Che cos’è la psicoterapia?
Quarant’anni di pratica, quattro non brevi
analisi personali con altrettanti “maestri” molto diversi fra loro, per
temperamento e prospettive teoriche, per un totale di quasi 20 anni di terapia,
tante diverse appartenenze a gruppi e società psicoanalitiche, seguite da
altrettante “disappartenenze”… a 67 anni mi riconosco in un percorso ricco di
scoperte, più che in una meta definitivamente raggiunta.
Sono due, a mio avviso, i capisaldi di una
terapia psicoanalitica che voglia stare al passo dei tempi: profondo
coinvolgimento emotivo di entrambi i partner analitici e comprensione delle
dinamiche che si sono attivate nella relazione fra di loro. Tutto il resto sono
intellettualizzazioni, come si dice in gergo, in definitiva soltanto chiacchiere,
discussioni a proposito di mappe che non si misurano mai abbastanza con
l’esplorazione del territorio reale. Ovvio che questa impostazione
autenticamente relazionale travalica i canoni di una professione intesa come
supporto tecnico fornito a pagamento, in altri termini travalica i canoni di
tutte le altre professioni. Come dire che, per quanto riguarda la psicoterapia,
non esiste una “presa” dal di fuori, non esiste un protocollo di procedimenti
validi per intervenire dall’esterno in un certo tipo di situazioni standard e
non esiste nemmeno un modo di parlare riassuntivamente e per formule di ciò che
accade quando si mette in moto un autentico processo psicoanalitico.
Il modo migliore per spiegare la
complessità di orizzonte e la stranezza delle difficoltà che s’incontrano in
questo sottile ramo della scienza[1] consiste forse nel paragonare il suo sviluppo
nel corso del tempo con quello della scienza di base, o meglio della base di
tutte le scienze, la fisica. Centoventi anni fa Freud prese a modello
l’ingegneria meccanica e in particolare le macchine a vapore per le sue ipotesi
sul funzionamento della psiche ed elaborò i concetti di “energia psichica”,
omeostasi, “scarica pulsionale”, e via dicendo. Questo modello è stato
perfezionato in seguito, sulla scorta della creazione di macchine sempre più
raffinate, in particolare i computer, che hanno molto influito sui modelli
elaborati dal cognitivismo e dalle neuroscienze. Il vero cambiamento di
prospettiva non sta venendo, però, dall’ingegneria, ma dalla fisica. Da un
secolo a questa parte, in netta controtendenza rispetto ai secoli precedenti,
la fisica ci sta insegnando che la realtà profonda del mondo e di noi stessi
non è quella delle macchine e la psicoanalisi odierna non può altro che
accogliere questa verità come una liberazione.
Il percorso straordinario della fisica
nell’ultimo secolo consiste nella progressiva relativizzazione della cosiddetta
“realtà oggettiva” del mondo. Ha cominciato Einstein, scardinando i concetti
newtoniani di spazio e tempo assoluti. Oggi sappiamo, infatti, che lo spazio si
piega, ondeggia e, occasionalmente, si contrae fino a collassare nella
formazione di buchi neri, mentre il tempo scorre più o meno velocemente, in
funzione del campo gravitazionale e delle velocità in gioco. Ma c’è di più: lo
spazio e tempo non si piegano e non si accorciano in termini assoluti, perché
tutto dipende dal sistema di riferimento utilizzato per la misurazione. Fin qui
la relatività, poi la fisica dei quanti ha fatto il resto. L’enorme difficoltà
concettuale creata dallo studio delle particelle dipende dalla necessità di
abbandonare la fede nell’esistenza non solo di tempo e spazio assoluti, ma
addirittura di una realtà materiale che esista di per sé, così com’è, a
prescindere dal sistema di riferimento utilizzato per osservarla o manipolarla.
