica di quanto io non sia
riuscito a fare, rendendolo più maneggevole e meno “eroico” da parte dell’analista che intenda impegnarsi nella
terapia dei casi gravi?
Note
1 Si tratta di un concetto
che Ogden ha ripreso da Bion e utilizzato a proposito della terapia degli
schizofrenici: “Il paziente schizofrenico in uno stato di chiusura psicologica
di non-esperienza si è reso incapace di generare significati di qualsiasi tipo,
compreso quello di esistenza vuota e senza senso” (Ogden 1991, trad. it., 1994:
23).
Sommario. La terapia del paziente grave deve affrontare e sciogliere dei veri e propri “nuclei di follia”. Essi vengono attualizzati attraverso crisi che coinvolgono il terapeuta in situazioni letteralmente drammatiche. La concretizzazione (concretization) delle configurazioni esperienziali del paziente produce infatti degli psicodrammi che offrono possibilità preziose al terapeuta e, contemporaneamente, non gli lasciano scampo, perché in quei momenti cruciali la terapia passa attraverso la sua capacità di essere autenticamente se stesso.
Summary. The needed crisis. The treatment of the seriously ill patient must face and dissolve “cores” of sheer folly. They are acted out through crises involving the psychotherapist in truly theatrical situations. The concretization of the patient’s experiential configurations produces actual psychodramas that offer precious chances to the psychotherapist who, at the same time, cannot be helped, because in those crucial moments, the treatment passes through his/her capacity of being authentically himself.
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