Jung, Kohut e la psicoanalisi relazionale


Kohut è stato forse l’ultimo grande caposcuola, l’ultimo “creatore” psicoanalitico che, da solo, ha riformato concetti, visione d’insieme, prassi terapeutica, campo di applicazione e metodo della psicoanalisi (1). Ha effettivamente aperto nuove possibilità nella comprensione e nel trattamento delle nevrosi più gravi (da lui identificate come “disturbi narcisistici della personalità” e, successivamente, ridefinite come “disturbi del sé”) e, spinto dall’impellenza di adeguare la psicoanalisi a questa impresa, ha portato avanti un progressivo capovolgimento della metapsicologia e della filosofia freudiana, tanto che a qualcuno è parso legittimo parlare di un nuovo paradigma:

Nel paradigma della psicologia del Sé con il termine "Sé" ci si riferisce alla vita mentale dell’esperienza soggettiva della persona; e si ritiene che essa è costituita da stati mentali complessi che vanno capiti così come sono, senza ridurli ai loro componenti elementari... Secondo Kohut gli stati mentali complessi sono le configurazioni psicologiche primarie. Al di sotto di tali configurazioni psicologiche non esiste altro se non i prodotti della disintegrazione di esse... Detto più semplicemente... si adotta un procedimento olistico. Mentre le pulsioni possono essere studiate oggettivamente, gli stati mentali complessi, non ridotti ad altro di più elementare, possono logicamente essere studiati e capiti soltanto mediante l’introspezione e l’empatia (Ruggiero 1996: 20).

Detto in altri termini, cessa definitivamente nell’ultimo Kohut il primato delle pulsioni, sostituito dal primato degli “stati mentali complessi” che poi altro non sono che i sentimenti, le emozioni, gli umori, gli affetti, cioè, in generale, i contenuti del mondo interiore così come si presentano direttamente al nostro sentire (2). Infatti, Kohut ha ribadito molte volte che il procedimento psicoanalitico alterna obbligatoriamente due fasi: prima comprendere e poi spiegare. E nei casi più impegnativi la fatica di comprendere domina a lungo la scena: possono addirittura passare anni di lavoro, prima che sia giustificato azzardare una spiegazione di qualche rilievo. Forse è superfluo precisare che il comprendere di Kohut non ha niente a che vedere con l’osservazione distaccata della psicologia del paziente, trattandosi al contrario di un’immersione empatica “prolungata e continuativa” nell’esperienza soggettiva del paziente. Nonostante ciò, nonostante l’approccio fenomenologico all’esperienza del paziente e il ribaltamento del punto di vista sulla natura del mondo interiore, Kohut ha ribadito molte volte che l’empatia è, prima di tutto, un metodo di osservazione, mantenendo intatta in questo modo l’aspettativa del ruolo “demiurgico” dell’analista. Con uno sforzo ammirevole, capace di durare anni e anni, questi arriva a comprendere l’incomprensibile e a quel punto finalmente spiega! Vorrei precisare subito che io non credo a questa versione dei fatti. Sono convinto, al contrario, che l’immersione empatica prolungata e continuativa abbia la sua vera ragione di essere nella necessità di far sentire compreso il paziente: soltanto il verificarsi di questo risultato, che riguarda un accadimento a livello dell’esperienza soggettiva del paziente, ha il potere di mettere in moto il processo psicoanalitico.
Nella prospettiva di Kohut, cade completamente l’idea di poter scomporre la psiche come se fosse un complicato meccanismo, secondo il programma del riduzionismo naturalistico applicato da Freud, e cade anche, almeno in parte, l’illusione di una soggettività non coinvolta che, con la collaborazione del paziente, opera dal di fuori, come la mente e la mano del chirurgo, sulla materia psicologica in esame. In questo modo Kohut si avvicina parecchio, anche se non l’avrebbe mai voluto riconoscere, alla tradizione relazionale che, nel corso del tempo, è stata rappresentata da Ferenczi, dagli interpersonalisti, dagli umanisti e dagli appartenenti alla teoria delle relazioni oggettuali. Tradizione dalla quale non trovo giusto omettere la presenza, per tanti versi anticipatrice, del grande dissidente Jung. Sullivan, Horney e Fromm si collocarono tranquillamente al di fuori del movimento psicoanalitico e sono convinto che Kohut avrebbe rischiato forte di esserne estromesso se la psicologia del sé fosse venuta alla luce anche solo dieci anni prima, negli anni sessanta invece che settanta, cioè prima della ventata di libertà intellettuale che investì l’occidente proprio a spartiacque fra quelle due decadi. Ma la dissidenza, o meglio la condanna e l’espulsione di Jung dal movimento psicoanalitico risale addirittura al 1913, l’epoca delle prime grandi scomuniche psicoanalitiche, praticamente non moltissimo tempo dopo che si era conclusa in Europa la caccia alle streghe (se la mia fonte è veritiera, l’ultima fu bruciata proprio in Svizzera nel 1799, per cui la cacciata di Jung, più di cento anni fa, si colloca quasi esattamente a metà strada nel corso del tempo che ci separa, oggi, dalla fine della caccia alle streghe), ed è probabilmente anche per questo motivo, cioè per la violenza con cui è stato espulso dalla storia della psicoanalisi, che il suo pensiero ci appare ancora oggi come non integrabile con il mainstream, come se si trattasse di un’altra psicoanalisi, una dimensione parallela.
Personalmente, devo dire che la mia iniziale adesione a Jung fu determinata soprattutto dal fatto che questi non pretendeva di scomporre le persone in meccanismi, né di studiare la psiche mantenendo un’ottica dal di fuori della psiche stessa. Di Jung mi affascinò, fin dal principio, il rispetto per la complessità dei fenomeni psicologici, provocatoriamente riassunto nella citazione del motto alchimistico ignotum per ignotius (3), e la sua disponibilità a lasciarsi afferrare e coinvolgere profondamente dall’oggetto del suo studio, la psiche vivente, nella convinzione – che anche lui aveva fortissima quando era al lavoro – di dover mettere in moto un processo di crescita, piuttosto che compiere lo studio scientifico di un caso.
Alcuni brani, tratti da Il punto di svolta di Fritjof Capra, possono spiegare meglio ciò che intendo:

La teoria freudiana della mente si fonda sul concetto dell’organismo umano come macchina biologica complessa... Jung invece non era interessato tanto a una spiegazione dei fenomeni psicologici in funzione di meccanismi specifici ma tendeva piuttosto a comprendere la psiche nella sua totalità ed era interessato particolarmente alle sue relazioni con l’ambiente più vasto.
Il concetto dell’inconscio collettivo di Jung distingue la sua psicologia non solo da quella di Freud, ma da tutte le altre. Esso implica l’esistenza di un legame fra l’individuo e l’umanità concepita come una totalità – in un certo senso, in effetti, fra l’individuo e il cosmo intero – legame che non può essere inteso all’interno di una cornice meccanicistica, ma che è in stretto accordo con la concezione sistemica della mente (Capra, 1982; trad. it. 1984: 298-299).

Jung non si sentiva compreso, nel suo intimo, dalla psicoanalisi di Freud. Lo dimostra un sogno del 1911, da lui fatto mentre era completamente assorbito nella stesura di Wandlungen und Symbole der Libido, l’opera che avrebbe, di lì a poco, determinato una brusca e definitiva separazione da Freud:

(II sogno) si svolgeva in una regione montuosa sul confine svizzero-austriaco. Era verso sera, e mi appariva un uomo anziano, in uniforme della dogana dell’Impero austriaco. Camminava piuttosto curvo, passandomi innanzi senza fare attenzione a me. Aveva un’espressione accigliata, un po’ malinconica e annoiata. C’erano anche altre persone, e qualcuno m’informava che non era un uomo in carne e ossa, ma che si trattava dello spettro di un ufficiale di dogana morto anni prima. “È uno di quelli che non poterono morire veramente” mi dissero (Jung, 1961; trad. it. 1965: 190).

Più sotto leggiamo il commento e il seguito del sogno:

Sotto l’influenza della personalità di Freud avevo – per quanto possibile – rinunciato al mio proprio giudizio, e represse le mie critiche. Era questa la premessa indispensabile per collaborare con lui. Mi ero detto: “Freud è molto più saggio ed esperto di te. Per ora devi solo ascoltare ciò che dice, e apprendere da lui”. Poi, con mia sorpresa, mi scoprivo a sognarlo nei panni di un burbero impiegato dell’Imperiale Regio governo austriaco, un ispettore delle dogane che era defunto e tuttavia s’aggirava come un fantasma... il sogno poteva esser considerato come un correttivo, una compensazione della mia alta opinione e della mia ammirazione coscienti che, in modo per me inopportuno, andavano troppo oltre (Jung, 1961; trad. it. 1965: 191).

Nelle considerazioni successive, Jung riflette sul fatto che l’analisi, per curare i nevrotici, per incoraggiarli a smuovere le forze in gioco, deve offrir loro un nuovo modo di vedersi, mentre quello freudiano, nel suo appello al principio di realtà, risulta troppo depressivo, troppo simile al loro punto di partenza abituale. Kohutianamente, si potrebbero tradurre le preoccupazioni di Jung nel senso di un eccessivo valore attribuito da Freud allo spiegare, a scapito del comprendere empatico, quello che ha il compito di mettere in moto il processo. Ma, soprattutto, Jung non riusciva a capire come quell’esagerata fiducia nel potere illuministico della spiegazione razionale potesse fornire una via di scampo dalla malattia psichica, quando, nell’esperienza vissuta dei suoi pazienti, questa si presentava come una “potenza soverchiante”, qualcosa che, per definizione, non si lascia in nessun modo sconfiggere da un appello alla ragione.

Come potrebbero mai riemergere se […] perfino la teoria li fa sprofondare e non offre nulla più, come via di liberazione, che l’ingiunzione razionale, o "ragionevole", di abbandonare una volta per sempre le loro puerilità? Che è proprio ciò che non sanno fare! [...Freud] mi aveva insegnato che siamo tutti un po’ nevrotici, e perciò bisogna esser tolleranti. Ma non ero propenso ad accettare pacificamente questa dichiarazione, volevo piuttosto sapere come si potesse davvero sfuggire a una nevrosi (Jung, 1961; trad. it., 1965: 193-194).

