Lo “psicodramma” in seduta










Alberto Lorenzini

Lo “psicodramma” in seduta[1]


Che significa lavorare in analisi con un metodo relazionale, piuttosto che impersonare il ruolo dell’analista distaccato che conosciamo così bene dai film e dalle barzellette? Sceglierò Bromberg come un buon esempio di quello che mi sembra il nuovo modo di lavorare:

Katy riferì un sogno in cui stava facendo sci d’acqua, trainata da una barca guidata da sua madre, e vedeva una pinna che la inseguiva a pelo d’acqua. Katy era un’esperta sciatrice d’acqua, avendo dovuto superare la paura di annegare che l’aveva tormentata fin da bambina e che temeva molto potesse ritornare. Nel sogno iniziava ad essere presa dal panico perché non riusciva a capire se a seguirla fosse uno squalo o un delfino (Bromberg, 2006, p. ).

In risposta a questo sogno Bromberg entrò in uno stato di rêverie, facendo una sorta di sogno ad occhi aperti, dove rivide se stesso insegnare a sua figlia bambina ad andare in bicicletta, raffigurandosi il momento conclusivo, quando poté smettere di sorreggerla per lasciarla procedere da sola. Raccontò la propria rêverie a Katy e questa rispose addentrandosi

nel territorio della sua paura, ancora parzialmente dissociata, che il nostro legame d’attaccamento potesse non sopravvivere al momento in cui fosse stata davvero pronta a “pedalare da sola” (ibid., 2006, p. ).

Trovo particolarmente illuminanti le successive riflessioni di Bromberg:

Venivo ingaggiato nella scena interna di Katy per una performance conclusiva nel ruolo di “mammina” e mi ritrovai coinvolto in un nuovo vissuto che, con mio grande stupore, includeva anche l’involontaria attivazione di una mia scena interna.
… [Si poteva] creare (o, più precisamente, co-creare) un contesto relazionale di nuovi significati condivisi, a partire da ciò che era stato messo in scena riguardo alla conclusione dell’analisi stessa. Ancora una volta ciascuno di noi aveva bisogno di coinvolgere l’esperienza di prima mano vissuta dall’altro, linguisticamente condivisibile, per poter emergere intersoggettivamente dal bozzolo dissociativo in cui eravamo intrappolati come soggettività isolate (ibid., 2006, p. 19).
Quando il gap dissociativo tra i nostri rispettivi stati non-me cominciò a essere sempre più colmato da significati condivisi, i personaggi non-me di Katy (…) divennero progressivamente più accessibili all’auto-riflessione (ibid., 2006, p. 20).

Questo esempio fa vedere come i punti di svolta nella terapia si collochino a un livello diverso e, se si può dire così, ancora più profondo rispetto a quello delle paure più profonde (esiti traumatici) che bloccano la possibilità di apprendere dall’esperienza e, di conseguenza, lo sviluppo della personalità. Nello scambio clinico citato si svolge una forma di danza relazionale, «l’esperienza grezza (…) dell’altro, necessaria per poter emergere, intersoggettivamente, dal bozzolo dissociativo in cui eravamo intrappolati come soggettività isolate». Qui l’enactment non riguarda l’espressione delle emozioni bloccate, ma l’immersione in una dimensione pre-emotiva di ironia e di gioco, tipica dei sogni, nella quale il sognatore è totalmente preso e dimentico di sé. Nel sognare insieme si è ricreata quella dimensione di relazionalità primaria (Iofrida e Lorenzini, 2014; Lorenzini, 2015a; 2015b) dalla quale è stato possibile emergere con nuove emozioni (e non con emozioni sbloccate), con una soggettività capace di colmare il vuoto dissociativo che ancora separava Katy dalla paura e dal rischio di “pedalare da sola” a conclusione della propria terapia. È proprio questo il punto che desidero mettere in risalto: non si è trattato di un “processamento” dell’emozione, ma di co-creazione di una nuova prospettiva di coscienza – che nasce da (e s’identifica con) una circolazione di emozioni nuove. Forse non è facile apprezzare tutta la portata di questa diversa prospettiva che investe il processo terapeutico, ma io credo che qui stia la chiave della rivoluzione che la psicoanalisi sta attraversando: in pratica e non soltanto in teoria!
Un altro interessante esempio di superamento pratico delle vecchie posizioni distaccate nel rapporto analista-paziente è quello rappresentato dal metodo del “giocare a carte scoperte” di Owen Renik. Si tratta di un modo di operare che Renik trova particolarmente utile in caso di impasse:

È una caratteristica dell’impasse nella cura analitica il fatto che la visione che il paziente ha di sé e dell’analista non si accordi con la visione che l’analista ha di sé e del paziente. A meno che e fino a che terapeuta e paziente non riescono a fare un completo scambio di idee sulla visione di sé e dell’altro, rimangono fermi; ed è responsabilità dell’analista essere il primo a fare un passo avanti con delle sincere rivelazioni, quando è necessario (Renik, 2006, p. 102).

D’altra parte, la posizione di Renik sulla tradizionale riservatezza dell’analista è molto chiara:

Una ragione per cui gli analisti sono stati, per tradizione, riluttanti a condividere la propria esperienza sugli eventi della cura è che temono di accentrare eccessivamente l’attenzione su di sé, a discapito dei pazienti. Questa preoccupazione è legittima, ma in realtà le cose funzionano in modo esattamente contrario: più l’analista riconosce ed è disposto a discutere la propria partecipazione alla situazione analitica, meno spazio occupa, e più ne lascia al paziente. L’analista reticente occupa il primo piano come misterioso oggetto di interesse (Renik, 2006, p. 57).

Antonino Ferro propone un metodo più delicato per barcamenarsi nella costante interattività della relazione di cura. Egli propone di mantenere l’attenzione sempre concentrata sulle ripercussioni delle comunicazioni dell’analista per come queste si riflettono nell’attività onirica del paziente. Con questo egli non si riferisce solo ai sogni notturni, ma anche a quelli diurni, i significati inconsci che filtrano continuamente attraverso il dialogo e i modi in cui prende forma la relazione analitica.

Ricordo una supervisione dove la paziente aveva detto all’analista nel secondo incontro con lui di essersi ricordata che da piccola era andata per studiare a casa di una compagna di classe. In quell’occasione il nonno dell’amica l’aveva toccata sotto la gonna, lei si era angosciata tantissimo e aveva deciso di non andare più a giocare con quella compagna.
Ci sono modi alquanto diversi di pensare a questa comunicazione:
a) si tratta di personaggi storici: la paziente comincia a raccontare la propria storia e il nonno, l’amica, la casa dell’amica sono intesi come personaggi storico-realistici. I fatti verranno ricordati, la storia verrà progressivamente ricostruita e le emozioni verranno collegate, elaborate, ecc.
b) I personaggi non hanno a che fare concretamente con la storia della paziente, ma rimandano ai suoi oggetti interni ed è su questi che si concentra l’attenzione dell’analista.
c) Siamo di fronte al racconto di come la paziente ha vissuto la prima seduta. È andata allo studio dell’analista (studio-studiare), c’è stato un inizio leggero, di gioco, poi è entrato in campo un diverso funzionamento della mente dell’analista o di entrambi, più attivo, che è stato sentito come intrusivo, come un avvicinamento eccessivo, troppo intimo. La paziente può anche avere messo in dubbio l’opportunità di proseguire il trattamento, sentendo il rapporto analitico troppo disturbante.
Possiamo interpretarla e dire, per esempio: «Lei ha sentito la mia presenza troppo vicina, troppo invadente…».
A me piace pensare che il paziente possegga una sorta di GPS, che rivela sempre la sua posizione. Potrà rispondere, per esempio: «Ieri sera ho visto il film Duel dove il protagonista viene inseguito da un enorme camion che lo vuole distruggere». Questo potrebbe significare che l’interpretazione, a sua volta, è stata eccessiva rispetto alle sue capacità recettive. Potremmo risolvere in un altro modo, cucinando quello che la paziente ha detto nella nostra mente («questa paziente mi ha detto di avere sentito la seduta di ieri come persecutoria») e rispondere in maniera più insatura, meno decodificatoria: «Capisco come ci possa essere rimasta male nell’andare in un posto dove pensava di giocare e di studiare, avendo invece incontrato un nonno incontinente che l’ha messa terribilmente a disagio!». In questo secondo modo, l’a-nalista cerca continuamente di trasformare il proprio modo d’intervenire a seconda della recettività della paziente (Ferro, 2010, p. ).

