Alberto
Lorenzini
Lo “psicodramma”
in seduta[1]
Che significa lavorare in analisi con un
metodo relazionale, piuttosto che impersonare il ruolo dell’analista distaccato
che conosciamo così bene dai film e dalle barzellette? Sceglierò Bromberg come
un buon esempio di quello che mi sembra il nuovo modo di lavorare:
Katy riferì un sogno in cui stava facendo sci
d’acqua, trainata da una barca guidata da sua madre, e vedeva una pinna che la
inseguiva a pelo d’acqua. Katy era un’esperta sciatrice d’acqua, avendo dovuto
superare la paura di annegare che l’aveva tormentata fin da bambina e che
temeva molto potesse ritornare. Nel sogno iniziava ad essere presa dal panico
perché non riusciva a capire se a seguirla fosse uno squalo o un delfino
(Bromberg, 2006, p. ).
In risposta a questo sogno Bromberg
entrò in uno stato di rêverie, facendo una sorta di sogno ad occhi aperti, dove
rivide se stesso insegnare a sua figlia bambina ad andare in bicicletta,
raffigurandosi il momento conclusivo, quando poté smettere di sorreggerla per
lasciarla procedere da sola. Raccontò la propria rêverie a Katy e questa
rispose addentrandosi
nel
territorio della sua paura, ancora parzialmente dissociata, che il nostro
legame d’attaccamento potesse non sopravvivere al momento in cui fosse stata
davvero pronta a “pedalare da sola” (ibid.,
2006, p. ).
Trovo particolarmente illuminanti le
successive riflessioni di Bromberg:
Venivo
ingaggiato nella scena interna di Katy per una performance conclusiva nel ruolo
di “mammina” e mi ritrovai coinvolto in un nuovo vissuto che, con mio grande
stupore, includeva anche l’involontaria attivazione di una mia scena interna.
…
[Si poteva] creare (o, più precisamente, co-creare) un contesto relazionale di
nuovi significati condivisi, a partire da ciò che era stato messo in scena
riguardo alla conclusione dell’analisi stessa. Ancora una volta ciascuno di noi
aveva bisogno di coinvolgere l’esperienza di prima mano vissuta dall’altro,
linguisticamente condivisibile, per poter emergere intersoggettivamente dal
bozzolo dissociativo in cui eravamo intrappolati come soggettività isolate (ibid.,
2006, p. 19).
Quando
il gap dissociativo tra i nostri rispettivi stati non-me cominciò a essere
sempre più colmato da significati condivisi, i personaggi non-me di Katy (…)
divennero progressivamente più accessibili all’auto-riflessione (ibid., 2006, p. 20).
Questo esempio fa vedere come i punti di
svolta nella terapia si collochino a un livello diverso e, se si può dire così,
ancora più profondo rispetto a quello delle paure più profonde (esiti
traumatici) che bloccano la possibilità di apprendere dall’esperienza e, di
conseguenza, lo sviluppo della personalità. Nello scambio clinico citato si
svolge una forma di danza relazionale, «l’esperienza grezza (…) dell’altro,
necessaria per poter emergere, intersoggettivamente, dal bozzolo dissociativo
in cui eravamo intrappolati come soggettività isolate». Qui l’enactment non
riguarda l’espressione delle emozioni bloccate, ma l’immersione in una dimensione
pre-emotiva di ironia e di gioco,
tipica dei sogni, nella quale il sognatore è totalmente preso e dimentico di
sé. Nel sognare insieme si è ricreata quella dimensione di relazionalità
primaria (Iofrida e Lorenzini, 2014; Lorenzini, 2015a; 2015b) dalla quale è
stato possibile emergere con nuove
emozioni (e non con emozioni sbloccate), con una soggettività capace di colmare
il vuoto dissociativo che ancora separava Katy dalla paura e dal rischio di
“pedalare da sola” a conclusione della propria terapia. È proprio questo il
punto che desidero mettere in risalto: non si è trattato di un “processamento”
dell’emozione, ma di co-creazione di una nuova prospettiva di coscienza – che
nasce da (e s’identifica con) una circolazione di emozioni nuove. Forse non è
facile apprezzare tutta la portata di questa diversa prospettiva che investe il
processo terapeutico, ma io credo che qui stia la chiave della rivoluzione che
la psicoanalisi sta attraversando: in pratica e non soltanto in teoria!