In quanto è nevrotico, l’uomo ha perduto la fiducia in se stesso. Una nevrosi è una sconfitta umiliante e come tale la sente anche chi in qualche modo conosce la propria psicologia. Un nemico "irreale" ci ha inferto questa sconfitta; già da tempo i medici hanno assicurato al paziente che non ha nessuna malattia: non soffre di mal di cuore, non ha un cancro… (Jung, 1938: trad. it., 1979: 20).

Jung stabilì che compito ineludibile della psicoterapia fosse il confronto con l’esperienza del “numinoso”, cioè con l’intensità emotiva sopraffacente. In questo modo, si mise nella condizione di dare pieno ascolto alla soggettività del paziente, proprio in quegli aspetti più perturbanti e razionalmente (o “ragionevolmente”) meno comprensibili della sua esperienza, quelli che oggi chiameremmo stati emotivi arcaici, cioè quelle emozioni che sono inevitabilmente alla base della sofferenza psichica più grave.
Grazie all’autobiografia che ci ha lasciato, possiamo illuminare il senso del suo lavoro in maniera molto diretta e significativa. Fin da bambino, Jung aveva sviluppato e coltivato nel proprio intimo un mondo segreto che gli serviva come rifugio dove ritirarsi di quando in quando, per fare fronte ad un senso di sé particolarmente traballante:

Scoprii che [i miei compagni di scuola] mi alienavano da me stesso. Quando ero con loro diventavo diverso rispetto a quello che ero a casa... i miei compagni di scuola... mi costringevano a essere diverso da quello che pensavo di essere... Era come se sentissi e temessi una scissione del mio essere: ne avevo paura, quasi fosse una minaccia per la mia sicurezza interiore (Jung, 1961; trad. it., 1965: 38-39).

Così descrivono Atwood e Stolorow, in una loro opera dedicata alle psicobiografie dei grandi teorici della psicoanalisi, quel periodo di vita infantile di Jung:

Insieme allo spaventoso cambiamento e alla scissione interna generatasi in Jung con il suo ingresso a scuola e con la frequentazione di un mondo sociale più ampio della cerchia familiare, egli sviluppò un certo numero di giochi simbolici, veramente affascinanti, perché chiariscono i temi soggettivi che dominarono quel periodo della sua vita (fra i 7 e i 10 anni). Uno dei giochi richiedeva il fuoco... un altro gioco si basava su una curiosa relazione con una pietra. Spesso, quando Jung si sentiva solo, andava a sedersi su una pietra particolare che sporgeva sullo stesso pendio dove il ragazzo si prendeva cura del fuoco sacro. Allora cominciava un dialogo che rispecchiava le sue difficoltà nel differenziare fra il sé e l’oggetto (Atwood & Stolorow, 1969: 87, trad. mia):

"Io sto seduto sulla cima di questa pietra, e la pietra è sotto", ma anche la pietra potrebbe dire "io" e pensare: "Io sono posata su questo pendio ed egli è seduto su di me". Allora sorgeva il problema: "Sono io quello che e seduto sulla pietra, o io sono la pietra sulla quale egli siede?"... La risposta era tutt’altro che chiara... [ma] non nutrivo dubbi che la pietra fosse in qualche oscuro rapporto con me (Jung, 1961; trad. it., 1965: 39).

A Jung veniva voglia di andare sulla pietra, soprattutto quando si sentiva confuso e in conflitto per via del suo interminabile rimuginare sulle rivelazioni segrete della sua prima infanzia (il gesuita, il mangiatore di uomini, ecc.). Egli spesso sentiva un gran desiderio di comunicare le sue esperienze a qualcuno e interrompere l’isolamento psicologico nel quale lo avevano precipitato i suoi segreti. Allo stesso tempo, tuttavia, temeva che mostrare i suoi pensieri segreti lo avrebbe esposto all’incomprensione e al trauma del ridicolo (Atwood & Stolorow, 1969: 88, trad. mia).

Secondo Jung la psicoanalisi freudiana non forniva l’aiuto necessario a chi, per proteggere il proprio sé fragile dal senso d’invasione generato dal rapporto con gli altri, si era rifugiato dentro se stesso, sollevando "il ponte". Winnicott, con il suo senso dell’umorismo tipicamente inglese, affermò una volta che la psicoanalisi rappresenta una creazione a opera di persone schizoidi, destinata ai bisogni di persone schizoidi.
Quando Kohut sviluppò il concetto di empatia come introspezione vicariante e come metodo sul quale fondare la psicologia del sé, ebbe la stessa preoccupazione di Jung, cioè quella di ristabilire uno scambio fra mondo interno ed esperienza condivisa.
La preoccupazione dei due era la stessa, ma le soluzioni da loro escogitate furono piuttosto diverse. Il ponte ideato da Jung fu la concretizzazione del mondo interiore. Per lui, quasi magicamente, le immagini che affiorano nei sogni, nelle fantasie spontanee, nelle fiabe e nei miti conducono vita propria, cioè vivono nell’inconscio in maniera indipendente e parallela rispetto al nostro io cosciente. In esse possiamo raggiungere un livello di esperienza che, pur collocandosi nella soggettività privata, manifesta validità oggettiva e universale: un livello dal quale attingere vitalità, progettualità e tutto ciò di cui abbiamo bisogno per guarire psichicamente e, in generale, per arricchire la nostra vita interiore, nel corso di uno sviluppo psicologico che non ha mai fine, da lui denominato processo d’individuazione.
Proprio per questo l’autobiografia di Jung, scritta praticamente al termine di una vita molto lunga e straordinariamente operosa, comincia così:
La mia vita è la storia di un’autorealizzazione dell’inconscio.
[…] Che cosa noi siamo per la nostra visione interiore, che cosa l’uomo sembra essere sub specie aeternitatis, può essere espresso solo con un mito. Il mito è più individuale, rappresenta la vita con più precisione della scienza. La scienza si serve di concetti troppo generali per poter soddisfare alla ricchezza soggettiva della vita singola (Jung, 1961; trad. it., 1965: 21).

