Kohut è stato forse l’ultimo
grande caposcuola, l’ultimo “creatore” psicoanalitico che, da solo, ha
riformato concetti, visione d’insieme, prassi terapeutica, campo di
applicazione e metodo della psicoanalisi (1). Ha effettivamente aperto nuove
possibilità nella comprensione e nel trattamento delle nevrosi più gravi (da
lui identificate come “disturbi narcisistici della personalità” e,
successivamente, ridefinite come “disturbi del sé”) e, spinto dall’impellenza
di adeguare la psicoanalisi a questa impresa, ha portato avanti un progressivo
capovolgimento della metapsicologia e della filosofia freudiana, tanto che a
qualcuno è parso legittimo parlare di un nuovo paradigma:
Nel paradigma della psicologia
del Sé con il termine "Sé" ci si riferisce alla vita mentale dell’esperienza
soggettiva della persona; e si ritiene che essa è costituita da stati mentali
complessi che vanno capiti così come sono, senza ridurli ai loro componenti
elementari... Secondo Kohut gli stati mentali complessi sono le configurazioni
psicologiche primarie. Al di sotto di tali configurazioni psicologiche non
esiste altro se non i prodotti della disintegrazione di esse... Detto più
semplicemente... si adotta un procedimento olistico. Mentre le pulsioni
possono essere studiate oggettivamente, gli stati mentali complessi, non
ridotti ad altro di più elementare, possono logicamente essere studiati e
capiti soltanto mediante l’introspezione e l’empatia (Ruggiero 1996: 20).
Detto in altri termini,
cessa definitivamente nell’ultimo Kohut il primato delle pulsioni, sostituito
dal primato degli “stati mentali complessi” che poi altro non sono che i
sentimenti, le emozioni, gli umori, gli affetti, cioè, in generale, i contenuti
del mondo interiore così come si presentano direttamente al nostro
sentire (2). Infatti, Kohut ha ribadito molte volte che il
procedimento psicoanalitico alterna obbligatoriamente due fasi: prima
comprendere e poi spiegare. E nei casi più impegnativi la fatica di comprendere
domina a lungo la scena: possono addirittura passare anni di lavoro, prima che
sia giustificato azzardare una spiegazione di qualche rilievo. Forse è
superfluo precisare che il comprendere di Kohut non ha niente a che vedere con
l’osservazione distaccata della psicologia del paziente, trattandosi al
contrario di un’immersione empatica “prolungata e continuativa” nell’esperienza
soggettiva del paziente. Nonostante ciò, nonostante l’approccio fenomenologico
all’esperienza del paziente e il ribaltamento del punto di vista sulla natura
del mondo interiore, Kohut ha ribadito molte volte che l’empatia è, prima di
tutto, un metodo di osservazione, mantenendo intatta in questo modo l’aspettativa
del ruolo “demiurgico” dell’analista. Con uno sforzo ammirevole, capace di
durare anni e anni, questi arriva a comprendere l’incomprensibile e a quel
punto finalmente spiega! Vorrei precisare subito che io non credo a questa
versione dei fatti. Sono convinto, al contrario, che l’immersione empatica
prolungata e continuativa abbia la sua vera ragione di essere nella necessità
di far sentire compreso il paziente: soltanto il verificarsi di
questo risultato, che riguarda un accadimento a livello dell’esperienza
soggettiva del paziente, ha il potere di mettere in moto il processo
psicoanalitico.
Nella prospettiva di Kohut,
cade completamente l’idea di poter scomporre la psiche come se fosse un
complicato meccanismo, secondo il programma del riduzionismo naturalistico
applicato da Freud, e cade anche, almeno in parte, l’illusione di una
soggettività non coinvolta che, con la collaborazione del paziente, opera dal
di fuori, come la mente e la mano del chirurgo, sulla materia psicologica in
esame. In questo modo Kohut si avvicina parecchio, anche se non l’avrebbe mai
voluto riconoscere, alla tradizione relazionale che, nel corso del tempo, è
stata rappresentata da Ferenczi, dagli interpersonalisti, dagli umanisti e
dagli appartenenti alla teoria delle relazioni oggettuali. Tradizione dalla
quale non trovo giusto omettere la presenza, per tanti versi anticipatrice, del
grande dissidente Jung. Sullivan, Horney e Fromm si collocarono tranquillamente
al di fuori del movimento psicoanalitico e sono convinto che Kohut avrebbe
rischiato forte di esserne estromesso se la psicologia del sé fosse venuta alla
luce anche solo dieci anni prima, negli anni sessanta invece che settanta, cioè
prima della ventata di libertà intellettuale che investì l’occidente proprio a
spartiacque fra quelle due decadi. Ma la dissidenza, o meglio la condanna e l’espulsione
di Jung dal movimento psicoanalitico risale addirittura al 1913, l’epoca delle
prime grandi scomuniche psicoanalitiche, praticamente non moltissimo tempo dopo
che si era conclusa in Europa la caccia alle streghe (se la mia fonte è
veritiera, l’ultima fu bruciata proprio in Svizzera nel 1799, per cui la
cacciata di Jung, più di cento anni fa, si colloca quasi esattamente a metà
strada nel corso del tempo che ci separa, oggi, dalla fine della caccia alle
streghe), ed è probabilmente anche per questo motivo, cioè per la violenza con
cui è stato espulso dalla storia della psicoanalisi, che il suo pensiero ci
appare ancora oggi come non integrabile con il mainstream, come se si trattasse
di un’altra psicoanalisi, una dimensione parallela.