Le posizioni “a” e “b” non mettono necessariamente in questione la teoria di una mente isolata, mentre la posizione “c”, quella in cui Ferro si riconosce, è decisamente incompatibile con un assunto del genere e s’inquadra, senza dubbio, in una concezione interattiva della mente, ciò che, a mio modo di vedere, costituisce la vera svolta contenuta nell’orientamento relazionale.


Lo psicodramma in seduta

È soprattutto nel trattamento dei pazienti più impegnativi che mi sono trovato coinvolto in maniera spiazzante, accettando di diventare il parafulmini delle loro crisi, con la consapevolezza che l’unica alternativa sarebbe stata quella di dichiararli non analizzabili e porre fine alla terapia. In realtà, tali pazienti risultano non analizzabili solo se vogliamo mantenere il lavoro analitico incentrato sulla parola, impedendo loro di esprimersi nell’unico modo in cui sono in grado di farlo, cioè secondo una modalità agita[2].
Ho trovato particolarmente utile circoscrivere e ridefinire le crisi dei pazienti difficili, nella mia mente, come autentici psicodrammi, nel corso dei quali, in forma non ancora simbolizzata verbalmente, si possono concretizzare le aspettative patologiche, o, se vogliamo, le paure e i terrori sopraffacenti che tengono in scacco la persona. Giocando la mia parte all’interno dello psicodramma, ho avuto diverse volte la possibilità di offrire nuove prospettive alla parte dissociata della personalità, quella parte che, per tornare agli autori più antichi, si potrebbe spesso identificare con “il vero sé” di Winnicott (1971) o l’Io regredito di Fairbairn (1952).
Non mi pare sufficiente, in questi casi, parlare di self-disclosure o di enactement, tanto meno di controtransfert dell’analista. Non che questi termini possano risultare, di volta in volta, del tutto inappropriati, ma qui si tratta principalmente d’interagire a un livello pre-emotivo, di azione paradossale e di gioco. Si tratta di accettare lo spiazzamento di un diverso e più basilare livello di scambio che s’interpone fra i partner analitici e il rigido copione già scritto. Sostengo, infatti, che soltanto da quel livello si possano generare emozioni nuove, capaci di fare da ponte fra le parti dissociate del Sé. La “danza relazionale” di Bateson è ciò che meglio corrisponde a questo livello d’interazione costruttiva.

Il caso di High

Racconterò di un uomo di sessant’anni che ho seguito in supervisione e che ha generosamente autorizzato la sua terapeuta a parlare del caso. Si tratta di un professionista che ha già superato altri percorsi analitici nel corso della vita e che presenta un buon funzionamento complessivo, motivo per cui non può essere definito come un “caso grave”. Tuttavia, questo resoconto clinico si presta a dimostrare come anche nelle nevrosi di media gravità esistano nuclei di maggiore gravità che possono essere vantaggiosamente trattati mediante drammatizzazione.
Il signor High decise di tornare in terapia dopo avere verificato la propria “incapacità di amare”, per usare le sue stesse parole. Innamoratosi di una donna parecchio più giovane di lui, dopo avere trascorso uno splendido periodo da amanti, i due decisero di dare inizio a una convivenza che si configurò molto presto come l’inizio della fine. High si sentì bloccato e vagamente claustrofobico nell’atto d’instaurare delle abitudini di vita condivise. Si ritrovò a essere spesso taciturno e ritirato in se stesso e fu accusato dalla donna di «non essere capace di accoglierla e di prendersi cura di lei» e, in aggiunta, di «cercare in lei una mamma», piuttosto che un amore su un piano di parità. Meravigliandosi di se stesso, l’uomo riconobbe, onestamente e a malincuore, la fondatezza di tali critiche, ammise il proprio fallimento e dopo soli tre mesi portò a termine la convivenza.
In analisi, dopo un breve periodo d’incertezza e diffidenza iniziali, che faceva dubitare della possibilità dell’impresa, High sviluppò un transfert erotico verso la propria terapeuta, praticamente una prosecuzione diretta dell’innamoramento da poco interrotto. Sollecitato dalla nostra collega a fidarsi dei sentimenti che stavano emergendo (trattato a sua volta quasi come un collega, in virtù della notevole esperienza analitica che l’uomo portava con sé), egli s’innamorò di lei e lo fece in maniera così totale da mettere finalmente in gioco, nella sede analitica, quel nucleo di sfiducia relativo al rapporto con la donna, che aveva resistito passando indenne attraverso due o forse tre lunghe analisi che si erano svolte nel corso della sua vita.
Questa travolgente passione di transfert colse di sorpresa la terapeuta, la quale non si aspettava una risposta così veloce e si sentì invasa dalle pressioni del paziente. In effetti, questi pretendeva di “amarla davvero”, facendole temere una perdita dei confini del rapporto analitico. A quel punto, la donna reagì colta dal panico e lo fece in maniera brutale, dichiarando senza mezzi termini che questa era analisi e non vita reale e che nella vita reale egli si sarebbe ritrovato esattamente nella stessa situazione dalla quale era fuggito, pretendendo questa volta da lei che fosse capace di annullare se stessa per esprimere una sorta di amore materno incondizionato.
Si potrebbe sostenere che la collega reagì per difendere il setting, secondo una visione classica e distaccata del rapporto terapeutico. L’uomo si sentì tradito e svergognato per la crudezza di questa messa a nudo e reagì con ansia persecutoria, come documentato dalla mail che scrisse a ridosso di questa drammatica seduta:

Ti sarai ben accorta di come io sia rimasto spiazzato ieri, quando mi hai tolto la seggiola di sotto al sedere, dichiarando che si trattava soltanto di transfert e non di amore e, per di più, di un agito che ti faceva sentire usata, come se innamorandomi di te io stabilissi la pretesa di passare da una donna all’altra, senza impegnarmi in un serio lavoro su me stesso. In realtà, questo improvviso cambiamento da parte tua tradisce una tua identificazione con la donna che ho abbandonato, motivo per cui mi hai umiliato, dichiarandomi a priori incapace di cambiare e prendermi cura nel modo giusto di una donna. E ciò proprio nel momento in cui mi sto impegnando per imparare a farlo.
Considero decisiva la messa a fuoco del mio senso di sfiducia a livello di amore primario, che riemerge ogni volta che m’innamoro. In questo transfert, però, non si è trattato soltanto di una messa a fuoco, ma di un mio reale avventurarmi in questa dimensione proibita. Il tuo improvviso cambiamento verso di me, per cui all’improvviso mi hai messo di fronte ai miei limiti come se io fossi davvero un bambino che sa cercare soltanto la mamma, assume un significato più preciso: hai aspettato che attraverso il transfert io m’innamorassi di te, che io trovassi quella fiducia verso la donna che non ero mai riuscito a vivere prima, per ergerti nel ruolo di vendicatrice di tutte le donne e restituirmi in maniera definitiva pan per focaccia!
Considero tutta questa costruzione come un colpo da maestra, assestato al momento giusto, cioè alla mia fiducia neonata, per restituirmi tutto ciò che ho fatto patire alle donne nel corso della vita, anche con qualche interesse.
La vendetta è un’azione comprensibile e, a volte, inevitabile, per aggiustare l’auto-stima. È ovvio, però, che il tuo colpetto ha mandato in frantumi il vaso ermetico e la nostra analisi finisce qui. E questa non è una contro-vendetta da parte mia, ma la diretta, ultima conseguenza della tua azione.

In realtà non fu difficile per la terapeuta rimediare a una situazione di crisi che sul momento sembrava catastrofica. Riconobbe il proprio agito, se ne scusò ed espresse meglio le proprie ragioni, riconquistando la fiducia del paziente.
Ciò che ascrivo alla categoria terapeutica dello “psicodramma in seduta” è il valore dell’agito della terapeuta, prima ancora dell’indispensabile sua capacità di chiedere scusa. Infatti, se l’uomo arrivò, come di lì a poco effettivamente arrivò, a capire qualcosa di più riguardo ai propri problemi in amore, non ci arrivò per via delle spiegazioni verbali che gli erano già state abbondantemente offerte, ma in un modo completamente diverso, cioè per mezzo di un’intensa drammatizzazione che lo portò a confronto con quel nucleo di paura che aveva resistito alle migliori psicoanalisi tradizionali. Solo ex-post egli fu in grado di verbalizzare ciò che era stato in grado di vivere e ridimensionare.
Sul momento la sua “sessualizzazione” fu spiegata come un surrogato di quell’amore materno cui l’uomo dubitava di poter mai avere accesso “gratuitamente”, cioè per davvero. Ma la cosa più interessante, a conclusione di questo breve excursus analitico, fu l’emergere della capacità di mettere sempre meglio a fuoco l’antico stato di vuoto interiore e a collegarlo con l’originaria mancanza d’amore materno. Di questo (fortunatamente) parlò di nuovo per mail:

La difficoltà nel dirti come mi sento stamani dipende dal fatto che non sono vittima di pensieri strani, ma di un umore strano, deprimente e tenace, uno schifo. Corrisponde alla sensazione di non sapere più andare né avanti, né indietro, in qualsiasi cosa (studio, lavoro, terapia, ecc.), ma principalmente nella mia vita stessa.
Se ci penso bene, questo stato emotivo paralizzante, come se non avessi le gambe per andare da nessuna parte, mi riporta direttamente all’esperienza traumatica di morire annegato che io feci a tre anni. Fu proprio in quell’occasione che sentii le gambe diventare di burro e cedermi sotto, con la certezza che non sarei andato più da nessuna parte. Il peso dell’acqua che si era chiusa sopra di me era troppo superiore alle mie forze, mentre la luce del sole che tremolava sopra la superficie era diventata irraggiungibile. Mia madre, a pochi metri di distanza, non si era accorta di nulla e altri mi tirarono fuori di là. Non ne uscii con le mie gambe e dentro di me s’inserì la convinzione assurda che io non potessi contare sulle mie forze, perché erano troppo ridicolmente piccole per sopravvivere. So che tutto questo è spostamento e metafora del rapporto complessivo con mia madre (l’acqua che pesava sopra di me era la sua depressione che mi soffocava). Quello che ho vissuto nel rapporto con la donna è stata una perenne ripetizione del trauma: mi sono sempre sentito perso, privo di forze, incapace di andare da qualsiasi parte, salvato in extremis non si sa da chi.
L’acqua del mare che mi sommerge è diventata, nella mia vita di ogni giorno, una membrana di gomma che ostacola ogni mio movimento, fisico o mentale e mi fa sentire come dentro a una massa indistinta che ingloba e depotenzia ogni tentativo di esprimere più energicamente me stesso.

