La crisi necessaria

Ricerca Psicoanalitica, n. 1/2006


Il peggioramento in corso di terapia non è sempre segno che le cose vadano davvero male: tutti noi riscopriamo quasi ogni giorno, nella nostra pratica, la verità dellantico adagio per cui “non tutto il male viene per nuocere”. A pensarci bene, il concetto che la cura psicologica passi attraverso crisi, nelle quali il male si attualizza e si acutizza prima di scomparire definitivamente, è così antico da creare quasi una sensazione di sgomento. È unesperienza, infatti, che la psicoanalisi ha ereditato dalla psichiatria dinamica, la quale godeva già di una lunga tradizione ai tempi di Charcot e di Bernheim, i maestri ipnotisti di Freud. Ellenberger fa risalire linizio della psichiatria dinamica a Franz Anton Mesmer, il quale, alla fine del Settecento, “magnetizzava” le persone malate e provocava in esse delle crisi catartiche. Ma, a sua volta, Mesmer aveva rubato lo scettro della psicoterapia a Gassner, lultimo dei grandi guaritori esorcisti (Ellenberger, 1970)… e non aggiungo altro; quindi, come si vede, la questione della crisi attraversa, in realtà, tutta la storia della psicoterapia e risale gli abissi del tempo.
Venendo in particolare alla psicoanalisi, lo sviluppo della nostra scienza è avvenuto fin dallinizio come una continua lotta contro gli ostacoli e le complicazioni che si frappongono alla guarigione psicologica e sono ben note le tappe concettuali che segnano lopera di Freud lungo questo faticoso percorso: la resistenza, il transfert, il controtransfert, la coazione a ripetere, il masochismo primario, la reazione terapeutica negativa…
Freud introduce la nozione di coazione a ripetere in Ricordare, ripetere e rielaborare (1914), presentandola come una forma agita del ricordare, alla quale, tutto sommato, lanalista poteva dare il benvenuto, soprattutto allinterno del transfert, dove essa, determinando linsorgenza della nevrosi di transfert, agiva al servizio dellanalisi. Sei anni più tardi, però, in Al di là del principio di piacere (1920), la coazione a ripetere viene già da lui interpretata come unespressione di quella forza psichica, diversa dal principio di piacere, che vuole riportare a zero ogni sviluppo psicologico e che, in definitiva, vuole riportare la vita alla morte. Alla fine poi del suo combattivo percorso intellettuale e professionale, Freud, in Analisi terminabile e interminabile, spiegando esplicitamente tutti gli ostacoli che si frappongono alla guarigione psicologica come altrettante espressioni dellistinto di morte, non solo dà prova del suo cosiddetto pessimismo ma, in un certo senso, effettua anche unoperazione poco trasparente da un punto di vista scientifico, perché pretende di fissare una sorta di limite definitivo, sbarrando di fatto la via allo sviluppo futuro delle potenzialità teoriche e terapeutiche delle psicoanalisi: “(…) le manifestazioni derivanti dallimmanente masochismo di tanta gente, dalla reazione terapeutica negativa e dal senso di colpa dei nevrotici (…) costituiscono prove inequivocabili della presenza, nella vita psichica, di una forza che per le sue mete denominiamo pulsione di aggressione o di distruzione e che consideriamo derivata dalloriginaria pulsione di morte insita nella materia vivente” (Freud, 1937: 525).
Freud arrivò, per lappunto, a questa spiegazione definitiva, sviluppando la teoria delle pulsioni, cioè portando alle estreme conseguenze quel leit-motiv che ha accompagnato la sua ricerca dallinizio alla fine: il tentativo di fondare la psicologia del profondo sulla biologia e non sulla relazione psicologica fra gli esseri umani. Egli era condizionato dal suo tempo, da una pretesa di scientificità vecchio stampo e forse anche da certe problematiche psicologiche personali che erano sfuggite alla sua autoanalisi: “(…) noi pensiamo che la teoria freudiana dello sviluppo psicosessuale serva non solo a spostare nel bambino la causa di ogni male, per assolvere la madre da ogni responsabilità, ma che serva anche a mantenere difensivamente separati gli aspetti buoni della madre da quelli cattivi, per arginare lintenso conflitto inconscio dambivalenza che Freud aveva nei suoi confronti. Il presupposto freudiano di un istinto di morte innato, che fa dellostilità una necessità biologica piuttosto che una reazione al tradimento e alla delusione, può essere interpretato come il definitivo trionfo del desiderio di assolvere la madre” (Atwood and Stolorow 1984: 57-58).
In effetti, le cose sono andate un po diversamente, rispetto alle pessimistiche previsioni di Freud. Linterpersonalismo americano, le scuole inglesi delle relazioni oggettuali, la psicologia del Sé e, per finire, lattuale sfaccettata corrente della Psicoanalisi Relazionale hanno progressivamente e definitivamente spostato il fuoco della riflessione psicoanalitica dalle pulsioni agli affetti, cioè dalle cause biologiche a quelle psicologiche, e, contemporaneamente, dalla prospettiva psicologica della mente isolata a quella dellinterdipendenza e dellintersoggettività (Stolorow e Atwood, 1992). Alla ribalta dellinteresse clinico sono salite le problematiche relative allinsicurezza, allattaccamento, alla fragilità del Sé, ai bisogni doggetto-sé, ai principi inconsci che organizzano e leggono lesperienza in maniera precostituita e danno origine a previsioni pessimistiche e a schemi emotivi e comportamentali rigidi e ripetitivi. La teoria della cura, di conseguenza, si è maggiormente interessata alle relazioni oggettuali, ai bisogni di conferma, di sostegno e di sviluppo del Sé, al bisogno di costruire nuovi principi organizzatori inconsci che si affianchino a quelli vecchi e al bisogno di smentire determinate convinzioni patologiche, in modo da potere aprire la propria esistenza ad esperienze nuove. Ovviamente, si è infranto anche il monopolio terapeutico dellinsight conoscitivo che nella teoria classica era considerato come lunico fattore curativo autenticamente psicoanalitico. Questo è successo perché non crediamo più che linconscio se ne stia là, dentro la mente del paziente, come una cosa che possiamo osservare nella sua datità, come se fosse un oggetto del mondo fisico. Non pensiamo più che questa sia la natura della mente, né di quella conscia, né di quella inconscia. Inoltre, pensiamo che ci sia una particolare complessità in gioco: una dialettica intrapsichica e una dialettica intersoggettiva, le quali, a loro volta, interferiscono fra di loro.