Personalmente, devo dire che
la mia iniziale adesione a Jung fu determinata soprattutto dal fatto che questi
non pretendeva di scomporre le persone in meccanismi, né di studiare la psiche
mantenendo un’ottica dal di fuori della psiche stessa. Di Jung mi
affascinò, fin dal principio, il rispetto per la complessità dei fenomeni
psicologici, provocatoriamente riassunto nella citazione del motto alchimistico
ignotum per ignotius (3), e la sua disponibilità a lasciarsi afferrare e
coinvolgere profondamente dall’oggetto del suo studio, la psiche vivente, nella
convinzione – che anche lui aveva fortissima quando era al lavoro – di dover
mettere in moto un processo di crescita, piuttosto che compiere lo studio
scientifico di un caso.
Alcuni brani, tratti da Il
punto di svolta di Fritjof Capra, possono spiegare meglio ciò che intendo:
La teoria freudiana della
mente si fonda sul concetto dell’organismo umano come macchina biologica
complessa... Jung invece non era interessato tanto a una spiegazione dei
fenomeni psicologici in funzione di meccanismi specifici ma tendeva piuttosto a
comprendere la psiche nella sua totalità ed era interessato particolarmente
alle sue relazioni con l’ambiente più vasto.
Il concetto dell’inconscio
collettivo di Jung distingue la sua psicologia non solo da quella di Freud, ma
da tutte le altre. Esso implica l’esistenza di un legame fra l’individuo e l’umanità
concepita come una totalità – in un certo senso, in effetti, fra l’individuo e
il cosmo intero – legame che non può essere inteso all’interno di una cornice
meccanicistica, ma che è in stretto accordo con la concezione sistemica della
mente (Capra, 1982; trad. it. 1984: 298-299).
Jung non si sentiva
compreso, nel suo intimo, dalla psicoanalisi di Freud. Lo dimostra un sogno del
1911, da lui fatto mentre era completamente assorbito nella stesura di Wandlungen
und Symbole der Libido, l’opera che avrebbe, di lì a poco, determinato una
brusca e definitiva separazione da Freud:
(II sogno) si svolgeva in
una regione montuosa sul confine svizzero-austriaco. Era verso sera, e mi
appariva un uomo anziano, in uniforme della dogana dell’Impero austriaco.
Camminava piuttosto curvo, passandomi innanzi senza fare attenzione a me. Aveva
un’espressione accigliata, un po’ malinconica e annoiata. C’erano anche altre
persone, e qualcuno m’informava che non era un uomo in carne e ossa, ma che si
trattava dello spettro di un ufficiale di dogana morto anni prima. “È uno di
quelli che non poterono morire veramente” mi dissero (Jung, 1961; trad. it.
1965: 190).
Più sotto leggiamo il
commento e il seguito del sogno:
Sotto l’influenza della
personalità di Freud avevo – per quanto possibile – rinunciato al mio proprio
giudizio, e represse le mie critiche. Era questa la premessa indispensabile per
collaborare con lui. Mi ero detto: “Freud è molto più saggio ed esperto di te.
Per ora devi solo ascoltare ciò che dice, e apprendere da lui”. Poi, con mia
sorpresa, mi scoprivo a sognarlo nei panni di un burbero impiegato dell’Imperiale
Regio governo austriaco, un ispettore delle dogane che era defunto e tuttavia s’aggirava
come un fantasma... il sogno poteva esser considerato come un correttivo, una
compensazione della mia alta opinione e della mia ammirazione coscienti che, in
modo per me inopportuno, andavano troppo oltre (Jung, 1961; trad. it. 1965:
191).
Nelle considerazioni
successive, Jung riflette sul fatto che l’analisi, per curare i nevrotici, per
incoraggiarli a smuovere le forze in gioco, deve offrir loro un nuovo modo di
vedersi, mentre quello freudiano, nel suo appello al principio di realtà,
risulta troppo depressivo, troppo simile al loro punto di partenza abituale.
Kohutianamente, si potrebbero tradurre le preoccupazioni di Jung nel senso di un
eccessivo valore attribuito da Freud allo spiegare, a scapito del comprendere
empatico, quello che ha il compito di mettere in moto il processo. Ma,
soprattutto, Jung non riusciva a capire come quell’esagerata fiducia nel potere
illuministico della spiegazione razionale potesse fornire una via di scampo
dalla malattia psichica, quando, nell’esperienza vissuta dei suoi pazienti, questa
si presentava come una “potenza soverchiante”, qualcosa che, per definizione,
non si lascia in nessun modo sconfiggere da un appello alla ragione.
Come potrebbero mai
riemergere se […] perfino la teoria li fa sprofondare e non offre nulla più,
come via di liberazione, che l’ingiunzione razionale, o
"ragionevole", di abbandonare una volta per sempre le loro puerilità?
Che è proprio ciò che non sanno fare! [...Freud] mi aveva insegnato che siamo tutti
un po’ nevrotici, e perciò bisogna esser tolleranti. Ma non ero propenso ad
accettare pacificamente questa dichiarazione, volevo piuttosto sapere come si
potesse davvero sfuggire a una nevrosi (Jung, 1961; trad. it., 1965: 193-194).