Insieme alla realtà oggettiva auto-fondata se ne va, inevitabilmente, anche
l’“occhio di Dio”, il punto di vista super
partes che dovrebbe essere in grado di vedere tutte le cose, così come
sono, dal di fuori di una relazione di reciproca influenza con il mondo e con
le cose. Così si espresse il grande John Wheeler a proposito:
Un tempo pensavamo che il mondo esistesse
“là fuori”, indipendentemente da noi, gli osservatori, nascosti al riparo di
una lastra di vetro spessa trenta centimetri, che ci limitiamo a osservare
senza venire coinvolti. Però, nel frattempo, siamo giunti alla conclusione che
non è così che va il mondo. Piuttosto dobbiamo rompere il vetro, infilarci lì
dentro (Gefter, 2014, p. 11).
Neppure Einstein, l’uomo che aveva dato
inizio a questo inconcepibile cambiamento di prospettiva, fu in grado di
abbandonare la fede nell’esistenza di una realtà oggettiva auto-fondata e si
sforzò a lungo, spesso in polemica con Niels Bohr, per dimostrare
l’insostenibilità delle nuove interpretazioni che nascevano dallo studio dei
quanti. Forse si sentiva colpevole per avere dato inizio a un cambiamento che
stava andando oltre le sue aspettative, il crollo progressivo e inarrestabile
di una visione della realtà fisica che durava ormai da secoli; una visione che era
stata a sua volta rivoluzionaria e aveva contribuito ad affrancare parte
dell’umanità da ogni sorta di antiche superstizioni. Ma queste tutte difficoltà
diventano comprensibili, se consideriamo l’enorme portata del cambiamento, perché
è evidente che stiamo parlando della più grande rivoluzione del pensiero di
tutta la civiltà, ancora più grande (e molto più grande) della rivoluzione
copernicana – normalmente presa come riferimento emblematico di un totale rovesciamento
di prospettiva.
Carlo Rovelli, un fisico attualmente
impegnato nello studio della relatività quantistica a loop (il tentativo più
avanzato di mettere insieme relatività e quanti), afferma che
la teoria [dei quanti] non descrive come le
cose “sono”, descrive come le cose “accadono” e come “influiscono una
sull’altra”. Non descrive dov’è una particella, ma dove la particella “si fa
vedere dalle altre”. Il mondo delle cose esistenti è ridotto al mondo delle
interazioni possibili. La realtà è ridotta a interazione. La realtà è ridotta a
relazione (Rovelli, 2014).
La cosa più incredibile di tutte è il fatto
che questi fenomenali cambiamenti nel modo di vedere la realtà delle cose
stiano accadendo così totalmente in sordina, senza suscitare l’enorme curiosità
che dovrebbero, senza che la maggior parte degli esseri pensanti ne sia toccata
in qualche maniera nel senso del proprio essere, nel modo di pensarsi e di sentirsi
parte di un così strano e incredibile mondo. Eppure, non stiamo parlando di
opinioni di natura estetica o politica, per cui si potrebbe anche dire che “è
bello ciò che piace”, oppure che “è vero ciò che conviene”. Se, da una parte,
le conseguenze spicciole della relatività e dei quanti sono piuttosto
tangibili, perché riguardano tutta la tecnologia più straordinaria e recente
cui siamo già abituati, dal GPS ai computer, agli acceleratori di particelle,
ecc., eppure tutto questo è poca cosa rispetto alla vera rivoluzione ancora da
compiere, che è proprio quella necessaria per integrare le scoperte della
fisica nel nostro modo di pensare e di sentire la realtà del mondo e di tutte
le cose.