Questa dimensione oggettiva della soggettività, da lui denominata “inconscio collettivo”, è un luogo di morte e rinascita della coscienza, o meglio di trasformazione psicologica. Nel luogo più buio e disperato del nostro estraniamento ed isolamento interiori, nella crisi che minaccia di troncare la continuità del senso di sé, nel momento in cui non s’intravede nessuna via d’uscita, proprio lì, perseverando e non fuggendo, possiamo trovare una gemma luminosa, un valore di cui appropriarci e da rivendicare di fronte all’umanità intera, la pietra filosofale di cui parlavano gli alchimisti. Stando così le cose, la ricostruzione del ponte sembrerebbe magica o miracolosa e urta decisamente contro il senso comune, che vorrebbe sapere in termini più chiari cosa realmente facciamo, quando facciamo qualcosa di così importante come una psicoterapia, cioè quando ne va della salvezza o, quanto meno, della qualità della nostra vita. Cosa fa l’analista, perché il paziente possa accedere a un’esperienza di svolta di quel genere? Jung non lo dice. Non possiamo credere che per guarirla dalla morsa dell’intensità emotiva sopraffacente basti informare una persona sugli aspetti misteriosi e sui significati esoterici del suo soffrire, nemmeno se la spiegazione riguarda degli argomenti così generalmente importanti come sono quelli attinenti all’inconscio collettivo. Come si esce dalla possessione ad opera di un mito? Come si fa, in concreto, a gestire un braccio di ferro con gli archetipi dell’inconscio collettivo, per riportare convinzione ed energia vitale alla nostra vita? In alternativa al miracolo, si potrebbe ipotizzare una sorta di guarigione artistica della nevrosi: tiro fuori le immagini archetipiche che stanno alla base delle mie emozioni disturbanti e creo un’opera d’arte che presenta un valore universale, che tutti sono disposti ad ammirare e a comperare. Questo corrisponde abbastanza bene a ciò che fa l’artista contemporaneo (basta fare una visita alla biennale di Venezia per convincersene), ma come sappiamo, purtroppo nemmeno gli artisti di maggiore successo planetario guariscono facilmente dalle loro nevrosi creando. Ma le cose si possono spiegare anche in un altro modo. Nella prospettiva dell’inconscio collettivo, paziente e analista si vengono a collocare in una dimensione psicologica molto particolare, una dimensione che ha tutte le caratteristiche dello spazio transizionale individuato e descritto da Winnicott, quel preciso luogo psicologico nel quale è possibile una ripresa di relazione fra mondo interno e mondo esterno, aprendo così alla possibilità di riattivare la crescita, la differenziazione e il rafforzamento del vero sé.
Rispetto alla realtà esterna e alla realtà interna, Winnicott ha rivendicato l’importanza di una terza parte della vita dell’essere umano

… un’area intermedia di esperienza… posto-di-riposo per l’individuo impegnato nel perpetuo compito umano di mantenere separate, e tuttavia correlate, la realtà interna e la realtà esterna (Winnicott, 1971; trad. it., 1974: 25-26).

[…] Dalla nascita, l’essere umano è occupato nel problema del rapporto tra ciò che è percepito oggettivamente e ciò che è concepito soggettivamente… I fenomeni transizionali rappresentano i primi stadi dell’uso dell’illusione, senza la quale non vi è significato per l’essere umano nell’idea di un rapporto con un oggetto che è percepito dagli altri come esterno a quell’essere umano (Winnicott, 1971; trad. it., 1974: 39).

Dovesse un adulto pretendere la nostra accettazione della oggettività dei suoi fenomeni soggettivi, noi vi scorgeremmo o diagnosticheremmo la follia. Se, tuttavia, l’adulto trova la maniera di godere dell’area intermedia personale senza avanzare pretese, allora possiamo riconoscere le nostre proprie aree intermedie corrispondenti e ci fa piacere di trovare un certo grado di sovrapposizione, vale a dire l’esperienza comune tra i membri di un gruppo nell’arte, nella religione o nella filosofia (Winnicott, 1971; trad. it., 1974: 42).