A proposito della dialettica intrapsichica, James Grotstein si è spinto provocatoriamente ad affermare quanto segue: “LEs che Freud aveva scoperto venne contrapposto allIo e Freud assegnò allIo, ma non allEs, la consapevolezza delle percezioni. Di conseguenza, lEs divenne, fra le altre cose, un oggetto di osservazione da parte dellIo. Ciò che Freud sembra avere ignorato è che anche lEs, a sua volta è un osservatore. La mia teoria a doppio binario è un tentativo di perorare la causa di una co-soggettività, in modo che lEs possa essere considerato un osservatore tanto quanto lIo: un osservatore che osserva empaticamente, cioè attraverso lintrospezione empatica, mentre lIo potrebbe essere lagente di unosservazione distaccata” (Grotstein 1983: 167).
Risale al 1968 la pubblicazione degli Studi sulla tecnica psicoanalitica, nei quali Heinrich Racker (1968) ha sviscerato largomento del controtransfert in maniera estremamente dettagliata e, da allora in poi, lo studio della dialettica intersoggettiva è stato sempre più al centro del­lin­teresse di autori provenienti da scuole diverse (tra i più attuali, basti citare Seinfeld, Ogden, Weiss, Mitchell, Stolorow e coll.). Attualmente essa è oggetto di particolare attenzione nellambito della Relational Psychoanalysis, dove il concetto di controtransfert tende ad essere abbandonato e sostituito con quello, puro e semplice, di soggettività della­na­lista (Renik, 1993).
Questa diversa prospettiva che si è venuta a creare, un cambiamento filosofico complessivo, originato come una spinta dal basso proveniente dal lavoro quotidiano di tanti analisti di orientamenti e scuole diverse, non ci consente più di credere nella possibilità o nellutilità di isolare e di esorcizzare il male (le manifestazioni dellinconscio) attraverso delle polarità identificatorie simili a quelle che caratterizzano la medicina organica, che tendono a separare nettamente la salute dalla malattia (e, di conseguenza, il medico sano dal paziente malato), per separare, a sua volta, il paziente in una parte sana (fatta di razionalità genericamente condivisa) e una parte insana (irrazionalità e distorsioni inconsce da smascherare e ricondurre alla norma). Perciò, Hoffman afferma che: “(…) il pensiero dicotomico è inerente alloggettivismo, come il pensiero dialettico è inerente al costruttivismo. Pensare in maniera dicotomica (…) fa parte dellidea oggettivista che lana­lista possa scoprire con precisione dove finiscono il suo contributo e leffetto dellinterazione attuale. Al contrario, vedere il transfert e il controtransfert in relazione dialettica fra loro crea una zona dirriducibile ambiguità e indeterminatezza circa la natura della loro interazione e della reciproca influenza, una zona che è spesso aperta a molteplici possibili costruzioni interpretative” (Hoffman, 1998).
Grazie a questo cambiamento generale di prospettiva, possiamo oggi accostarci alla coazione a ripetere, alla reazione terapeutica negativa e a tutte le sopra citate manifestazioni del presunto istinto di morte in maniera decisamente più fiduciosa, e nel corso degli anni sono state avanzate diverse nuove ipotesi per spiegare le complesse dinamiche emotive che hanno luogo quando le dimensioni psicopatologiche più basilari si mobilitano nella relazione e investono la coppia analitica.
Secondo la scuola kleiniana, il paziente proietta nellanalista quei contenuti mentali che non è in grado di gestire autonomamente, allo scopo (inconscio) che questi li elabori e li restituisca trasformati in qualche forma più abbordabile: “La tecnica terapeutica per gestire lidenti­fica­zione proiettiva (…) è intesa per mettere a disposizione del paziente in una forma lievemente modificata ciò che era già suo, ma che in origine non era utilizzabile ai fini dellintegrazione e della crescita psicologica” (Ogden 1991, trad. it. 1994: 48).
Jeffrey Seinfeld riprende da Searles la concezione di uno sviluppo del processo psicoanalitico, nella terapia del paziente grave, che passa attraverso quattro fasi: la fase senza contatto, la simbiosi ambivalente, la simbiosi terapeutica e la risoluzione della simbiosi. La reazione terapeutica negativa è tipica della simbiosi ambivalente, cioè della fase in cui si concretizza una lotta, a tratti anche molto violenta, fra l’”oggetto cattivo” che domina il mondo interno del paziente e presiede agli equilibri patologici che hanno caratterizzato la sua sopravvivenza psicologica e l”oggetto buono” che viene attivato nel rapporto con il terapeuta: “la paziente cominciò a pensare, tra una seduta e laltra, a quello che le avevo detto sulla sua paura dei sentimenti positivi e si sentì turbata (…) inoltre cominciò a provare contemporaneamente sentimenti positivi e negativi verso di me. Questa temporanea ambivalenza la colpì come un fatto strano e sconvolgente; si sentì come se stesse impazzendo” (Seinfeld, 1990).
Secondo la Psicologia del Sé, il paziente grave avanza dei bisogni narcisistici di rispecchiamento e di idealizzazione che hanno qualità arcaiche e fusionali. Lanalista deve accogliere tali bisogni durante una fase anche molto prolungata di comprensione empatica, allo scopo di poterli, solo successivamente, trattare in maniera interpretativa: “(…) nellanalisi di pazienti gravemente traumatizzati, lo stadio della comprensione deve restare lunico per un periodo molto lungo del trattamento” (Kohut, 1984).
Secondo la scuola americana di Mount Zion Hospital, il paziente mette inevitabilmente a dura prova lanalista, a causa del suo impellente bisogno di smentire determinate convinzioni pregiudizialmente pessimistiche e, di conseguenza, patologiche: per questo motivo, quando si sente sufficientemente al sicuro nella relazione con lanalista, comincia a coinvolgerlo in intense drammatizzazioni, dando per scontato il rifiuto, lab­ban­dono o la ridicolizzazione di sé, allo scopo inconscio di poter fare unesperienza diversa e di arrivare a smentire e a smantellare i propri soffocanti paradigmi emotivi. “Il paziente mette alla prova le sue credenze patogene attraverso azioni sperimentali, con un comportamento che, in base a tali credenze, dovrebbe avere un determinato effetto sul­lanalista; spera tuttavia che tale effetto non si verifichi” (Weiss, 1993). “(…) il terapeuta non deve essere neutrale, ma deve diventare alleato del paziente nello sforzo di disconfermare le sue credenze patogene e di perseguire i suoi obiettivi. Non deve evitare di utilizzare la rassicurazione o lautorità in situazioni in cui possono essere daiuto. Linterpretazione non è quindi la condizione sine qua non della terapia” (Weiss, 1993). Da questo punto di vista, la crisi è inevitabile e, nella migliore delle ipotesi, rappresenta un peggioramento solo apparente, ossia un indispensabile emergere di contenuti emotivi inconsci che investono la relazione e si rendono finalmente disponibili per la cura.