Per quanto riguarda la psicoterapia, però,
le cose vanno molto diversamente rispetto al resto ed è impressionante
considerare come questa sotterranea grande rivoluzione in corso possa
influenzarne “drammaticamente” gli sviluppi, agendo per osmosi, con un’azione tanto
indiretta quanto potente, rendendo semplicemente possibile un nuovo modo di
pensare che, nella sensibilità degli addetti ai lavori, progressivamente si
sostituisce a quello vecchio. Qui non si tratta di novità tecnologiche che
semplificano la vita, ma di cui si potrebbe anche fare a meno, come del resto,
si è sempre fatto, fino alle penultime generazioni. Qui è in gioco molto di più
e i cambiamenti nel modo di concepire la realtà delle cose si traducono in un
modo di operare sostanzialmente diverso ed imparagonabilmente più efficace. Qui
mantenere intatta la lastra di vetro spessa trenta centimetri, cioè la pretesa
di neutralità e di non coinvolgimento personale dell’analista, tipica della
vecchia psicoanalisi, comporta un’enorme limitazione, rispetto al processo di
trasformazione che si può mettere in moto, “rompendo il vetro”. In questo campo
la visione distaccata e oggettivante del mondo interiore rischia di contribuire
pesantemente a creare la patologia che si pretende di curare. George Atwood, il
John Weeler della psicoterapia, sostiene che
i sistemi nomenclativi psichiatrici che
prendono sempre più piede sono l’imbarazzo più grave nel nostro campo. La
nozione di un sistema ordinato che organizza e distingue questa o quella forma
di caduta infinita, piccole e belle categorie di un caos che è al di là di ogni
immaginazione e descrizione, è ridicola. È umano cercare ordine nel disordine,
ma è umano anche essere ridicoli. I sistemi diagnostici che sono stati e
continuano ad essere creati mancano di qualsiasi fondamento scientifico e sono
in realtà risibili. Mi vergogno di far parte di un campo professionale capace
di queste cose (Atwood, 2016).
Freud fu il primo a credere che ci fosse
un senso nei sintomi nevrotici e valesse la pena ascoltare le libere
associazioni dei malati, invece d’intervenire con la sicumera dello psichiatra
che fa diagnosi e terapia dall’alto di una conoscenza scientificamente preconcetta,
senza coinvolgersi nella relazione. Ma qual era il limite di Freud? Anche lui,
dopotutto, credeva che la sofferenza nevrotica costituisse una sorta di realtà
acquisita una volta per tutte e rappresentasse, come un disco rotto, l’eterna
ripetizione di esperienze traumatiche non digerite, avvenute nel passato.
L’analista doveva essere come uno schermo bianco, sul quale il paziente potesse
proiettare e riconoscere determinate distorsioni della realtà che generava nei
rapporti con gli altri. Ma la verità è più complessa di così. Nella
psicoterapia si sperimenta, infatti, una realtà delle cose che si ricrea nella relazione quando c’è
coinvolgimento, oppure non si ricrea affatto, se manca il coinvolgimento. In
quest’ultimo caso si parla delle cose soltanto dal di fuori e in loro assenza e
ben poco si può operare. L’eccezionale abilità terapeutica di Atwood, per considerare
l’esempio perfetto di un terapeuta di nuova generazione, consiste nella sua
capacità di coinvolgersi con le persone cadute nell’abisso della follia,
riconoscendo il senso del “loro” delirare non tanto nel funzionamento patologico
della loro testa o della loro psiche, quanto piuttosto nel mutuo e inevitabile ricrearsi
di certe relazioni tragiche attraverso l’attiva partecipazione di chi si avvicina
e si coinvolge emotivamente con loro. Ecco qui, per intero, tutta l’essenza della
nuova fisica! Non esiste una realtà e sé stante della follia, come non esiste, in
ogni caso, una realtà a sé stante della psiche e dell’esistenza umana.[2]
La genialità di Atwood nel suo modo di fare
psicoanalisi è stata fondamentalmente quella di comprendere le possibilità che
nascono dal non tirarsi indietro dal coinvolgimento e dal non porsi mai come
medico sano di fronte al paziente malato. Soltanto a partire da questa
esperienza di rischiosa condivisione ha potuto compiere, nei tanti casi che ha
trattato, anche il passo successivo, quello della comprensione a livello razionale
delle dinamiche psicologiche che si erano attivate nel coinvolgimento stesso.