Mentre Jung concepì se stesso come un Virgilio che aveva il compito di guidare il paziente nella dimensione transizionale di inferno e purgatorio dell’inconscio collettivo, differenziando e rafforzando progressivamente il senso di sé nel confronto con emozioni sopraffacenti, confronto al quale era assegnato un grande valore formativo, Kohut si impegnò in un progetto di ponte che non era affatto meno ambizioso. Il progetto di Kohut, molto simile a quello di Winnicott, fu quello di prestare direttamente se stesso come oggetto transizionale, o meglio come “oggettosé”, nell’idea di poter svolgere, nei confronti del paziente, un ruolo analogo a quello svolto dal genitore nelle delicate fasi dello sviluppo che portano il bambino all’edificazione del proprio sé. Le emozioni sopraffacenti non sono più proiettate in una dimensione terza, collocata in un luogo “trascendentale”, ma contenute e lette nelle vicissitudini della relazione, realtà umana all’occorrenza fortemente drammatizzata, che si sviluppa nell’hic et nunc degli incontri psicoterapeutici. Per Kohut, il “sé coesivo” è la “struttura centrale della soggettività”, che organizza la normale percezione di sé. Per potersi incentrare su se stesso, cioè per differenziare e consolidare il proprio sé, secondo Kohut l’essere umano ha bisogno di idealizzare il proprio sé, mettendolo nel fuoco del rispecchiamento di una figura di riferimento empatica (transfert speculare) e/o di rinforzarlo identificandosi (e anche fondendosi a tratti) con una figura di riferimento idealizzata (transfert idealizzante). Nella terminologia di Kohut, tali indispensabili figure di riferimento si chiamano oggettisé, il che significa degli oggetti che sono soggettivamente vissuti come facenti parte del proprio sé. Il bisogno di oggettisé cambia di qualità nel corso della vita, ma non scompare mai del tutto. Il problema psicoterapeutico fondamentale diventa perciò: come fare per essere riconosciuto ed accettato dal paziente come nuovo oggettosé di cui potersi fidare, quello che ha il compito di riparare i traumi prodotti dagli antichi e inadeguati oggettisé della sua infanzia? Secondo Kohut, come ho detto, il metodo consiste nell’uso continuativo e prolungato dell’immersione empatica da parte dell’analista verso tutti gli aspetti del mondo soggettivo del paziente.

II metodo d’indagine empatico-introspettivo si riferisce al tentativo di comprendere ciò che una persona esprime da una prospettiva interna, piuttosto che esterna, rispetto alla soggettività della persona stessa (Stolorow, Brandchaft, Atwood, 1987: 15, trad. mia).

Mi sembrano particolarmente significativi e rivelatori i seguenti passaggi:

Se, sulla base di un moralismo della realtà o della maturità terapeutica, il terapeuta si concentra nel censurare il narcisismo manifesto del paziente, egli spingerà i bisogni narcisistici rimossi verso una rimozione più profonda, oppure aumenterà la profondità della scissione della personalità che separa il settore del sé autonomo che non ha ottenuto risposta dal sé clamorosamente affermativo che manca di autonomia, e bloccherà il dispiegarsi del transfert narcisistico... Ma se l’analista può mostrare al paziente che gli chiede di lodarlo il bisogno disperato del bambino "senza specchio" che è dentro di lui, e se l’analista può mostrare al paziente rabbioso la disperazione e l’incapacità che stanno dietro la rabbia, se può dimostrargli cioè che la sua rabbia è la diretta conseguenza del fatto che non può avanzare le sue effettive richieste, allora i vecchi bisogni cominceranno ad apparire in modo più manifesto, mentre il paziente diventerà più empatico verso se stesso (Kohut, 1978; trad. it., 1982: 182).

Sono un relativista diagnostico: per me i termini "psicosi" e "stati al limite" si riferiscono semplicemente al fatto che ci troviamo ad affrontare stati di caos prepsicologico che lo strumento empatico dell’osservatore è incapace di comprendere (Kohut, 1984; trad. it., 1986: 27).

Se l’analista è invece capace di "sopportare il calore", se continua ad allargare la sua osservazione empatica anziché allontanarsi dal paziente dichiarandolo "non analizzabile" - come se questo termine connotasse una realtà oggettiva nella quale l’analista stesso non è incluso - potrà essere ricompensato dall’assistere al modo in cui un caso al limite diventa un disturbo narcisistico della personalità (cioè una nevrosi grave, ma analizzabile) (Kohut, 1984; trad. it., 1986: 234).