Stolorow e Atwood, esponenti della corrente dellintersoggettività (che hanno sviluppato a partire dalla psicologia del Sé), si spingono ad affermare che “le impasses terapeutiche, se analizzate dal punto di vista dei principi che organizzano a livello inconscio le esperienze del paziente e del terapeuta, rappresentano unoccasione unica, una via regia per raggiungere lobiettivo della comprensione psicoanalitica” (Stolorow e Atwood, 1992). Gli stessi autori, in collaborazione con Bernard Brandchaft, presentano, in effetti, la terapia del paziente grave come una tormentosa e inevitabile successione di crisi. Nel caso di Anna, una ragazza psicotica di 19 anni, la prima impasse sincentrò intorno alla sua pretesa, apparentemente assurda di essere picchiata dallanalista. Voleva essere picchiata perché, emotivamente, questa le sembrava lunica possibilità di essere raggiunta nel suo ritiro difensivo (nella “caverna isolata, dentro la mia mente”), ma fu duro arrivare a questa spiegazione. La seconda impasse fu la conseguenza di avere inglobato lanalista nel proprio sistema delirante, per cui percepiva “raggi bloccanti” che partivano dai suoi occhi e “costruivano muri” dentro al proprio cervello. Concretizzandola, esprimeva così lemozione sopraffacente di sentirsi bloccata, quando lempa­tia del terapeuta veniva meno. La terza impasse si manifestò come richiesta impellente e intransigente di essere totalmente compresa: “Tu puoi comprendere tutta la mia vita, non è vero? Sbrigati! Dai, forza, fallo subito, fai luce su tutta la mia vita!”.
Qui laccento era sulla parola “tutta”, come arrivò a comprendere il terapeuta dopo molto penare: ciò significava il bisogno di essere tenuta insieme, di ritrovare lunità del Sé, ora che la ragazza aveva abbandonato molte delle sue precedenti difese patologiche (Stolorow, Brandchaft, Atwood, 1987).

Casi clinici

Riferirò adesso alcuni esempi di situazioni di crisi che si sono verificate nella mia pratica terapeutica, con particolare attenzione rivolta ad individuare il momento determinante di soluzione dellimpasse, nel tentativo di chiarire il fattore terapeutico che finalmente, entrando in scena, ha dato origine alla svolta. Il primo esempio è particolarmente drammatico.
Frank, un uomo di 25 anni, è entrato in terapia a causa di intensi e ricorrenti stati di depressione vuota, subentrati in lui dopo che al padre è stato diagnosticato un tumore incurabile al cervello. Ben presto risulta evidente un grave disturbo del Sé: cè un falso Sé che si è sviluppato a scapito del vero Sé, manifestandosi come tendenza coatta a soddisfare le aspettative degli altri, ad essere esageratamente bravo, forte, coraggioso, responsabile e addirittura impavido, a scapito della spontaneità e del senso di essere più genuinamente se stesso nelle diverse situazioni della vita. Si tratta, per di più, di un falso Sé particolarmente pervasivo che, praticamente, non lascia spazio al vero Sé. Nei sogni, esso si presenta inizialmente come animale infernale, come gatto nero che ha preso il comando dei centri del piacere del suo corpo e che non può essere tirato via, perché, mentre con una zampa lo masturba, con le altre tre affonda tenacemente le unghie nella carne. In altri sogni appare un vampiro che ha la meglio su di lui, fino a sopraffarlo completamente e a morderlo canonicamente sul collo. Altri sogni adombrano una particolare somiglianza fra la nevrosi di questuomo e il tema letterario del patto con il diavolo. Con preoccupazione e sconcerto, assisto ad un progressivo peggioramento delle condizioni del paziente: la presa di coscienza lo porta alla disperazione. Ho la sensazione di avere ampiamente sottovalutato la gravità del caso. Le sue difese crollano troppo rapidamente e ciò produce uno sconfinamento di tipo psicotico. Solo a questo punto mi si rivela la reale estensione del fenomeno di alienazione nel quale ha sempre vissuto e il suo ritornello diventa: “Dottore, non sento! Non sento niente…”. La tragedia di questuomo si può riassumere così: il ritiro emotivo da se stesso e, di conseguenza, dalla vita reale è tale che egli non ha, si potrebbe dire, la sensazione di esistere, o meglio non ha nessuna sensazione di provare emozioni e vive se stesso come una macchina umana, un robot al quale può comandare comportamenti e simulazioni. Non conserva neppure il ricordo di avere mai provato qualcosa, a livello emotivo. Dice che, da tempo immemorabile, ha imparato a “guardare gli altri” e ad adeguarsi alle diverse situazioni, imitandoli: se le persone ridono, capisce che bisogna ridere e ride anche lui, se sono tristi, finge la tristezza, ecc.. Ancora oggi stento a credere ad una generalizzazione così totale del male e penso che, esprimendosi in questi termini, esagerasse un poco; fatto sta che, da quel momento, avendo messo a fuoco così impietosamente il proprio totale vuoto interiore, cominciò con la serie dei tentati suicidi. Il primo tentativo fu tramite lassunzione di uningente dose di psicofarmaci. La spietatezza contro se stesso fu tale che, non morendo subito ma svegliandosi dopo alcuni giorni di sonno semi-comatoso, ebbe la disumana determinazione di tornare barcollando in farmacia e di procurarsene ancora. Viveva da solo e dovetti intervenire io a salvarlo. Il seguito fu una serie di ricoveri e nuovi tentativi: con il tubo di scappamento, con laccetta, strangolandosi, tagliandosi le vene… Sembrava chiaro che, dopo ogni nuovo ricovero in Psichiatria (dove, senza tanti complimenti, gli avevano fin da subito appioppato una bella diagnosi di schizofrenia), la sua situazione psicologica fosse peggiore di quella precedente e la madre (che, a partire dal primo tentativo, si era trasferita nella casa del figlio) prese insieme a me la coraggiosa decisione di non ricoverarlo più. Durante le sedute, alle quali veniva regolarmente, Frank era per lo più taciturno e sottilmente ostile. Si lamentava costantemente del fatto di “non sentire” e mi spiegò che soltanto quando progettava un suicidio e faceva i preparativi per togliersi la vita riusciva ad emozionarsi un poco e a sentirsi quasi vivo. Aveva dunque sviluppato una sorta di dipendenza dal suicidio: togliersi la vita era lunico modo per dare un significato emotivo alla propria vita. Ricordo di essermi sentito piuttosto provato dalla situazione: ero costantemente in allarme e mi capitava anche di passare delle notti insonni. Non cerano segnali di miglioramento, nonostante la regolarità delle sedute, e non avevo idea di come le cose sarebbero potute andare.