In quanto è nevrotico, l’uomo
ha perduto la fiducia in se stesso. Una nevrosi è una sconfitta umiliante e
come tale la sente anche chi in qualche modo conosce la propria psicologia. Un
nemico "irreale" ci ha inferto questa sconfitta; già da tempo i
medici hanno assicurato al paziente che non ha nessuna malattia: non soffre di
mal di cuore, non ha un cancro… (Jung, 1938: trad. it., 1979: 20).
Jung stabilì che compito
ineludibile della psicoterapia fosse il confronto con l’esperienza del
“numinoso”, cioè con l’intensità emotiva sopraffacente. In questo modo, si mise
nella condizione di dare pieno ascolto alla soggettività del paziente, proprio
in quegli aspetti più perturbanti e razionalmente (o “ragionevolmente”) meno
comprensibili della sua esperienza, quelli che oggi chiameremmo stati emotivi
arcaici, cioè quelle emozioni che sono inevitabilmente alla base della
sofferenza psichica più grave.
Grazie all’autobiografia che
ci ha lasciato, possiamo illuminare il senso del suo lavoro in maniera molto
diretta e significativa. Fin da bambino, Jung aveva sviluppato e coltivato nel
proprio intimo un mondo segreto che gli serviva come rifugio dove ritirarsi di
quando in quando, per fare fronte ad un senso di sé particolarmente
traballante:
Scoprii che [i miei compagni
di scuola] mi alienavano da me stesso. Quando ero con loro diventavo diverso
rispetto a quello che ero a casa... i miei compagni di scuola... mi
costringevano a essere diverso da quello che pensavo di essere... Era come se
sentissi e temessi una scissione del mio essere: ne avevo paura, quasi fosse
una minaccia per la mia sicurezza interiore (Jung, 1961; trad. it., 1965:
38-39).
Così descrivono Atwood e
Stolorow, in una loro opera dedicata alle psicobiografie dei grandi teorici
della psicoanalisi, quel periodo di vita infantile di Jung:
Insieme allo spaventoso
cambiamento e alla scissione interna generatasi in Jung con il suo ingresso a
scuola e con la frequentazione di un mondo sociale più ampio della cerchia
familiare, egli sviluppò un certo numero di giochi simbolici, veramente
affascinanti, perché chiariscono i temi soggettivi che dominarono quel periodo
della sua vita (fra i 7 e i 10 anni). Uno dei giochi richiedeva il fuoco... un
altro gioco si basava su una curiosa relazione con una pietra. Spesso, quando
Jung si sentiva solo, andava a sedersi su una pietra particolare che sporgeva
sullo stesso pendio dove il ragazzo si prendeva cura del fuoco sacro. Allora
cominciava un dialogo che rispecchiava le sue difficoltà nel differenziare fra
il sé e l’oggetto (Atwood & Stolorow, 1969: 87, trad. mia):
"Io sto seduto sulla
cima di questa pietra, e la pietra è sotto", ma anche la pietra potrebbe
dire "io" e pensare: "Io sono posata su questo pendio ed egli è
seduto su di me". Allora sorgeva il problema: "Sono io quello che e
seduto sulla pietra, o io sono la pietra sulla quale egli
siede?"... La risposta era tutt’altro che chiara... [ma] non nutrivo dubbi
che la pietra fosse in qualche oscuro rapporto con me (Jung, 1961; trad. it.,
1965: 39).
A Jung veniva voglia di
andare sulla pietra, soprattutto quando si sentiva confuso e in conflitto per
via del suo interminabile rimuginare sulle rivelazioni segrete della sua prima
infanzia (il gesuita, il mangiatore di uomini, ecc.). Egli spesso sentiva un
gran desiderio di comunicare le sue esperienze a qualcuno e interrompere l’isolamento
psicologico nel quale lo avevano precipitato i suoi segreti. Allo stesso tempo,
tuttavia, temeva che mostrare i suoi pensieri segreti lo avrebbe esposto all’incomprensione
e al trauma del ridicolo (Atwood & Stolorow, 1969: 88, trad. mia).
Secondo Jung la psicoanalisi
freudiana non forniva l’aiuto necessario a chi, per proteggere il proprio sé
fragile dal senso d’invasione generato dal rapporto con gli altri, si era
rifugiato dentro se stesso, sollevando "il ponte". Winnicott, con il
suo senso dell’umorismo tipicamente inglese, affermò una volta che la
psicoanalisi rappresenta una creazione a opera di persone schizoidi, destinata
ai bisogni di persone schizoidi.
Quando Kohut sviluppò il
concetto di empatia come introspezione vicariante e come metodo sul
quale fondare la psicologia del sé, ebbe la stessa preoccupazione di Jung, cioè
quella di ristabilire uno scambio fra mondo interno ed esperienza condivisa.
La preoccupazione dei due
era la stessa, ma le soluzioni da loro escogitate furono piuttosto diverse. Il
ponte ideato da Jung fu la concretizzazione del mondo interiore.