Messo in questi termini, discorso di Kohut sembra decisamente più scientifico rispetto a quello di Jung, ma, a sua volta, non è privo di difficoltà. Ammesso che l’analista sia così bravo da riuscire a ricostruire con sufficiente esattezza il mondo interiore del paziente e a farlo sentire così profondamente compreso, cosa persuaderà il paziente a credere che anche al di fuori dell’ora di consultazione analitica potrà osare di abbassare le sue difese nevrotiche, con la fiducia di non essere di nuovo traumatizzato dall’impatto con un mondo esterno che non si preoccupa affatto di aiutarlo e di trattarlo così bene come fa il suo analista? Spiazzandoci non poco, Kohut suggerisce che il vero fattore terapeutico risiede nel fallimento della comprensione empatica da parte dell’analista impegnato a comprendere. Beninteso, si tratta qui di un fallimento sopportabile, non traumatico: un fallimento che non deve nemmeno essere introdotto artificialmente, perché la comprensione dell’analista, per quanto accurata, non sarà mai perfetta e il fatto stesso di tradurre le emozioni in parole comporta di per sé una frustrazione inevitabile, una comprensione imperfetta. A pensarci bene si tratta di una trovata che contiene un suo innegabile fascino: il paziente guarisce, in definitiva, perché decide di dare una mano all’analista. Vede che il brav’uomo s’impegna a fondo e più di così non riesce a fare. Qualcosa riesce a capire e poi brancola nel buio. A quel punto, il paziente sopporta la delusione e fa un passo totalmente al di fuori dalle sue abitudini mentali (almeno per quanto riguarda l’area della sua psicopatologia): osa partire da se stesso e andare incontro ad un altro essere umano, e lo aiuta a capire qualcosa di sé. In linea di principio, quando questo accade si può dire che è quasi fatta: non sarà un gran ponte, ma almeno una fragile passerella è gettata fra le due opposte sponde e nasce di qui la speranza che, passo dopo passo, pezzetto per volta, si possa procedere alla benedetta edificazione del sé coesivo (oltre che, parallelamente, all’edificazione dell’oggetto coesivo, cioè dell’oggetto inteso come altro da sé e non più come oggettosé). Personalmente, questa spiegazione mi convince a metà. Va bene quando si tratta di disturbi nevrotici non tanto gravi, ma non mi pare realistica nei casi di una certa gravità, proprio quelli che Kohut ci ha incoraggiati a trattare. In questi casi, secondo la mia esperienza, la terapia procede attraverso una serie di crisi e drammatizzazioni ben più faticose del semplice comprendere e spiegare. Citerò me stesso:

[…] l’empatia in senso kohutiano è un’idealizzazione di ciò che l’analista può fare, perché in realtà nessuno può provare emozioni […] senza essere personalmente e imprevedibilmente coinvolto e, quindi, essere se stesso e non l’altro della relazione […] Essere personalmente coinvolto, sostiene Fosshage, comporta due livelli: diventare in maniera controtransferale l’altro del paziente […] o, più autenticamente, essere se stessi: "prospettiva centrata sul sé dell’analista" […]. Il mio lavoro riguarda l’intergioco di queste diverse modalità di ascolto e l’effetto terapeutico che ne può derivare. Nella crisi, il paziente vive la disperazione del fatto che io non posso essere lui, cioè la necessità di rompere una simbiosi. Nella svolta si realizza una specie di morte e rinascita, avviene una trasformazione, o meglio una nuova delimitazione e una nuova organizzazione del sé nucleare, per cui il paziente diventa improvvisamente capace di autoriflessione in un’area in cui non lo era e di scoprire ancora una volta (o per la prima volta) e di accettare il fatto che io non sono lui, pur non essendo nemmeno il suo vecchio oggetto. Sulla base dell’esperienza che fa di me come oggetto nuovo, ricostruisce improvvisamente un senso di sé nuovo che gli consente di riorganizzare in forma non più patologica determinate esperienze emotive che non poteva precedentemente integrare con il vecchio senso di sé che era mantenuto fisso nella ripetitività della relazione con il vecchio oggetto (Lorenzini, 2006: 109-110).