Grazie a questo complesso procedimento partecipativo la follia si è presentata,
ogni volta, come scacco esistenziale e non più come malattia in senso medico o psichiatrico
tradizionale.
Potrebbe allora insorgere la più ingenua, ma
anche la più legittima delle perplessità: esiste o non esiste, su un piano oggettivo,
la tragica realtà del disturbo soggettivo, l’insostenibilità dell’ansia
indomabile, delle ossessioni persecutorie e, più in generale, della follia,
sorta di condizione contagiosa alla quale sarebbe giusto avvicinarsi con
estrema cautela, o, ancora meglio, tenersi a distanza di sicurezza, per capirla
da fuori e bombardarla con l’ausilio di potenti farmaci, come l’AIDS o come un
tumore? La risposta è che per potere curare davvero queste forme di enorme
sofferenza della persona occorre il coraggio di riconoscere che esse non
esistono di per sé, ma soltanto e letteralmente in forma condivisa, con il
contributo della partecipazione altrui. Ne consegue che soltanto con il
coraggio della condivisione le possiamo raggiungere e trattare. È evidente come
ciò corrisponda al nuovo modo di pensare al quale ci sta portando la fisica: la
rinuncia alla fede nell’oggettività del reale. In conclusione non posso altro che
ripetere questo: la realtà della realtà è la relazione, sia per quanto riguarda
la fisica, sia per quanto riguarda la psicoterapia.
Ma, alla fine, questa non è proprio una
cattiva notizia: se è vero che non possiamo più fare affidamento su di un
riferimento esterno enormemente più solido di noi, come da bambini abbiamo
trovato protezione presso i nostri genitori e da adolescenti, in forma più psicologica
e traslata, presso i nostri eroi, è anche vero che quel riferimento esterno, se
davvero esistesse, sarebbe del tutto indifferente ai nostri guai e alle nostre
dannazioni, così come appare il mondo fisico alla luce della concezione
meccanicistica che ancora domina gran parte delle menti, anche di quelle più convinte
di essersi votate alla scienza. Senza la pretesa di affrontare qui un tale
complesso argomento di carattere filosofico, credo che la fede in una realtà
esterna che esiste di per se stessa ed è meccanicamente organizzata (o
disorganizzata), caposaldo della visione cartesiana-newtoniana del mondo, se da
una parte ci ha liberati dalle più antiche superstizioni, dall’altra ne ha create
molte di nuove e ci ha fatto pagare il prezzo carissimo del solipsismo e del
nichilismo; un prezzo che in psicoterapia ha significato per molti decenni la
rinuncia a curare. Per citare ancora una volta Atwood:
nell’età più illuminata che sta per venire
(…) parleremo di crisi, catastrofi e dilemmi cronici, e non di disfunzione e di
malattia. Quelle cose che sono comprese come sintomi di una patologia saranno
reinterpretate come simboli di un disastro emotivo e tentativi di reazioni
riparative nei confronti di un trauma estremo.
(…) Vedere qualcuno arrivare alla verità
della propria vita implica, inevitabilmente, essere portati più vicini alla
verità della propria. Nell’età d’oro della psicoterapia che sta per arrivare,
questa idea sarà assiomatica. Tutti i fenomeni della psicoterapia saranno
compresi nel loro accadere nel campo intersoggettivo, il quale crea un contesto
costitutivo per le esperienze e le azioni sia dell’analista che del paziente
(Atwood, 2016, pp. 20-30).