Un altro interessante esempio di
superamento pratico delle vecchie posizioni distaccate nel rapporto
analista-paziente è quello rappresentato dal metodo del “giocare a carte
scoperte” di Owen Renik. Si tratta di un modo di operare che Renik trova
particolarmente utile in caso di impasse:
È
una caratteristica dell’impasse nella cura analitica il fatto che la visione
che il paziente ha di sé e dell’analista non si accordi con la visione che
l’analista ha di sé e del paziente. A meno che e fino a che terapeuta e
paziente non riescono a fare un completo scambio di idee sulla visione di sé e
dell’altro, rimangono fermi; ed è responsabilità dell’analista essere il primo
a fare un passo avanti con delle sincere rivelazioni, quando è necessario
(Renik, 2006, p. 102).
D’altra parte, la posizione di Renik
sulla tradizionale riservatezza dell’analista è molto chiara:
Una
ragione per cui gli analisti sono stati, per tradizione, riluttanti a
condividere la propria esperienza sugli eventi della cura è che temono di
accentrare eccessivamente l’attenzione su di sé, a discapito dei pazienti.
Questa preoccupazione è legittima, ma in realtà le cose funzionano in modo
esattamente contrario: più l’analista riconosce ed è disposto a discutere la
propria partecipazione alla situazione analitica, meno spazio occupa, e più ne
lascia al paziente. L’analista reticente occupa il primo piano come misterioso
oggetto di interesse (Renik, 2006, p. 57).
Antonino Ferro propone un metodo più
delicato per barcamenarsi nella costante interattività della relazione di cura.
Egli propone di mantenere l’attenzione sempre concentrata sulle ripercussioni
delle comunicazioni dell’analista per come queste si riflettono nell’attività
onirica del paziente. Con questo egli non si riferisce solo ai sogni notturni,
ma anche a quelli diurni, i significati inconsci che filtrano continuamente attraverso
il dialogo e i modi in cui prende forma la relazione analitica.
Ricordo
una supervisione dove la paziente aveva detto all’analista nel secondo incontro
con lui di essersi ricordata che da piccola era andata per studiare a casa di
una compagna di classe. In quell’occasione il nonno dell’amica l’aveva toccata
sotto la gonna, lei si era angosciata tantissimo e aveva deciso di non andare
più a giocare con quella compagna.
Ci
sono modi alquanto diversi di pensare a questa comunicazione:
a) si tratta di personaggi storici: la paziente comincia a
raccontare la propria storia e il nonno, l’amica, la casa dell’amica sono intesi
come personaggi storico-realistici. I fatti verranno ricordati, la storia verrà
progressivamente ricostruita e le emozioni verranno collegate, elaborate, ecc.
b) I personaggi non hanno a che fare concretamente con la
storia della paziente, ma rimandano ai suoi oggetti interni ed è su questi che
si concentra l’attenzione dell’analista.
c) Siamo di fronte al racconto di come la paziente ha
vissuto la prima seduta. È andata allo studio dell’analista (studio-studiare),
c’è stato un inizio leggero, di gioco, poi è entrato in campo un diverso
funzionamento della mente dell’analista o di entrambi, più attivo, che è stato
sentito come intrusivo, come un avvicinamento eccessivo, troppo intimo. La
paziente può anche avere messo in dubbio l’opportunità di proseguire il trattamento,
sentendo il rapporto analitico troppo disturbante.
Possiamo
interpretarla e dire, per esempio: «Lei ha sentito la mia presenza troppo
vicina, troppo invadente…».