Per lui, quasi magicamente, le immagini che affiorano nei sogni, nelle fantasie
spontanee, nelle fiabe e nei miti conducono vita propria, cioè vivono nell’inconscio
in maniera indipendente e parallela rispetto al nostro io cosciente. In esse
possiamo raggiungere un livello di esperienza che, pur collocandosi nella
soggettività privata, manifesta validità oggettiva e universale: un livello dal
quale attingere vitalità, progettualità e tutto ciò di cui abbiamo bisogno per
guarire psichicamente e, in generale, per arricchire la nostra vita interiore,
nel corso di uno sviluppo psicologico che non ha mai fine, da lui denominato processo d’individuazione.
Proprio per questo l’autobiografia
di Jung, scritta praticamente al termine di una vita molto lunga e
straordinariamente operosa, comincia così:
La mia vita è la storia di
un’autorealizzazione dell’inconscio.
[…] Che cosa noi siamo per
la nostra visione interiore, che cosa l’uomo sembra essere sub specie
aeternitatis, può essere espresso solo con un mito. Il mito è più
individuale, rappresenta la vita con più precisione della scienza. La scienza
si serve di concetti troppo generali per poter soddisfare alla ricchezza
soggettiva della vita singola (Jung, 1961; trad. it., 1965: 21).
Questa dimensione oggettiva della
soggettività, da lui denominata “inconscio collettivo”, è un luogo di morte e
rinascita della coscienza, o meglio di trasformazione psicologica. Nel luogo
più buio e disperato del nostro estraniamento ed isolamento interiori, nella
crisi che minaccia di troncare la continuità del senso di sé, nel momento in
cui non s’intravede nessuna via d’uscita, proprio lì, perseverando e non fuggendo,
possiamo trovare una gemma luminosa, un valore di cui appropriarci e da
rivendicare di fronte all’umanità intera, la pietra filosofale di cui parlavano
gli alchimisti. Stando così le cose, la ricostruzione del ponte sembrerebbe
magica o miracolosa e urta decisamente contro il senso comune, che vorrebbe
sapere in termini più chiari cosa realmente facciamo, quando facciamo qualcosa
di così importante come una psicoterapia, cioè quando ne va della salvezza o,
quanto meno, della qualità della nostra vita. Cosa fa l’analista, perché il
paziente possa accedere a un’esperienza di svolta di quel genere? Jung non lo
dice. Non possiamo credere che per guarirla dalla morsa dell’intensità emotiva
sopraffacente basti informare una persona sugli aspetti misteriosi e sui
significati esoterici del suo soffrire, nemmeno se la spiegazione riguarda
degli argomenti così generalmente importanti come sono quelli attinenti all’inconscio
collettivo. Come si esce dalla possessione ad opera di un mito? Come si fa, in concreto,
a gestire un braccio di ferro con gli archetipi dell’inconscio collettivo, per riportare
convinzione ed energia vitale alla nostra vita? In alternativa al miracolo, si
potrebbe ipotizzare una sorta di guarigione artistica della nevrosi: tiro fuori
le immagini archetipiche che stanno alla base delle mie emozioni disturbanti e creo
un’opera d’arte che presenta un valore universale, che tutti sono disposti ad
ammirare e a comperare. Questo corrisponde abbastanza bene a ciò che fa l’artista
contemporaneo (basta fare una visita alla biennale di Venezia per
convincersene), ma come sappiamo, purtroppo nemmeno gli artisti di maggiore
successo planetario guariscono facilmente dalle loro nevrosi creando. Ma le
cose si possono spiegare anche in un altro modo. Nella prospettiva dell’inconscio
collettivo, paziente e analista si vengono a collocare in una dimensione
psicologica molto particolare, una dimensione che ha tutte le caratteristiche
dello spazio transizionale
individuato e descritto da Winnicott, quel preciso luogo psicologico nel quale
è possibile una ripresa di relazione fra mondo interno e mondo esterno, aprendo
così alla possibilità di riattivare la crescita, la differenziazione e il
rafforzamento del vero sé.
Rispetto alla realtà esterna
e alla realtà interna, Winnicott ha rivendicato l’importanza di una terza parte
della vita dell’essere umano
… un’area intermedia di
esperienza… posto-di-riposo per l’individuo impegnato nel perpetuo compito
umano di mantenere separate, e tuttavia correlate, la realtà interna e la
realtà esterna (Winnicott, 1971; trad. it., 1974: 25-26).
[…] Dalla nascita, l’essere
umano è occupato nel problema del rapporto tra ciò che è percepito
oggettivamente e ciò che è concepito soggettivamente… I fenomeni transizionali
rappresentano i primi stadi dell’uso dell’illusione, senza la quale non vi è
significato per l’essere umano nell’idea di un rapporto con un oggetto che è
percepito dagli altri come esterno a quell’essere umano (Winnicott, 1971; trad.
it., 1974: 39).
Dovesse un adulto pretendere
la nostra accettazione della oggettività dei suoi fenomeni soggettivi, noi vi
scorgeremmo o diagnosticheremmo la follia. Se, tuttavia, l’adulto trova la
maniera di godere dell’area intermedia personale senza avanzare pretese, allora
possiamo riconoscere le nostre proprie aree intermedie corrispondenti e ci fa
piacere di trovare un certo grado di sovrapposizione, vale a dire l’esperienza
comune tra i membri di un gruppo nell’arte, nella religione o nella filosofia
(Winnicott, 1971; trad. it., 1974: 42).