A questo punto, dopo lunga preparazione (ma vorrei dire dopo lunga macerazione), avvenne lepisodio drammatico che dette una svolta alla terapia. Un giorno, Frank entrò puntualmente alla sua ora e si diresse macchinalmente verso la sua poltrona. Anchio mi stavo dirigendo verso il mio solito posto quando, alle spalle delluomo, sbucò improvvisamente la madre, che si era introdotta nello studio come la sua ombra. Non mi ero affatto accorto di lei e la sua improvvisa comparsa mi fece leffetto che la donna si fosse materializzata dal nulla. La madre si precipitò sul figlio, e, quasi gridando, ripeté più volte: “Fallo vedere, fallo vedere al dottore!”. Contemporaneamente gli afferrò i polsi e sollevò con decisione le maniche. È qui che mancano le parole per descrivere lesperienza che io feci in quel momento, nonostante che sia impressa ancora oggi in maniera vivida nella mia mente. Sapevo che, fra le altre pratiche autolesive, Frank usava coricarsi la sera provvisto di lametta, per tagliuzzarsi un po le vene prima di addormentarsi e per cullarsi nellidea consolatoria di morire dissanguato durante il sonno. Quindi mi aspettavo di vedere qualche taglietto. Vidi invece qualcosa di completamente diverso. Lavam­braccio era totalmente martoriato ed essendo stato tagliato e ritagliato tante volte era diventato nero e lunico modo per descrivere laspetto che aveva è dire che ormai era fatto di carne morta. Vidi questo orrore in uno stato di sogno, mentre la scena tragica che avevo davanti irradiava una sorta di potenza mitologica: mi trovavo di fronte alla Pietà e Frank era diventato il Cristo deposto dalla croce. So di non avere nascosto la mia emozione, anche se non ricordo esattamente le parole con le quali, al momento, devo averla accompagnata. Quel che è certo, è che in quellattimo è avvenuto qualcosa di assolutamente determinante, tantè che Frank, da allora in poi, non ha mai più tentato il suicidio. Da quel momento ha ripreso (a suo dire) per la prima volta gradualmente a sentire. Prima la paura e langoscia di sentirsi diverso dagli altri. Poi, nascostamente, inconfessabilmente, leuforia di un piccolo successo personale (la costruzione di un sito internet). Poi, faticosamente, lintera gamma dei sentimenti, attraverso un tormentato percorso di alti e bassi, che ha richiesto molto sostegno da parte mia e che, inizialmente, è stato segnato da altre difficoltà e da altre crisi (bastava che si sbilanciasse anche poco nellinteragire con altri, per riattivare un senso di persecuzione sempre in agguato). Ma, come ho detto, niente di paragonabile a quanto era avvenuto in precedenza.
Nessuna difficoltà incontrata intaccava il solido rapporto di fiducia che si era stabilito con me e la gravità delle ultime crisi, nel complesso, è risultata progressivamente decrescente. A distanza di anni, mi sento di dire che il cambiamento di Frank risulta stabile e definitivo.
Tornando al punto cruciale della storia, che cosa è realmente avvenuto in quel momento particolarissimo che ha segnato la svolta di una terapia così difficile? Per esprimermi nel modo più semplice e immediato, credo di aver percepito Frank per la prima volta; credo, cioè, che in quel momento io abbia potuto vedere per la prima volta fino in fondo al suo dolore. Per certi versi, ero anchio, insieme a lui, nella condizione del “non sentire”, ma in quel momento ho abbandonato anchio le mie difese e ho sentito e Frank si è sentito e, da quel momento in poi, ha cominciato a sentire se stesso e a rapportarsi agli altri attraverso la mediazione del senso di sé. Per usare il linguaggio di Kohut, in quel momento è avvenuta lintegra­zione del Sé nucleare.
Caterina si è presentata come una ragazza dai lineamenti piacevoli e dal fisico muscoloso e un po robusto, in altri termini, una ragazza palestrata e leggermente sovrappeso. Aveva 21 anni allinizio della terapia e un passato di anoressia, alla quale, col tempo, attraverso fasi alterne, si era andata sostituendo la bulimia. Manifestava seri problemi con la propria immagine corporea, ma sarebbe eufemistico dire che non si piaceva, perché i livelli di autodisprezzo e di auto-odio che era capace di raggiungere risultavano, a dir poco, spaventosi. Inoltre, per essere ancora più precisi, il vero problema si collocava ad un livello antecedente al piacersi o non piacersi. Si potrebbe parlare di non accettazione di sé, ma nemmeno questo renderebbe veramente lidea. Ci si avvicina di più alla realtà delle cose, dicendo che non aveva unimmagine sufficientemente definita di sé, come se facesse molta fatica a metterla a fuoco e non fosse in grado di mantenerla stabile dentro di sé, e che questa mancanza di senso di sé la rendeva vulnerabile e disperata, spesso incapace di affrontare il rapporto con gli altri, nonostante la validità intellettuale, la capacità lavorativa, il senso spiccato dellironia e la vivace curiosità per il mondo intorno. Caterina aveva due sorelle e tutte e tre vivevano in casa con i genitori. Il padre, grandioso e inconcludente, passava la vita a controllare ossessivamente i comportamenti degli altri membri della famiglia. La madre, insegnante di scuola elementare, viveva una vita di sopportazione e di sacrificio. I genitori non erano poveri, perché, per esempio, possedevano case, ma non concepivano di sostenere e aiutare le figlie nella loro formazione al di là della scuola dellobbligo, per cui queste, se volevano studiare, dovevano contemporaneamente lavorare e auto mantenersi agli studi. Caterina aveva, di conseguenza, enormi problemi pratici, se lavorava non le restava tempo per studiare, se studiava non poteva pagarsi lanalisi, ecc.. Ma, al di là del mancato aiuto economico, Caterina non si era mai sentita valorizzata come persona. Nessuno si era mai interessato allandamento dei suoi studi, pur essendo stata per molti anni una studentessa impegnata e brillante.