Il caso di Giulia

Anni fa avevo in terapia una ragazza piuttosto attraente e intellettualmente molto dotata, Giulia. L’interesse di questo caso risiede anche nel fatto che Giulia, anni prima, era già stata in terapia con me per un periodo di circa tre anni. In quella circostanza eravamo stati l’analista e la paziente ideali, avevamo capito un sacco di cose e alla fine la ragazza se n’era andata, portando con sé un certo patrimonio di conoscenze psicoanalitiche su se stessa, pur essendo, di fatto, ben poco cambiata.
Ora Giulia era ritornata, messa con le spalle al muro dall’ennesimo amore impossibile al quale aveva consegnato i propri sentimenti. Al nostro primo incontro della seconda serie mi disse di sentirsi come il protagonista del film A Beautiful Mind. Come lui, aveva imparato a vedere la propria “follia” e a convivere con essa. Il lavoro precedentemente svolto l’aveva resa particolarmente lucida a riguardo, ma la follia era sempre con lei a farle buona compagnia.
Questa volta, però, Giulia non mi colse impreparato e, dopo averla accolta con garbo e ascoltata con attenzione, le somministrai subito, al termine della prima seduta, una drammatizzazione piccola ma ben indirizzata. Con vera e propria enfasi teatrale, le dissi: “Giulia, hai fatto proprio bene a venire e mi sembra giusto riprendere il lavoro, noi due però abbiamo un serio problema! Infatti, corriamo il rischio di fuggire dall’emozione mettendoci a ragionare, cercando le spiegazioni e le cause. Possiamo essere complici in questo, perciò dobbiamo stare molto attenti. Non è che non si debbano cercare le spiegazioni e le cause, ma c’è il rischio di un passaggio troppo veloce dall’emozione alla ragione, per cui ci troveremmo poi a ragionare a mani vuote”.
In questo caso, direi che la drammatizzazione consisteva nel tono della mia dichiarazione-confessione, mentre per quanto riguarda il contenuto verbale la chiamerei senz’altro una “self-disclosure” alla Renik.
Non ho mai considerato Giulia come un caso grave, però sappiamo bene quale genere di difesa tenace e a volte addirittura invincibile possa rappresentare l’intellettualizzazione di una persona perfezionista e colta. Giulia era come una turris eburnea e il suo problema di fronte alle emozioni d’amore era quello del “non sentire” e di “sottoporsi all’amore”, praticamente depersonalizzandosi. Non si trattava di un non sentire generalizzato, come avevo incontrato in pazienti più gravi (cfr. il caso di Frank nella Crisi necessaria), ma di una difesa più circoscritta che riguardava le esperienze d’amore. Per usare le stesse parole di Giulia, le succedeva che: “quando mi apro all’altro, provo un rifiuto viscerale, una sorta di disgusto per me stessa, forse perché ciò mi fa sentire debole (o poco intelligente, o malfunzionante)”. Per non fallire la seconda occasione che mi stava concedendo, decisi di attuare anche con lei la tecnica della drammatizzazione in analisi e ciò che mi appresto a riferire, un episodio accaduto dopo un paio di mesi dall’inizio, costituisce un buon esempio degli psicodrammi attraverso i quali siamo passati nei due anni di una terapia che, a suo dire, l’ha finalmente guarita e le ha restituito una pienezza di vita emotiva all’altezza di tutto il resto della sua persona.
L’occasione per drammatizzare il nucleo dei suoi problemi emotivi che riguardavano l’amore e l’apertura all’altro non tardò a manifestarsi nella relazione vivacizzata fin dall’inizio dall’atmosfera di suspense che avevo creato.
Mi aveva parlato del metodo che utilizzava per fare l’amore con un uomo che era stato molto importante per lei: si assentava mentalmente dall’abbraccio pensando a un altro uomo e in questo modo evitava il proprio rifiuto viscerale della fisicità. Le risposi senza mezzi termini che io non avrei mai potuto fare l’amore in quel modo. Che io posso fare l’amore solo guardando negli occhi la donna che amo, per godere della sua presenza viva, palpitante e reale, altrimenti perdo interesse. Inoltre, sarebbe stato impossibile per me non accorgermi che lei stava altrove con la mente. Aggiunsi una critica per questa forma di trattamento che era disposta a subire, una forma di remissività che contrastava completamente con il coraggio esplicito e la forza manifestati in tanti altri settori della sua vita.
Giulia trasecolò, si offese, si sentì umiliata, mi accusò di giocare con lei come il gatto con il topo e alla fine mi mandò “affanculo”.
Le risposi scusandomi per essere stato così pesante e, siccome il nostro dialogo era continuato per via epistolare con l’aiuto di alcune mail, le scrissi fra l’altro:

Ammetto di essere stato troppo teatrale ed enfatico nel puntare il dito sulla cosa. Però, credo davvero che il rapporto con il tuo compagno sia finito per quel motivo e non per le spiegazioni razionali che ti sei data. Penso quindi che ciò abbia molto a che fare con la tua previsione pessimistica e ricorrente di finire sola su una panchina, come i vecchietti che saluti per strada. Non sono fissato con il sesso, ma tu sei venuta da me in cerca di aiuto proprio per quei motivi lì, e finalmente li stiamo affrontando in realtà e non in teoria. Se metto dell’intensità nelle cose che ti dico e non il distacco accademico di un professore dell’università, è perché a differenza di quello io so che si può restare bloccati per tutta la vita dalle paure che ci impediscono di vivere una vita piena.

A quel punto Giulia cambiò atteggiamento e mi chiese scusa. Disse che aveva sempre amato quell’uomo, ma entro i limiti dell’amore di cui era capace... e che tutto d’un tratto si era resa conto che c’era sempre stata una “misura di disperazione” nel suo modo d’amare, soprattutto nel desiderio che provava verso di lui e verso gli altri uomini con cui era stata. Era come se li avesse voluti e li avesse desiderati nel disperato tentativo di sentire attraverso l’atto fisico con loro l’emozione che non c’era, come se il sesso avesse potuto portarla finalmente a “percepire” l’emozione mancante, o come se potesse offrire agli uomini uno strumento per “farsi percepire” da loro, cosa che altrimenti rischiava di non succedere affatto...
A livello dello scambio relazionale con me, il contenuto più importante della drammatizzazione era stato, come nel caso di High, una sorta di ansia persecutoria, concretizzata nella convinzione che io agissi con lei come un perfido manipolatore e mi compiacessi di giocare con i suoi sentimenti, per l’appunto “come un gatto con il topo”. Emergendo da questa prospettiva, si accorse della proiezione dalla quale essa traeva origine, cioè dal fatto di addebitare a me il suo comportamento abituale di impedire ai propri sentimenti di influenzare se stessa. Dietro a questo modo di relazionarsi con se stessa e di tenere in pugno i propri sentimenti, c’era il condizionamento subito nel rapporto con il padre. Costui si era inserito in maniera molto invadente nella crescita della figlia, per quanto a fin di bene, e si era posto nei confronti di lei come una sorta di Pigmalione, personaggio mitologico che divenne un’importante metafora esplicativa nel seguito della nostra analisi.