La cura psicoanalitica della follia
costituisce un caso esemplare di applicazione della nuova metodologia, frutto
della nuova visione del mondo che sta sotterraneamente guadagnando terreno e
conquistando sempre nuovi campi di applicazione. Per quanto possibile, essa è
davvero molto impegnativa e rappresenta un territorio al quale si può accedere
soltanto con una particolare disponibilità e capacità di coinvolgimento da
parte del terapeuta. Detto in estrema sintesi, non si può curare una sofferenza
così grande senza soffrire molto… Ma, come ho già affermato con convinzione accennando
all’assurdità delle diagnosi in questo campo, la psicoterapia cura persone e
non malattie e se questo nuovo approccio riesce a dimostrarsi così utile nei
casi più gravi, a maggior ragione risulterà assai produttivo nei casi meno
gravi.
La Storia
di una terapia ben riuscita rappresenta l’esempio di un potente processo
psicoanalitico che si è attivato e svolto in tempi relativamente brevi, grazie
a una mia particolare forma di sperimentazione del coinvolgimento in analisi,
che ho chiamato “psicodramma in terapia” e di cui si parlerà dettagliatamente nelle
pagine a seguire. Giulia, la protagonista del percorso terapeutico, era già
stata in terapia con me in passato per un periodo molto più lungo, circa tre
anni, nel corso dei quali avevo mantenuto un atteggiamento psicoanalitico più
tradizionale, improntato ad una maggiore neutralità, quasi come io fossi un
consulente che aiuta una persona a capire come funziona la sua mente in
determinate circostanze della sua vita. Da un punto di vista professionale, per
me è stato eccezionalmente interessante sperimentare l’enorme differenza. Oltre
al lato professionale, però, ce ne sono almeno altri due, per cui la fatica
emotiva è valsa abbondantemente la pena. Il primo è il lato umano, perché si è
trattato di un’esperienza che sarebbe eufemistico definire semplicemente
formativa. Riconoscermi parte attiva insieme a Giulia, nel nostro fatale
processo di co-costruzione e “co-decostruzione” dell’esperienza nevrotica mi ha
cambiato non solo come terapeuta ma anche come essere umano, contribuendo al
mio stesso processo evolutivo con un impulso inaspettato e forte – in questo
caso aveva ragione Newton e non c’è bisogno di scomodare né Einstein, né coloro
che si sono rotti la testa con le teorie della nuova fisica, perché non c’è
alcun dubbio che ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria… e
il processo che ho attivato in Giulia ha generato un analogo processo di
trasformazione e di sviluppo di coscienza in me stesso.
L’ultimo inaspettato aspetto, per cui l’esperienza
è valsa la pena, è però quello di avere aperto una prospettiva nella mia mente,
che riguarda questioni tanto filosofiche, quanto psicologiche, che ancora
attendono di essere portate avanti con l’impegno che meritano. Detto in poche
parole, la questione riguarda molto da vicino il senso di essere ciò che siamo
e l’impossibilità di esserlo senza crearlo, scoprirlo e scambiarlo all’interno
di una relazione di totale rischioso coinvolgimento con qualche nostro simile, con
gli animali e con tutto il mondo che abbiamo intorno.
[1] Considero la
psicoanalisi una scienza a tutti gli effetti, nonostante non faccia uso della
matematica, dato che il suo procedimento, per come io lo conosco e pratico, si
basa su spirito critico, ipotesi e verifica sperimentale. La vera differenza
con gli altri rami della scienza sta nel fatto che qui per sperimentale
s’intende “esperienziale” e non misurazione di laboratorio, dato che la realtà
oggetto di esame risiede nel mondo interiore – e il mondo interiore, ci tengo a
puntualizzare, è una realtà, per il semplice motivo che è quello che è, e non
quello che vorremmo che fosse.
[2] Oyama ha concepito la stessa prospettiva interazionistica
per quanto riguarda l’organizzazione degli esseri viventi in generale…, ma, lo ribadisco,
l’embrione rivoluzionario che si sta silenziosamente sviluppando a partire dalla
fisica di base ha già concepito questa visione delle cose per tutta la realtà, a
partire dalle particelle elementari.