Fin qui, ho implicitamente mutuato il concetto di spazio transizionale come qualità soggettiva dell’esperienza, cosa che nella tradizione significa anche illusione, “illusione necessaria”, secondo la definizione data da Winnicott; una definizione che non sarebbe dispiaciuta a Kohut in riferimento alla natura dell’oggettosé. Kohut ci teneva a precisare che il punto di vista della psicologia del sé era rigorosamente intrapsichico e criticava i concetti introdotti nella psicoanalisi da un’osservazione esterna, come nella biologia o nella sociologia: tipica, a riguardo, la sua critica al concetto di “simbiosi”. L’oggettosé, per Kohut, era chiaramente un’esperienza soggettiva. Tanto per Winnicott, quanto per Kohut, la malattia consiste in una prospettiva eccessivamente (infantilmente) soggettiva, nella quale il paziente si colloca quando le emozioni risvegliate nei rapporti con gli altri si fanno più dure. Si potrebbe argomentare così: Freud, Jung, Winnicott e Kohut ragionano, nei loro scritti, in termini di contrapposizione fra mondo interno e mondo esterno. Ma è ancora filosoficamente sostenibile un’impostazione di questo genere? La psicoanalisi è nata in contemporanea con la fisica moderna, ma, curiosamente, mentre questa rinunciava alle caratteristiche di oggettività assoluta dello spazio e del tempo e, correlativamente, anche all’esistenza di una soggettività trascendente (occhio di dio) che tale assolutezza vedeva e garantiva, negli stessi anni la psicoanalisi neonata riproponeva la fede nell’esistenza del principio di realtà, una realtà assoluta ed esterna rispetto alle distorsioni prodotte dalla soggettività del soggetto. Tra i tanti motivi per cui questa posizione non è più sostenibile, ritengo fondamentale la critica al modello della mente isolata (la mente autosussistente dell’uomo, creata a perfetta somiglianza della mente autosussistente di Dio): un modello che ha mantenuto il suo credito fino ad oggi ed è passato indenne perfino attraverso l’opera dei grandi innovatori (4). Kohut, per esempio, fa rientrare due significati molto diversi nel termine “sé”: il sé come l’ente esistenziale della soggettività (il soggetto dell’esperienza, dell’iniziativa e del libero arbitrio) e il sé come struttura psichica, dotato di coesione, ecc., cioè qualcosa che ha lo stesso statuto di realtà oggettiva del vecchio apparato psichico della psicoanalisi classica. In questo modo, creando un’identificazione fra due ordini di realtà molto diversi (quasi un trucco da prestigiatore), Kohut reifica la soggettività, ne fa, per l’appunto, qualcosa di autosussistente e può parlare dello sviluppo del sé come di un processo autofondato, come l’embriogenesi di un animale o lo sviluppo di una quercia dalla ghianda: il dispiegamento e l’attuazione del cosiddetto “programma nucleare del sé”. Nel corso della crescita, l’oggettosé è certamente indispensabile per le “funzioni” che svolge, funzioni vicarianti, prestate ad un sé che non è ancora sufficientemente autonomo, ma si tratta appunto di somministrazione di funzioni e non di scambio intersoggettivo. In questo senso, come è noto, Kohut parla dell’empatia come di un fattore ambientale indispensabile per il mantenimento in vita e la crescita del Sé e paragona il bisogno che il Sé ha dell’empatia dell’oggettosé al bisogno che il corpo fisico ha dell’ossigeno dell’aria. Non risulta altrettanto valorizzata, nella psicologia del Sé, l’unicità della relazione psicologica reale che si stabilisce fra due persone: quello scambio e quell’intreccio di apprendimenti, affetti, rispecchiamenti, identificazioni, aggiustamenti e mutue regolazioni che organizza un sistema molto complesso, un sistema di sistemi, la diade intersoggettiva. In definitiva, si tratta ancora una volta di una concezione naturalistica della psiche, nella finzione che la psiche possa esistere come una cosa fra le cose, in contraddizione palese con altre affermazioni ricorrenti dello stesso Kohut, per esempio con la convinzione più volte ribadita che l’autonomia del Sé è sempre relativa e il bisogno dell’oggettosé matura ma non finisce mai.
Lo stesso pensava Winnicott: lo spazio transizionale, cioè quella dimensione caratterizzata dall’impossibilità di separare ciò che soggettivo da ciò che è oggettivo, si trasforma nel corso della vita ma non finisce mai, perché alla fine, nell’essere umano adulto, viene a coincidere con lo spazio della cultura e della creatività. Soltanto nell’ambito della psicoanalisi relazionale, cioè in anni più recenti si è realizzato un fondamentale cambiamento di prospettiva:

l’oggetto di studio non è l’individuo come entità separata, i cui desideri sono in conflitto con la realtà esterna, ma un campo d’interazione all’interno del quale l’individuo nasce e lotta per stabilire contatti e per esprimersi. Il desiderio è vissuto sempre nel contesto delle relazioni, che ne definiscono il significato. La mente è composta da configurazioni relazionali (Mitchell, 1988; trad. it. 1993: 5).

In definitiva la polarità di mondo interno e mondo esterno può essere quasi sempre sostituita con quella dell’uno e l’altro, o meglio con quella dei diversi soggetti della realtà intersoggettiva, che sono contemporaneamente soggetto e oggetto di se stessi e di ogni altro soggetto della relazione. Ne derivano conseguenze importanti, e la prima fra tutte è che lo spazio transizionale non è un’illusione. L’illusione, piuttosto, è quella relativa all’esistenza di una realtà esterna che ha lo stesso grado di oggettività e lo stesso significato per tutti.
Forse, rispetto a Kohut, era già più vicino Winnicott a questo ribaltamento concettuale, infatti non è così difficile interpretare il suo concetto di spazio transizionale in maniera intrinsecamente relazionale. Si può fare ricorso a una particolare (e famosa) tecnica terapeutica utilizzata da Winnicott per risalire operativamente a un significato allargato di questo genere: alludo naturalmente al gioco dello scarabocchio:

Nel gioco dello scarabocchio, Winnicott gioca con il suo paziente (in genere un bambino già un po’ grandicello) liberamente e spontaneamente. Winnicott disegna delle linee su un pezzo di carta e il bambino deve trasformare le linee in qualcosa. Poi è il bambino a disegnare delle linee ed è Winnicott che deve completarle. Di chi è il disegno finale? È del bambino o di Winnicott? Come l’oggetto transizionale, esso non è né interno né esterno sia per Winnicott sia per il paziente. Come l’interpretazione, dal punto di vista di Winnicott, esso non proviene dall’analista o dal paziente ma al contrario nasce dallo spazio transizionale tra loro (Aron 1996, trad. it. 2004: 119).