Mentre Jung concepì se
stesso come un Virgilio che aveva il compito di guidare il paziente nella
dimensione transizionale di inferno e purgatorio dell’inconscio collettivo,
differenziando e rafforzando progressivamente il senso di sé nel confronto con emozioni
sopraffacenti, confronto al quale era assegnato un grande valore formativo,
Kohut si impegnò in un progetto di ponte che non era affatto meno ambizioso. Il
progetto di Kohut, molto simile a quello di Winnicott, fu quello di prestare direttamente se stesso come oggetto
transizionale, o meglio come “oggettosé”, nell’idea di poter
svolgere, nei confronti del paziente, un ruolo analogo a quello svolto dal
genitore nelle delicate fasi dello sviluppo che portano il bambino all’edificazione
del proprio sé. Le emozioni
sopraffacenti non sono più proiettate in una dimensione terza, collocata in un
luogo “trascendentale”, ma contenute e lette nelle vicissitudini della
relazione, realtà umana all’occorrenza fortemente drammatizzata, che si
sviluppa nell’hic et nunc degli incontri psicoterapeutici. Per Kohut, il “sé
coesivo” è la “struttura centrale della soggettività”, che organizza la normale
percezione di sé. Per potersi incentrare su se stesso, cioè per differenziare e
consolidare il proprio sé, secondo Kohut l’essere umano ha bisogno di
idealizzare il proprio sé, mettendolo nel fuoco del rispecchiamento di una
figura di riferimento empatica (transfert
speculare) e/o di rinforzarlo identificandosi (e
anche fondendosi a tratti) con una figura di riferimento idealizzata (transfert idealizzante). Nella
terminologia di Kohut, tali indispensabili figure di riferimento si chiamano
oggettisé, il che significa degli oggetti che sono soggettivamente
vissuti come facenti parte del proprio sé. Il bisogno di oggettisé cambia di
qualità nel corso della vita, ma non scompare mai del tutto. Il problema
psicoterapeutico fondamentale diventa perciò: come fare per essere riconosciuto
ed accettato dal paziente come nuovo oggettosé di cui potersi fidare, quello
che ha il compito di riparare i traumi prodotti dagli antichi e inadeguati
oggettisé della sua infanzia? Secondo Kohut, come ho detto, il metodo consiste
nell’uso continuativo e prolungato dell’immersione empatica da parte dell’analista
verso tutti gli aspetti del mondo soggettivo del paziente.
II metodo d’indagine
empatico-introspettivo si riferisce al tentativo di comprendere ciò che una
persona esprime da una prospettiva interna, piuttosto che esterna, rispetto
alla soggettività della persona stessa (Stolorow, Brandchaft, Atwood, 1987: 15,
trad. mia).
Mi sembrano particolarmente
significativi e rivelatori i seguenti passaggi:
Se, sulla base di un
moralismo della realtà o della maturità terapeutica, il terapeuta si concentra
nel censurare il narcisismo manifesto del paziente, egli spingerà i bisogni
narcisistici rimossi verso una rimozione più profonda, oppure aumenterà la
profondità della scissione della personalità che separa il settore del sé
autonomo che non ha ottenuto risposta dal sé clamorosamente affermativo che manca
di autonomia, e bloccherà il dispiegarsi del transfert narcisistico... Ma se l’analista
può mostrare al paziente che gli chiede di lodarlo il bisogno disperato
del bambino "senza specchio" che è dentro di lui, e se l’analista può
mostrare al paziente rabbioso la disperazione e l’incapacità che stanno dietro
la rabbia, se può dimostrargli cioè che la sua rabbia è la diretta conseguenza
del fatto che non può avanzare le sue effettive richieste, allora i vecchi
bisogni cominceranno ad apparire in modo più manifesto, mentre il paziente
diventerà più empatico verso se stesso (Kohut, 1978; trad. it., 1982: 182).
Sono un relativista
diagnostico: per me i termini "psicosi" e "stati al limite"
si riferiscono semplicemente al fatto che ci troviamo ad affrontare stati di
caos prepsicologico che lo strumento empatico dell’osservatore è incapace di
comprendere (Kohut, 1984; trad. it., 1986: 27).
Se l’analista è invece
capace di "sopportare il calore", se continua ad allargare la sua
osservazione empatica anziché allontanarsi dal paziente dichiarandolo "non
analizzabile" - come se questo termine connotasse una realtà oggettiva
nella quale l’analista stesso non è incluso - potrà essere ricompensato dall’assistere
al modo in cui un caso al limite diventa un disturbo narcisistico della
personalità (cioè una nevrosi grave, ma analizzabile) (Kohut, 1984; trad. it.,
1986: 234).