Conclusioni

In entrambi i casi presentati la terapia si è avvantaggiata di crisi, nel corso delle quali i terapeuti furono inconsapevolmente arruolati per rappresentare, rispettivamente, la madre narcisisticamente malata di High e il padre invadente e ossessivo di Giulia.
Perché si dovette passare attraverso momenti drammatici così impegnativi e rischiosi e non fu sufficiente avvalersi di spiegazioni e di parole, mantenendo l’atmosfera colloquiale e rispettosa della normale consultazione di un professionista che ne sa più di noi della sofferenza per cui ci siamo rivolti a lui? Tralasciamo l’ipotesi più banale, per cui i terapeuti avrebbero semplicemente fatto degli sbagli, comportandosi come si sono comportati, per poi correggersi e consentire alle cose di riprendere il loro corso normale. Secondo una spiegazione più sensata e comunque sempre troppo concessiva verso il punto di vista psicoanalitico tradizionale, si potrebbe dire che soltanto dopo essere stata concretamente agita, quell’antica forma di sfiducia e il trauma sottostante sono diventati rappresentabili verbalmente e di conseguenza sono stati disponibili per un insight riflessivo. Non credo, tuttavia, che nemmeno questa possa essere una spiegazione sufficiente. La convinzione che ho maturato, nella prospettiva di valorizzare la crisi come momento indispensabile – e non semplicemente inevitabile – del percorso terapeutico, è che nella messa in gioco delle “emozioni proibite”, quelle che bloccano e dissociano la persona, risiede anche la possibilità di creare nuove emozioni, di inserire, in altri termini, nuovo tessuto psichico a colmare il gap che sta alla base della patologia. Non “abreazione”, ma co-creazione!
Non è il disseppellimento degli antichi traumi che guarisce, ma la possibilità di rapportarsi ad essi in un modo nuovo e questa possibilità non nasce dalle parole, ma da un corpo-a-corpo con le emozioni, una “danza relazionale” alla quale il terapeuta può imparare a non sottrarsi. Le parole vengono tutte dopo.
Questo punto di vista, che si potrebbe definire interattivo, costruttivistico ed evolutivo, si colloca naturalmente nell’orientamento relazione, e trova sostegno nello studio della coscienza incarnata (Iofrida, Lorenzini, 2014; Lorenzini, 2015a; 2015b). Da questo studio, infatti, nasce l’evidenza per cui le emozioni – e non le parole – sono la coscienza primaria. Addirittura, ritengo che non esista altra coscienza se non quella emotiva, cioè primaria, la stessa che condividiamo con tutti i vertebrati di ordine superiore. Attraverso le parole la coscienza emotiva prende le ali e s’incanala nella trama inesauribile delle narrazioni, ma quando le parole perdono la loro carica emotiva non significano più niente. La coscienza vola attraverso le parole, ma se vola troppo in alto precipita come Icaro e muore.
La coscienza emotiva, a sua volta, non nasce dal nulla, ma dalla danza relazionale che ci contraddistingue, prima di tutto, come esseri viventi. Incredibilmente, per guarire è necessario ritornare proprio a quel livello, perché la coscienza non è una cosa che si possa aggiustare a partire dalle cause che l’hanno danneggiata. La coscienza, tuttavia, può nascere: non rinascere, ma continuare a nascere per tutta la vita dalla matrice relazionale che la precede e la sostiene.

Bibliografia
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[1] Parte di questo scritto è tratta dall’omonimo articolo, pubblicato su Ricerca Psicoanalitica, n. 3/2016.
[2] Riconosco in Harold Searles (1965) un grande anticipatore della psicoanalisi relazionale nel trattamento dei casi gravi, mentre riconosco in George Atwood uno straordinario punto di arrivo.