Interessante paragonare questo ampliamento in senso relazionale del concetto di spazio transizionale con l’attuale posizione, filosoficamente aggiornata di Irving Hoffman:

la partecipazione personale dell’analista al processo ha un effetto costante su ciò che egli comprende di se stesso e del paziente nell’interazione […] L’idea di fondo non è che fantasia e realtà siano state ridistribuite, piuttosto che siamo entrati in un mondo d’influenza reciproca e di significato co-costruito. L’esperienza viene considerata in un continuo processo di formulazione o spiegazione […] il racconto di vita del paziente non è solo una questione di ricostruzione storica, ma anche in parte una nuova storia che viene creata all’interno dell’interazione immediata (Hoffman 1998, trad. it. 2000: 155).

In conformità con la concezione del costruttivismo sociale proposta da Hoffman, si può dire che lo spazio transizionale coincide con quell’intergioco molto reale di significati che si determina nel confronto e nello scambio intersoggettivo. Esso crea il mondo umano intorno a noi, l’unico mondo che la nostra mente sia in grado di comprendere e di abitare. Cosa sia la realtà, al di là di questo spazio transizionale, cioè al di là dei nostri significati e, di conseguenza, della nostra capacità di organizzare l’esperienza che facciamo in pensieri logici o in immaginazioni dotate di una valenza emotiva, fondamentalmente non ci è dato sapere.
L’esperienza più intensa che si realizza nell’interazione psicoterapeutica ha luogo quando, per così dire, prendono corpo i fantasmi e le paure dell’uno arruolano le paure dell’altro nella caratteristica forma delle ripetizioni traumatiche che avvengono in terapia. Ho chiamato “psicodrammi in seduta” questi faticosi passaggi che, a mio modo di vedere, sono indispensabili, oltre inevitabili, soprattutto per poter accedere ai nuclei di maggiore sofferenza della persona.

Come siamo arrivati a questo? Perché avverti le differenze fra noi come aggressive e irriverenti? Perché spesso mi trovo ad aggredirti (o a volerti aggredire)? Come possiamo trovare insieme un modo di parlarci che permetta a te di avere rispetto di te stesso e a me qualche possibilità di essere e di usare me stesso in modo più autentico, in un modo che ti sia di aiuto?
[…] In questa visione del processo psicoanalitico, il cambiamento non è prodotto né dall’esplorazione e dal rispecchiamento né dallo holding dell’esperienza soggettiva del paziente, e nemmeno dall’intimare all’analizzando di riorganizzare le sue speranze e i suoi desideri secondo il senso di adeguatezza dell’analista (presentato come “realtà” o “maturità”). Piuttosto, il cambiamento psicoanalitico implica una lotta da parte di entrambi i partecipanti per superare proprio questi tipi di squilibri, che caratterizzano i modelli patologici di integrazione e le cui differenze di esperienza minacciano il legame interpersonale invece di arricchirlo. Come ha scritto Schwartz, “nella situazione psicoanalitica il lavoro dell’interpretazione non è quello di scambiare l’illusione con la realtà, ma di stabilire un confine fra l’esperienza del paziente e quella dell’analista e contemporaneamente di costruire un ponte tra di esse” (Mitchell 1988, trad. it. 1993: 267, corsivo mio).

La vecchia lettura di questi fenomeni in termini di transfert e controtransfert poteva solo riportare le difficoltà reciproche all’interno della mente di ognuno, negando il valore della relazione, e falliva completamente nel cogliere le potenzialità terapeutiche della crisi, così bene illustrate da Mitchell nell’esempio precedente. All’analista era chiesto di reprimere il proprio controtransfert, considerato come il riemergere di aspetti nevrotici personali e al paziente veniva spiegata l’esperienza che stava facendo in termini di pura e semplice ripetizione del suo passato. Come si vede, la strada percorsa da allora non è affatto breve e, posso garantire, non è stato un percorso agevole.


NOTE

(1) Alcuni anni fa ero presente ad una cena di lavoro, nel corso della quale Paul Ornstein raccontò il seguente aneddoto a proposito della personalità di Kohut. Un bel giorno, egli fu invitato da Kohut che aveva indetto una riunione di tutti gli allievi e i collaboratori più stretti. Kohut, il maestro, si fece trovare vestito molto elegantemente, accompagnato da una bella bottiglia di champagne. Con fare piuttosto cerimonioso, disse che aveva un annuncio importante da fare: aveva appena deciso di togliere il trattino dal termine oggetto-Sé: da quel momento in poi si sarebbe chiamato “oggettosé”, senza trattino!
(2) Per una recente e completa trattazione della fenomenologia del sentire, vedi: De Monticelli 2003.
(3) Il motto significa: spiegare ciò che ci è ignoto, riconducendolo a qualcos’altro che resta ancora più misterioso e ignoto. Era una specie di “manifesto” della filosofia esoterica degli alchimisti, una filosofia che colloca il mistero alla base dell’essere, l’inafferrabile e l’infinito alla base del concreto e del finito: l’esatto opposto del riduzionismo che ha improntato la filosofia della scienza fino all’inizio del XX secolo.
(4) Vedi: Il mito della mente isolata, in Stolorow e Atwood 1992, trad. it. 1995: 19-39.


BIBLIOGRAFIA

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Winnicott D.W. (1971) Gioco e realtà trad. it., Armando editore, Roma 1974.


Alberto Lorenzini
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