Messo in questi termini,
discorso di Kohut sembra decisamente più scientifico rispetto a quello di Jung,
ma, a sua volta, non è privo di difficoltà. Ammesso che l’analista sia così
bravo da riuscire a ricostruire con sufficiente esattezza il mondo interiore
del paziente e a farlo sentire così profondamente compreso, cosa persuaderà il
paziente a credere che anche al di fuori dell’ora di consultazione analitica
potrà osare di abbassare le sue difese nevrotiche, con la fiducia di non essere
di nuovo traumatizzato dall’impatto con un mondo esterno che non si preoccupa
affatto di aiutarlo e di trattarlo così bene come fa il suo analista? Spiazzandoci
non poco, Kohut suggerisce che il vero fattore terapeutico risiede nel fallimento della comprensione empatica da parte
dell’analista impegnato a comprendere. Beninteso, si tratta qui di un
fallimento sopportabile, non traumatico: un fallimento che non deve nemmeno
essere introdotto artificialmente, perché la comprensione dell’analista, per
quanto accurata, non sarà mai perfetta e il fatto stesso di tradurre le
emozioni in parole comporta di per sé una frustrazione inevitabile, una
comprensione imperfetta. A pensarci bene si tratta di una trovata che contiene
un suo innegabile fascino: il paziente guarisce, in definitiva, perché decide
di dare una mano all’analista. Vede che il brav’uomo s’impegna a fondo e più di
così non riesce a fare. Qualcosa riesce a capire e poi brancola nel buio. A
quel punto, il paziente sopporta la delusione e fa un passo totalmente al di
fuori dalle sue abitudini mentali (almeno per quanto riguarda l’area della sua
psicopatologia): osa partire da se stesso e andare incontro ad un altro essere
umano, e lo aiuta a capire qualcosa di sé. In linea di principio, quando questo
accade si può dire che è quasi fatta: non sarà un gran ponte, ma almeno una
fragile passerella è gettata fra le due opposte sponde e nasce di qui la
speranza che, passo dopo passo, pezzetto per volta, si possa procedere alla
benedetta edificazione del sé coesivo (oltre che, parallelamente, all’edificazione
dell’oggetto coesivo, cioè dell’oggetto inteso come altro da sé e non più come
oggettosé). Personalmente, questa spiegazione mi convince a metà. Va bene
quando si tratta di disturbi nevrotici non tanto gravi, ma non mi pare
realistica nei casi di una certa gravità, proprio quelli che Kohut ci ha
incoraggiati a trattare. In questi casi, secondo la mia esperienza, la terapia procede
attraverso una serie di crisi e
drammatizzazioni ben più faticose del semplice comprendere e
spiegare. Citerò me stesso:
[…] l’empatia in senso
kohutiano è un’idealizzazione di ciò che l’analista può fare, perché in realtà
nessuno può provare emozioni […] senza essere personalmente e
imprevedibilmente coinvolto e, quindi, essere se stesso e non l’altro
della relazione […] Essere personalmente coinvolto, sostiene Fosshage, comporta
due livelli: diventare in maniera controtransferale l’altro del paziente […] o,
più autenticamente, essere se stessi: "prospettiva centrata sul sé dell’analista"
[…]. Il mio lavoro riguarda l’intergioco di queste diverse modalità di ascolto
e l’effetto terapeutico che ne può derivare. Nella crisi, il paziente vive la
disperazione del fatto che io non posso essere lui, cioè la necessità di
rompere una simbiosi. Nella svolta si realizza una specie di morte e rinascita,
avviene una trasformazione, o meglio una nuova delimitazione e una nuova
organizzazione del sé nucleare, per cui il paziente diventa improvvisamente
capace di autoriflessione in un’area in cui non lo era e di scoprire ancora una
volta (o per la prima volta) e di accettare il fatto che io non sono lui, pur
non essendo nemmeno il suo vecchio oggetto. Sulla base dell’esperienza che
fa di me come oggetto nuovo, ricostruisce improvvisamente un senso di sé
nuovo che gli consente di riorganizzare in forma non più
patologica determinate esperienze emotive che non poteva precedentemente
integrare con il vecchio senso di sé che era mantenuto fisso nella ripetitività
della relazione con il vecchio oggetto (Lorenzini, 2006: 109-110).
Fin qui, ho implicitamente mutuato
il concetto di spazio transizionale come qualità soggettiva dell’esperienza,
cosa che nella tradizione significa anche illusione, “illusione necessaria”,
secondo la definizione data da Winnicott; una definizione che non sarebbe
dispiaciuta a Kohut in riferimento alla natura dell’oggettosé. Kohut ci teneva
a precisare che il punto di vista della psicologia del sé era rigorosamente
intrapsichico e criticava i concetti introdotti nella psicoanalisi da un’osservazione
esterna, come nella biologia o nella sociologia: tipica, a riguardo, la sua
critica al concetto di “simbiosi”. L’oggettosé, per Kohut, era chiaramente un’esperienza
soggettiva. Tanto per Winnicott, quanto per Kohut, la malattia consiste in una
prospettiva eccessivamente (infantilmente) soggettiva, nella quale il paziente
si colloca quando le emozioni risvegliate nei rapporti con gli altri si fanno
più dure. Si potrebbe argomentare così: Freud, Jung, Winnicott e Kohut
ragionano, nei loro scritti, in termini di contrapposizione fra mondo interno e mondo esterno. Ma è ancora
filosoficamente sostenibile un’impostazione di questo genere? La psicoanalisi è
nata in contemporanea con la fisica moderna, ma, curiosamente, mentre questa
rinunciava alle caratteristiche di oggettività assoluta dello spazio e del
tempo e, correlativamente, anche all’esistenza di una soggettività trascendente
(occhio di dio) che tale assolutezza vedeva e garantiva, negli stessi anni la
psicoanalisi neonata riproponeva la fede nell’esistenza del principio di
realtà, una realtà assoluta ed esterna rispetto alle distorsioni prodotte dalla
soggettività del soggetto. Tra i tanti motivi per cui questa posizione non è
più sostenibile, ritengo fondamentale la critica al modello della mente isolata (la mente
autosussistente dell’uomo, creata a perfetta somiglianza della mente
autosussistente di Dio): un modello che ha mantenuto il suo credito fino ad
oggi ed è passato indenne perfino attraverso l’opera dei grandi innovatori (4).