Nessuno era mai andato a parlare con i professori, di modo che sentiva che le sue capacità erano date semplicemente per scontate. Anche al di là della scuola, non aveva mai sentito una considerazione o un interessamento reali da parte dei genitori e, in certi casi, aveva la netta sensazione di risultare invisibile ai loro occhi. A posteriori, quando finalmente una valida capacità autoanalitica prese il posto dellauto-odio e dellautodi­sprezzo, mi mandò per mail alcuni lucidi sfoghi, da cui traggo quanto segue: “Questo ambiente mi fa impazzire, non un giornale, non unidea, sempre e solo questa democrazia cristiana che papà mi diceva, quando ero piccola, che avrei dovuto votare da grande. Meno male che non cè più. Non un viaggio, una curiosità, un quotidiano di cui discutere, notizie di cronaca, niente. Non leggono, non parlano, cosè importante per loro? Come passare una serata in casa quando fuori piove? Io ho paura di essere come loro”. Nessuno, in famiglia, era in grado di percepire il fatto che Caterina avesse dei seri problemi e un urgente bisogno daiuto. Il trattamento riservatole allepoca dellanoressia si basava sulle pressioni fisiche e morali e sullo svergognamento pubblico e sconfinava spesso nella violenza. Risulta superfluo aggiungere che nemmeno in seguito allo sviluppo puberale si era sentita vista, riconosciuta e, tanto meno, ammirata nella propria identità femminile, allinterno di una talmente apatica famiglia dorigine. Una famiglia, inoltre, totalmente ripiegata su se stessa e costantemente vittima del senso fantasmatico e persecutorio di ciò che pensavano “gli altri”. Una famiglia che viveva in un appartamento dominato da unenorme sala di ricevimento, dove nessuno poteva mettere piede, perché un giorno lì, fantasticamente, il padre avrebbe intrattenuto degli incontri ad alto livello e dove, per il resto, mancava lo spazio fisico, oltre a quello psicologico e risultava sempre impossibile delimitare e proteggere un minimo indispensabile di privacy. Pesava molto, a questo riguardo, lintrusività del padre che frugava, spiava i comportamenti, ascoltava le telefonate e annotava ogni cosa, non si sa per quale scopo, per cui Caterina non aveva mai avuto la sensazione di potersi fidare o di sentirsi sufficientemente al sicuro in casa propria. In particolare, poi, aveva sempre avuto forte limpressione di vivere in un set teatrale, piuttosto che in una vera casa, perché, intorno a lei, le cose immaginarie erano sempre risultate più importanti e più significative di quelle reali.
Dopo una luna di miele analitica durata pochi mesi, questo tema del vero e del falso segnò la prima inaspettata crisi di transfert che ci trovammo ad affrontare. Tipicamente, come ho imparato ad aspettarmi in seguito, le crisi di Caterina comportavano una preoccupante qualità di disorganizzazione e confusione mentali: un improvviso peggioramento generale, dopo un periodo allinsegna della sintonia e del progresso analitico, che ogni volta mi sorprendeva e mi spiazzava, perché ogni volta sembrava raggiungere livelli di sofferenza peggiori della crisi precedente. Mi ero già vagamente accorto dello sguardo furtivo di ricognizione generale che la ragazza lanciava, allingresso e alluscita dallo studio. Ma non potevo immaginare che Caterina, intimamente, identificasse il mio studio in una sorta di set teatrale che io allestivo prima delle sedute e smontavo subito dopo: come mi rivelò in seguito, era seriamente convinta che fosse tutto finto. Temeva che ogni mio atteggiamento fosse una finzione e che anche lo studio fosse solo una parvenza. Perciò, ogni volta controllava che le cose fossero tornate tutte al loro posto, nel timore che io avessi dimenticato qualche particolare, nel timore di scoprire qualche conferma della sua angosciosa convinzione persecutoria e nella speranza inconscia di poterla smentire. Ma non è di questo primo episodio che vorrei parlare. E nemmeno vorrei dilungarmi sulla successiva serie di drammatizzazioni e ridimensionamenti di un lungo elenco di paure (Weiss parlerebbe, probabilmente, di una serie di test che la paziente mi ha fatto e che io, bene o male, sono riuscito a superare), perché vorrei arrivare direttamente alla crisi culminante che si verificò dopo quasi due anni di terapia, quando, alla fine, ci trovammo alle prese con la paura più grande di tutte. La paura, voglio anticipare, che, se lavessi conosciuta più intimamente di quanto non fosse ancora avvenuto fino a quel momento, se avessi ascoltato le cose che ancora non aveva avuto il coraggio di confessare, sicuramente io avrei reagito con il più assoluto ribrezzo e non avrei potuto fare a meno di rifiutarla e di volerla allontanare definitivamente da me. Entrando in questa fase, Caterina avvertì un senso di completo abbattimento e di disperazione terrorizzante e cominciò a condurre attacchi feroci a se stessa e al legame. Ripetutamente dichiarò la sua sfiducia totale nella psicoanalisi e mi accusò di averla privata delle difese che le avevano consentito fino a quel momento di vivere. Ventilò più volte lipotesi del suicidio come unica soluzione possibile e, alla fine, minacciò di interrompere lanalisi, poi lo fece veramente. A questo punto, dopo avere sperimentato la solita altalena di preoccupazione, impotenza e angoscia, io mi sorpresi di essermi calmato completamente e, quando, dopo una decina di giorni, Caterina mi telefonò per chiedermi se la sua ora era sempre disponibile, le risposi tranquillamente di no, che lavevo assegnata ad unaltra persona. Le proposi unalternativa, che accettò senza battere ciglio e, da quel momento, fu evidente per entrambi che qualcosa era davvero cambiato. Caterina ritrovò quasi per magia un approccio più realistico ai suoi diversi problemi psicologici ed economici e riprese a collaborare nel dialogo analitico. Da allora in poi non ci sono più state crisi degne di questo nome, anche se, naturalmente, hanno continuato a presentarsi dei momenti difficili, ma qualcosa era definitivamente cambiato nel modo di essere di Caterina. Direi che ha compiuto un “salto quantico” nella relazione con se stessa e, di conseguenza, con me e con gli altri. Il suo modo di essere ha acquistato stabilità e corporeità: la sento meno in balia degli opposti, meno imprevedibile, più collaborativa e anche più affettuosa. Il disturbo alimentare è quasi completamente scomparso, ma, soprattutto, si è dissolta la carica esplosiva di autodisprezzo e di auto-odio, al posto della quale si è stabilito un rapporto riflessivo e autoanalitico con se stessa, fatto di curiosità e di scoperte, di percorsi e di traguardi, capace di dare alla sua vita una carica motivazionale totalmente nuova.

Discussione

La prima considerazione che sento il bisogno di anteporre a tutte le altre riguarda il fatto che, in tutti e tre i casi che ho presentato, la parte più importante del mio contributo, nel momento di soluzione della crisi, è stata quella emotiva. Vorrei anche sottolineare il carattere di assoluta genuinità della mia risposta emotiva. Mi sono trovato coinvolto in forme di psicodramma dintensità quasi sopraffacente, spaventato dalla gravità delle situazioni e spiazzato dal precipitare degli eventi. A parte che non ne sarei mai stato capace (non credo di essere un attore così bravo), non riesco proprio a credere che se io avessi finto, o mi fossi sforzato di emozionarmi di più di fronte alla disperazione di Frank o di sentirmi tranquillo in relazione ai comportamenti di Caterina, ciò avrebbe funzionato.