Kohut, per esempio, fa rientrare due significati molto diversi nel termine
“sé”: il sé come l’ente esistenziale della soggettività (il soggetto dell’esperienza,
dell’iniziativa e del libero arbitrio) e il sé come struttura psichica, dotato
di coesione, ecc., cioè qualcosa che ha lo stesso statuto di realtà oggettiva
del vecchio apparato psichico della psicoanalisi classica. In questo modo,
creando un’identificazione fra due ordini di realtà molto diversi (quasi un
trucco da prestigiatore), Kohut reifica la soggettività, ne fa, per l’appunto,
qualcosa di autosussistente e può parlare dello sviluppo del sé come di un
processo autofondato, come l’embriogenesi di un animale o lo sviluppo di una
quercia dalla ghianda: il dispiegamento e l’attuazione del cosiddetto
“programma nucleare del sé”. Nel corso della crescita, l’oggettosé è certamente
indispensabile per le “funzioni” che svolge, funzioni vicarianti, prestate ad
un sé che non è ancora sufficientemente autonomo, ma si tratta appunto di
somministrazione di funzioni e non di scambio intersoggettivo. In questo senso,
come è noto, Kohut parla dell’empatia come di un fattore ambientale
indispensabile per il mantenimento in vita e la crescita del Sé e paragona il
bisogno che il Sé ha dell’empatia dell’oggettosé al bisogno che il corpo fisico
ha dell’ossigeno dell’aria. Non risulta altrettanto valorizzata, nella
psicologia del Sé, l’unicità della relazione psicologica reale che si
stabilisce fra due persone: quello scambio e quell’intreccio di apprendimenti,
affetti, rispecchiamenti, identificazioni, aggiustamenti e mutue regolazioni che
organizza un sistema molto complesso, un sistema di sistemi, la diade
intersoggettiva. In definitiva, si tratta ancora una volta di una concezione
naturalistica della psiche, nella finzione che la psiche possa esistere come una
cosa fra le cose, in contraddizione palese con altre affermazioni ricorrenti
dello stesso Kohut, per esempio con la convinzione più volte ribadita che l’autonomia
del Sé è sempre relativa e il bisogno dell’oggettosé matura ma non finisce mai.
Lo stesso pensava Winnicott:
lo spazio transizionale, cioè quella dimensione caratterizzata dall’impossibilità
di separare ciò che soggettivo da ciò che è oggettivo, si trasforma nel corso
della vita ma non finisce mai, perché alla fine, nell’essere umano adulto,
viene a coincidere con lo spazio della cultura e della creatività. Soltanto nell’ambito
della psicoanalisi relazionale, cioè in anni più recenti si è realizzato un
fondamentale cambiamento di prospettiva:
l’oggetto di studio non è l’individuo
come entità separata, i cui desideri sono in conflitto con la realtà esterna,
ma un campo d’interazione all’interno del quale l’individuo nasce e lotta per stabilire
contatti e per esprimersi. Il desiderio è vissuto sempre nel contesto delle
relazioni, che ne definiscono il significato. La mente è composta da
configurazioni relazionali (Mitchell, 1988; trad. it. 1993: 5).
In definitiva la polarità di
mondo interno e mondo esterno può essere quasi sempre sostituita con quella
dell’uno e l’altro, o meglio con quella dei diversi soggetti della realtà
intersoggettiva, che sono contemporaneamente soggetto e oggetto di se stessi e
di ogni altro soggetto della relazione. Ne derivano conseguenze importanti, e
la prima fra tutte è che lo spazio
transizionale non è un’illusione. L’illusione, piuttosto, è quella
relativa all’esistenza di una realtà esterna che ha lo stesso grado di
oggettività e lo stesso significato per tutti.
Forse, rispetto a Kohut, era
già più vicino Winnicott a questo ribaltamento concettuale, infatti non è così difficile
interpretare il suo concetto di spazio transizionale in maniera intrinsecamente
relazionale. Si può fare ricorso a una particolare (e famosa) tecnica
terapeutica utilizzata da Winnicott per risalire operativamente a un
significato allargato di questo genere: alludo naturalmente al gioco dello
scarabocchio:
Nel gioco dello
scarabocchio, Winnicott gioca con il suo paziente (in genere un bambino già un
po’ grandicello) liberamente e spontaneamente. Winnicott disegna delle linee su
un pezzo di carta e il bambino deve trasformare le linee in qualcosa. Poi è il
bambino a disegnare delle linee ed è Winnicott che deve completarle. Di chi è
il disegno finale? È del bambino o di Winnicott? Come l’oggetto transizionale,
esso non è né interno né esterno sia per Winnicott sia per il paziente. Come l’interpretazione,
dal punto di vista di Winnicott, esso non proviene dall’analista o dal paziente
ma al contrario nasce dallo spazio transizionale tra loro (Aron 1996, trad. it.
2004: 119).