Ho descritto situazioni di crisi che rientrano probabilmente fra quelle che Freud, a discolpa del terapeuta, avrebbe denominato “reazioni terapeutiche negative”: come dire che lanalista ha fatto bene il suo lavoro, ma, ciò nonostante, il paziente peggiora anziché migliorare. Sono situazioni caratterizzate da una dimensione psicologica di intensa drammatizzazione di angosce basilari e arcaiche e ciò le rende qualitativamente diverse da qualsiasi genere di “normalità” che ci aspetteremmo di trovare anche negli scambi emotivi che avvengono allinterno di una relazione daiuto così particolare. Mai come in queste circostanze abbiamo la sensazione di seguire il paziente fino in fondo allinferno nel quale si trova imprigionato e, in verità, questo compito ci spetta, poiché esso caratterizza specificamente la psicoanalisi e la distingue dalle altre forme di psicoterapia. Tale inferno corrisponde al manifestarsi di veri e propri nuclei di follia. Così come sarebbe impossibile curare un delirio spiegando al delirante che la realtà non è brutta come lui la vede, risulta altrettanto impossibile uscire da unimpasse del tipo che ho descritto minimizzandola o restando fuori dal gioco. I fantasmi, che si attivano in questi casi, sono delle spaventose realtà per il paziente. Al sopraggiungere di tali angosce, che sono vere e proprie forme di panico, egli si sente spacciato e non gli servirebbe a nulla, anzi si sentirebbe abbandonato e potrebbe anche reagire infuriandosi se, da parte dellanalista, fosse fatto oggetto di una forma di partecipazione più distaccata. In questi casi, temo che la neutralità e il distacco dellanalista classico produrrebbero una spirale maligna e sono daccordo con quanto sostengono Stolorow e coll. relativamente alla natura iatrogena della “reazione terapeutica negativa” (Stolorow e Atwood, 1992).
Inoltre, sono perfettamente daccordo con Kohut, quando afferma: “Se lanalista è capace di sopportare il calore, se continua ad allargare la sua osservazione empatica anziché allontanarsi dal paziente dichiarandolo non analizzabile - come se questo termine connotasse una realtà oggettiva nella quale lanalista stesso non è incluso - potrà essere ricompensato dallassistere al modo in cui un caso al limite diventa un disturbo narcisistico della personalità (cioè una nevrosi grave, ma analizzabile)” (Kohut, 1984). Soltanto che, in questi casi, credo che lunico modo per “allargare losservazione empatica”, cioè lunico modo da parte dellanalista per mettersi nei panni del paziente e quindi nella condizione di comprendere le sue terrificanti esperienze emotive dallinterno della sua prospettiva psicologica soggettiva, sia proprio quello di lasciarsi coinvolgere, suo malgrado, nella poco agevole spirale di una circoscritta follia a due. In un precedente lavoro, ho sviluppato la tesi di una relazione di complementarità fra empatia e controtransfert (Lorenzini, 2004), qui però sto andando un poco oltre, perché, in sintonia con gli autori delle diverse scuole che ho precedentemente citato, anchio mi sono convinto che la crisi sia non solo inevitabile (fallimento dellempatia), ma, in certi casi, anche indispensabile nella terapia del paziente grave (accompagnamento nellinferno di un nucleo psicotico).
Il crollo psicologico che dà inizio alla crisi sembra corrispondere, nella maggior parte dei casi, al crollo di una difesa primitiva, alla perdita traumatica di unillusione, duna idealizzazione di se stessi o del partner analitico, allimprovviso venir meno duna speranza di onnipotenza, alla quale il paziente era aggrappato. Tale crollo si verifica nellimpatto con i limiti della relazione, in quanto relazione con una persona reale, cioè con leffetto inevitabilmente prodotto dallanalista in quanto persona reale, e quindi separato, diverso ed esterno rispetto al Sé del paziente. È inevitabile, per esempio, che si manifesti qualche forma dinadeguatezza o dimperfezione nello svolgimento di quelle funzioni di comprensione, di spiegazione e di sostegno del Sé, delle quali lanalista è stato incaricato. Così come è inevitabile che falliscano determinate strategie di controllo onnipotente o che, con limportanza che viene progressivamente ad assumere il legame, entri in crisi la possibilità di mantenere un marcato ritiro emotivo. In analogia con la classica spiegazione freudiana che paragona la depressione alla condizione affettiva del lutto, potremmo arrivare a pensare che anche il paziente in crisi sta vivendo il lutto di una perdita ma, siccome non si tratta della perdita di un oggetto ma di una difesa onnipotente (Sé grandioso) o di un oggetto-sé onnipotente, possiamo capire come mai egli patisca spesso degli affetti simili a quelli di una grave ferita narcisistica, come la confusione, lintensa vergogna, langoscia di annientamento e di frammentazione, e, in certi casi, la rabbia vendicativa.
Secondo la psicologia del Sé, la cura avviene attraverso lesperienza ripetuta di “frustrazioni ottimali”: il paziente passerebbe attraverso una lunga serie di mini-crisi e in questo modo interiorizzerebbe le funzioni psicologiche precedentemente attribuite alloggetto-sé arcaico (onnipotente). Ma quello che rimane più difficile da capire, ed appare semmai in contrasto con questa teoria della cura, è un percorso fatto di episodi ricorrenti e ingravescenti, fino ad una crisi culminante che dovrebbe essere la più traumatica di tutte e che, invece, dà luogo ad una svolta terapeutica decisiva.
È forte limpressione di un processo che si svolge nel tempo, o meglio che ha bisogno del suo tempo, sia per quanto riguarda la serie delle crisi, sia per quanto riguarda la dinamica di ogni singola crisi. Quando, dopo un tempo caratteristicamente prolungato, la risposta emotiva dellanalista sembra presentarsi allimprovviso come una chiave di volta, ciò potrebbe semplicemente significare che, improvvisamente, cè una serratura nella quale, con un po di abilità, non è difficile introdurre una chiave. È possibile che linconscio di Frank, inscenando lo psicodramma, abbia generato limmagine del dolore (la pietà) di modo che io potessi riconoscerla e il Sé di Frank, rispecchiandosi nella mia risposta emotiva, potesse finalmente riconoscere se stesso? In altri termini, che il suo inconscio abbia predisposto le cose come un abile regista, allo scopo che Frank ritrovasse il proprio Sé? In effetti, ciò mi sembra non solo plausibile, ma anche altamente probabile. In questo caso, la serratura sarebbe comparsa prima della chiave. Per quanto riguarda Caterina, il cambiamento ha avuto un carattere di simultaneità: quando mi ha telefonato, mi ha trovato tranquillo e penso che ciò sia stato determinante per il corso successivo degli eventi, ma lei stessa si era già calmata, dopo avere trovato il coraggio dinterrompere lanalisi. Volendo utilizzare la terminologia di Searles e di Seinfeld, perché, arrivati ad un certo punto della simbiosi terapeutica, è necessario regredire alla simbiosi ambivalente o alla fase senza contatto, per potere solo successivamente procedere nella via della guarigione? Si può forse rispondere che ciò accade per la necessità di fare emergere e di elaborare determinati nuclei psicopatologici precedentemente scissi. In mancanza di ciò, il progresso sarebbe soltanto apparente e si baserebbe su una patologia di falso sé, su una forma di compiacenza verso lanalista e non su un vero processo di guarigione.
Winnicott predisponeva per i pazienti gravi un particolare ambiente di holding, atto a facilitare e a contenere la loro regressione, cosa che per lui era molto faticosa. Egli aveva formulato unilluminante distinzione fra la madre che è capace di fare e la madre che è capace di essere, nel­lac­cudimento del bambino: “Essere, unitamente a identità tra il Sé e log­get­to, sono secondo Winnicott caratteristiche dellelemento femminile presente in entrambi i sessi, mentre fare e separatezza sarebbero tratti dal­le­le­mento maschile. Lelemento femminile (…) costituisce la base del senso di esistere e il fondamento del Sé. Se la madre non gli offre un seno che è, ma un seno che fa, il bambino tenderà a sviluppare una capacità deficitaria di essere” (Bacal e Newman, 1990). Sarebbe quindi in gioco, da parte del paziente, la difficoltà di regredire fino a quel modo di essere arcaico dal quale deve ripartire, se vuole realizzare il suo vero Sé. Ogni crisi sarebbe un tentativo di spingersi in quella direzione e ogni nuova crisi si avvicinerebbe un po di più al compito necessario. Allanalista, invece, si richiederebbe unanaloga “capacità di essere (se stesso)”, soltanto in presenza della quale, come in presenza di un catalizzatore indispensabile, il paziente troverà il coraggio per riprendere il contatto con il proprio vero Sé.
Kohut ha definito lempatia, nel suo aspetto attivo di metodo osservativo, “introspezione vicariante”, cioè una forma vicariante dellosservare, per cui, per contrapposizione, si potrebbe definire questaltro indispensabile aspetto dellempatia verso il paziente bloccato nella crisi, cioè la capacità di essere se stesso da parte dellanalista, come una “forma vicariante del sentire”. Per esercitare l’”introspezione vicariante” lanalista compie un esperimento mentale: ascolta il paziente e ricorda o immagina alcune esperienze personali analoghe a quelle di cui sente parlare. In altri termini, ricrea attivamente nel proprio pensiero la rappresentazione di unesperienza emotiva analoga e, successivamente, la porge in forma simbolica al paziente, nel tentativo di ricreare un po per volta, entro se stesso, determinati aspetti del mondo interno del paziente, finché non ha luogo la cosiddetta “risonanza empatica” e il paziente afferma di sentirsi pienamente compreso. Ma tutto questo funziona, finché le emozioni accettano di farsi rappresentare dai simboli. Quando il mare dellinconscio è troppo agitato e le emozioni sono così violente da urtare e squassare la fragile imbarcazione del Sé, il simbolo, questo duttile riflesso della realtà interiore, appare come un appiglio troppo elusivo e inconsistente. A questo punto, la seduta analitica si trasforma in psicodramma e le emozioni si presentano, inevitabilmente, in una forma agita e concreta. La pesante richiesta che viene fatta allanalista nelle situazioni di crisi è quella di stare al gioco quando il gioco si fa più duro; proprio allora deve spogliarsi di ogni suo potere di ruolo e conservare il coraggio di essere semplicemente se stesso.
Questo “vero Sé in azione” sembra lessenza del metodo utilizzato da Renik nelle situazioni di crisi e da lui denominato self-disclosure. Nel seminario romano del 20 novembre 2004, organizzato dalla SIPRe, Renik ha parlato di un caso che ebbe unimportanza cruciale nello sviluppo del suo metodo. Allinizio della professione, infatti, egli si trovò imprigionato in unimpasse con una paziente che avanzava richieste fusionali alle quali non sapeva come rispondere. La crisi si protraeva e ormai, pur dispiacendosi, pensava, sulla base del training e degli insegnamenti ricevuti, di dovere interrompere il trattamento, quando si risolse a parlare francamente delle proprie difficoltà e dei propri dubbi con la paziente stessa e questo ebbe il potere di sbloccare la situazione. Di lì è nata la sua convinzione riguardo allutilità di “giocare a carte scoperte”.
Mi sembra che Weiss, affermando la necessità del paziente di sottoporre lanalista a test, abbia proposto una spiegazione plausibile non solo dellinevitabilità, ma anche della necessità della crisi, con lunico limite che si tratta di una spiegazione molto pragmatica, utile nella pratica clinica, ma non del tutto soddisfacente in ambito di teoria della clinica.
Stolorow e coll. hanno elaborato il prezioso concetto di concretizzazione (concretization) e lhanno messo in connessione con la gravità del disturbo del Sé, perciò sono andati più avanti nel comprendere le vere ragioni e il linguaggio della crisi: “Noi non teorizziamo il cosiddetto acting out sessuale o aggressivo nei termini di un apparato mentale difettoso e incapace di controllare gli impulsi, ma piuttosto nei termini del bisogno di compiere degli agiti comportamentali allo scopo di puntellare un mondo soggettivo pericolante” (Atwood, Stolorow, 1984).
Esiste quindi un rapporto di proporzionalità diretta fra la gravità della condizione psicopatologica e la “necessità” dellagito (e della crisi come unica via daccesso per conoscere e curare gli aspetti peggiori del male). La comunicazione simbolica cede il posto allagito quando il senso di sé vacilla, perché in questo modo si può prendere a prestito la solidità di elementi comportamentali o di percezioni sensoriali intensificate, allo scopo precipuo di sostituire con esse e di tamponare la perdita di coesione del Sé.
Può apparire suggestivo avvicinare la concretizzazione al processo della simulazione incarnata, messo recentemente in luce dalla ricerca neurofisiologica sui neuroni specchio. Si è scoperto, infatti, che determinati neuroni motori si attivano non solo quando compiamo i gesti che tali neuroni sono predisposti a innescare, ma anche quando vediamo compiere o immaginiamo di compiere gli stessi gesti.