Interessante paragonare questo
ampliamento in senso relazionale del concetto di spazio transizionale con l’attuale
posizione, filosoficamente aggiornata di Irving Hoffman:
la partecipazione personale
dell’analista al processo ha un effetto costante su ciò che egli comprende di
se stesso e del paziente nell’interazione […] L’idea di fondo non è che
fantasia e realtà siano state ridistribuite, piuttosto che siamo entrati in un
mondo d’influenza reciproca e di significato co-costruito. L’esperienza viene
considerata in un continuo processo di formulazione o spiegazione […] il
racconto di vita del paziente non è solo una questione di ricostruzione
storica, ma anche in parte una nuova storia che viene creata all’interno dell’interazione
immediata (Hoffman 1998, trad. it. 2000: 155).
In conformità con la
concezione del costruttivismo
sociale proposta da Hoffman, si può dire che lo spazio transizionale
coincide con quell’intergioco molto reale di significati che si determina nel
confronto e nello scambio intersoggettivo. Esso crea il mondo umano intorno a noi, l’unico mondo che la nostra
mente sia in grado di comprendere e di abitare. Cosa sia la realtà, al di là di
questo spazio transizionale, cioè al di là dei nostri significati e, di
conseguenza, della nostra capacità di organizzare l’esperienza che facciamo in
pensieri logici o in immaginazioni dotate di una valenza emotiva, fondamentalmente
non ci è dato sapere.
L’esperienza più intensa che
si realizza nell’interazione psicoterapeutica ha luogo quando, per così dire, prendono
corpo i fantasmi e le paure dell’uno arruolano le paure dell’altro nella caratteristica
forma delle ripetizioni traumatiche che avvengono in terapia. Ho chiamato “psicodrammi
in seduta” questi faticosi passaggi che, a mio modo di vedere, sono
indispensabili, oltre inevitabili, soprattutto per poter accedere ai nuclei di
maggiore sofferenza della persona.
Come siamo arrivati a
questo? Perché avverti le differenze fra noi come aggressive e irriverenti? Perché
spesso mi trovo ad aggredirti (o a volerti aggredire)? Come possiamo trovare
insieme un modo di parlarci che permetta a te di avere rispetto di te stesso e
a me qualche possibilità di essere e di usare me stesso in modo più autentico,
in un modo che ti sia di aiuto?
[…] In questa visione del
processo psicoanalitico, il cambiamento non è prodotto né dall’esplorazione e
dal rispecchiamento né dallo holding dell’esperienza soggettiva del
paziente, e nemmeno dall’intimare all’analizzando di riorganizzare le sue
speranze e i suoi desideri secondo il senso di adeguatezza dell’analista
(presentato come “realtà” o “maturità”). Piuttosto, il cambiamento
psicoanalitico implica una lotta
da parte di entrambi i partecipanti per superare proprio questi tipi di squilibri,
che caratterizzano i modelli patologici di integrazione e le cui differenze di
esperienza minacciano il legame interpersonale invece di arricchirlo. Come ha
scritto Schwartz, “nella situazione psicoanalitica il lavoro dell’interpretazione
non è quello di scambiare l’illusione con la realtà, ma di stabilire un confine fra l’esperienza del
paziente e quella dell’analista e contemporaneamente di costruire un ponte tra
di esse” (Mitchell 1988, trad. it. 1993: 267, corsivo mio).
La vecchia lettura di questi
fenomeni in termini di transfert e controtransfert poteva solo riportare le
difficoltà reciproche all’interno della mente di ognuno, negando il valore
della relazione, e falliva completamente nel cogliere le potenzialità
terapeutiche della crisi, così bene illustrate da Mitchell nell’esempio
precedente. All’analista era chiesto di reprimere il proprio controtransfert,
considerato come il riemergere di aspetti nevrotici personali e al paziente
veniva spiegata l’esperienza che stava facendo in termini di pura e semplice
ripetizione del suo passato. Come si vede, la strada percorsa da allora non è affatto
breve e, posso garantire, non è stato un percorso agevole.
NOTE
(1) Alcuni anni fa ero presente ad una
cena di lavoro, nel corso della quale Paul Ornstein raccontò il seguente
aneddoto a proposito della personalità di Kohut. Un bel giorno, egli fu
invitato da Kohut che aveva indetto una riunione di tutti gli allievi e i
collaboratori più stretti. Kohut, il maestro, si fece trovare vestito molto
elegantemente, accompagnato da una bella bottiglia di champagne. Con fare
piuttosto cerimonioso, disse che aveva un annuncio importante da fare: aveva
appena deciso di togliere il trattino dal termine oggetto-Sé: da quel momento
in poi si sarebbe chiamato “oggettosé”, senza trattino!
(2) Per una recente e completa
trattazione della fenomenologia del sentire, vedi: De Monticelli 2003.
(3) Il motto significa: spiegare ciò che
ci è ignoto, riconducendolo a qualcos’altro che resta ancora più misterioso e
ignoto. Era una specie di “manifesto” della filosofia esoterica degli
alchimisti, una filosofia che colloca il mistero alla base dell’essere, l’inafferrabile
e l’infinito alla base del concreto e del finito: l’esatto opposto del
riduzionismo che ha improntato la filosofia della scienza fino all’inizio del
XX secolo.
(4) Vedi: Il mito della mente isolata,
in Stolorow e Atwood 1992, trad. it. 1995: 19-39.
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Winnicott D.W. (1971) Gioco e realtà trad. it., Armando editore, Roma 1974.
Alberto Lorenzini
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