Pare che la mente, al livello neurofisiologico, funzioni attraverso unincessante processo di simulazione che ha il sistema motorio come base unica comune: “Losservazione di un oggetto, pur in un contesto che con esso non prevede alcuna interazione attiva, determina lattiva­zione di un programma motorio che impiegheremmo se volessimo interagire con loggetto. Vedere loggetto significa evocare automaticamente cosa faremmo con quelloggetto. Significa immaginare una­zio­ne potenziale: loggetto è lazione potenziale. Le cose, gli oggetti acquisiscono la piena significazione solo in quanto costituiscono uno dei due poli di una diadica relazione dinamica con il soggetto agente, che di questa relazione costituisce il secondo polo” (Gallese, 2000). Possiamo forse intuire che lindebolimento del soggetto agente, cioè del Sé, significhi, a livello neurofisiologico, un indebolimento o unincapacità di organizzare determinate azioni potenziali, nelle quali si esplica la forza e la coesione del Sé. Ecco allora la necessità di reagire a questo venire meno, surrogando le azioni potenziali con azioni reali e, con esse, riguadagnare un certo tipo di presa sugli oggetti e (forse anche solo illusoriamente) rafforzare quel “secondo polo” dellazione che è il soggetto agente, restituendo quasi per magia coesione al Sé indebolito.
Conclusione
La crisi getta lanalista in una condizione gravosa, delicata e di grande responsabilità. Rifacendomi a Fosshage (2004), potrei dire che, in una prima fase della terapia del paziente grave, il mio tentativo di essere empatico in senso kohutiano (la prima delle tre modalità di ascolto di cui parla Fosshage) mette in moto un processo che è fatalmente (fisiologicamente) destinato a fallire. La crisi alla quale puntualmente si va incontro è una verifica sperimentale del fatto che la cosa (al di là di una certa gravità psicologica) risulta impossibile: lempatia in senso kohutiano è unidealizzazione di ciò che lanalista può fare, perché in realtà nessuno può provare emozioni (cosa indispensabile, daltra parte, per ascoltare in maniera emotivamente partecipe e per restituire uneco emotiva attraverso il proprio ascolto), senza essere personalmente (e imprevedibilmente) coinvolto e, quindi, essere se stesso e non laltro della relazione (Mitchell, per esempio, esprime apertamente questa obiezione). Essere personalmente coinvolto, sostiene articolando più sottilmente Fosshage, comporta due livelli: diventare in maniera controtransferale laltro del paziente (il “vecchio oggetto” di cui ha parlato Altman nel corso del seminario SIPRe del 2004) o, più autenticamente, essere se stessi: “prospettiva centrata sul sé dellanalista” (“nuovo oggetto” di Altman o self-disclo­su­re di Renik). Il mio lavoro riguarda lintergioco di queste diverse modalità di ascolto e leffetto terapeutico che ne può derivare. Nella crisi, il paziente vive la disperazione del fatto che io non posso essere lui, cioè la necessità di rompere una simbiosi. Nella svolta si realizza una specie di morte e rinascita, avviene cioè una trasformazione psicologica, o una nuova delimitazione del sé nucleare, per usare il linguaggio della psicologia del Sé, per cui il paziente diventa improvvisamente capace di autoriflessione e di riconoscere e di accettare il fatto che io non sono lui, pur non essendo nemmeno il suo vecchio oggetto. Sulla base dellespe­rienza che fa di me come oggetto nuovo, ricostruisce improvvisamente un senso di sé nuovo che gli consente di riorganizzare, in forma non più patologica, determi­nate esperienze emotive che non poteva precedentemente integrare con il vecchio senso di sé che era mantenuto fisso nella ripetitività della relazione con il vecchio oggetto. Il punto cruciale perché questa operazione avvenga resta però difficile da individuare e vorrei che queste riflessioni stimolassero i colleghi a dibattere ulteriormente largo­mento. Lo sforzo empatico prolungato che io faccio seguendo Kohut porta il paziente a sbilanciarsi, nel senso di osare di vivere la sua illusione simbiotica (appassionatamente e disperatamente conservata nascosta nel suo intimo) che qualcuno possa finalmente essere lui. La strada che si imbocca in questo modo è inevitabilmente quella della ripetizione del trauma. Qualcosa però fa sì che nel momento massimamente (e giustamente) temuto dellavverarsi della delusione traumatica non succeda realmente né lavverarsi dellillusione, né lavverarsi della delusione, ma un nuovo modo di essere in relazione con laltro e con se stesso e quindi un nuovo modo di essere se stesso e, per così dire, un nuovo Sé. Come riesce questa operazione? Dobbiamo accontentarci di credere che sia in gioco una forma di arte terapeutica, di sensibilità particolare che si sviluppa soltanto con lesperienza e che consiste nel saper abilmente dosare i tre diversi elementi (empatia, oggetto vecchio e oggetto nuovo) in maniera terapeutica e opportuna e non in maniera dannosa e fatale, oppure possiamo sperare, col tempo, di arrivare a comprendere questo procedimento in maniera ancora più accurata e scientifica di quanto io non sia riuscito a fare, rendendolo più maneggevole e meno “eroico” da parte dellanalista che intenda impegnarsi nella terapia dei casi gravi?

Note
1 Si tratta di un concetto che Ogden ha ripreso da Bion e utilizzato a proposito della terapia degli schizofrenici: “Il paziente schizofrenico in uno stato di chiusura psicologica di non-esperienza si è reso incapace di generare significati di qualsiasi tipo, compreso quello di esistenza vuota e senza senso” (Ogden 1991, trad. it., 1994: 23).

Sommario. La terapia del paziente grave deve affrontare e sciogliere dei veri e propri “nuclei di follia”. Essi vengono attualizzati attraverso crisi che coinvolgono il terapeuta in situazioni letteralmente drammatiche. La concretizzazione (concretization) delle configurazioni esperienziali del paziente produce infatti degli psicodrammi che offrono possibilità preziose al terapeuta e, contemporaneamente, non gli lasciano scampo, perché in quei momenti cruciali la terapia passa attraverso la sua capacità di essere autenticamente se stesso.

Summary. The needed crisis. The treatment of the seriously ill patient must face and dissolve “cores” of sheer folly. They are acted out through crises involving the psychotherapist in truly theatrical situations. The concretization of the patients experiential configurations produces actual psychodramas that offer precious chances to the psychotherapist who, at the same time, cannot be helped, because in those crucial moments, the treatment passes through his/her capacity of being authentically himself.

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