A
me piace pensare che il paziente possegga una sorta di GPS, che rivela sempre
la sua posizione. Potrà rispondere, per esempio: «Ieri sera ho visto il film Duel dove il protagonista viene
inseguito da un enorme camion che lo vuole distruggere». Questo potrebbe significare
che l’interpretazione, a sua volta, è stata eccessiva rispetto alle sue
capacità recettive. Potremmo risolvere in un altro modo, cucinando quello che
la paziente ha detto nella nostra mente («questa paziente mi ha detto di avere
sentito la seduta di ieri come persecutoria») e rispondere in maniera più
insatura, meno decodificatoria: «Capisco come ci possa essere rimasta male
nell’andare in un posto dove pensava di giocare e di studiare, avendo invece
incontrato un nonno incontinente che l’ha messa terribilmente a disagio!». In
questo secondo modo, l’a-nalista cerca continuamente di trasformare il proprio
modo d’intervenire a seconda della recettività della paziente (Ferro, 2010, p.
).
Le posizioni “a” e “b” non mettono
necessariamente in questione la teoria di una mente isolata, mentre la posizione
“c”, quella in cui Ferro si riconosce, è decisamente incompatibile con un
assunto del genere e s’inquadra, senza dubbio, in una concezione interattiva
della mente, ciò che, a mio modo di vedere, costituisce la vera svolta
contenuta nell’orientamento relazionale.
Lo psicodramma
in seduta
È soprattutto nel trattamento dei pazienti
più impegnativi che mi sono trovato coinvolto in maniera spiazzante, accettando
di diventare il parafulmini delle loro crisi, con la consapevolezza che l’unica
alternativa sarebbe stata quella di dichiararli non analizzabili e porre fine
alla terapia. In realtà, tali pazienti risultano non analizzabili solo se
vogliamo mantenere il lavoro analitico incentrato sulla parola, impedendo loro
di esprimersi nell’unico modo in cui sono in grado di farlo, cioè secondo una
modalità agita[2].
Ho trovato particolarmente utile circoscrivere
e ridefinire le crisi dei pazienti difficili, nella mia mente, come autentici
psicodrammi, nel corso dei quali, in forma non ancora simbolizzata verbalmente, si possono concretizzare le aspettative
patologiche, o, se vogliamo, le paure e i terrori sopraffacenti che tengono in
scacco la persona. Giocando la mia parte all’interno dello psicodramma, ho
avuto diverse volte la possibilità di offrire nuove prospettive alla parte
dissociata della personalità, quella parte che, per tornare agli autori più
antichi, si potrebbe spesso identificare con “il vero sé” di Winnicott (1971) o
l’Io regredito di Fairbairn (1952).
Non mi pare sufficiente, in questi casi,
parlare di self-disclosure o di enactement, tanto meno di controtransfert
dell’analista. Non che questi termini possano risultare, di volta in volta, del
tutto inappropriati, ma qui si tratta principalmente d’interagire a un livello
pre-emotivo, di azione paradossale e di gioco. Si tratta di accettare lo spiazzamento
di un diverso e più basilare livello di scambio che s’interpone fra i partner
analitici e il rigido copione già scritto. Sostengo, infatti, che soltanto da
quel livello si possano generare emozioni nuove, capaci di fare da ponte fra le
parti dissociate del Sé. La “danza relazionale” di Bateson è ciò che meglio
corrisponde a questo livello d’interazione costruttiva.
Il caso di High
Racconterò di un uomo di sessant’anni che
ho seguito in supervisione e che ha generosamente autorizzato la sua terapeuta a
parlare del caso. Si tratta di un professionista che ha già superato altri
percorsi analitici nel corso della vita e che presenta un buon funzionamento
complessivo, motivo per cui non può essere definito come un “caso grave”. Tuttavia,
questo resoconto clinico si presta a dimostrare come anche nelle nevrosi di
media gravità esistano nuclei di maggiore gravità che possono essere
vantaggiosamente trattati mediante drammatizzazione.
Il signor High decise di tornare in
terapia dopo avere verificato la propria “incapacità di amare”, per usare le
sue stesse parole. Innamoratosi di una donna parecchio più giovane di lui, dopo
avere trascorso uno splendido periodo da amanti, i due decisero di dare inizio
a una convivenza che si configurò molto presto come l’inizio della fine. High
si sentì bloccato e vagamente claustrofobico nell’atto d’instaurare delle
abitudini di vita condivise. Si ritrovò a essere spesso taciturno e ritirato in
se stesso e fu accusato dalla donna di «non essere capace di accoglierla e di
prendersi cura di lei» e, in aggiunta, di «cercare in lei una mamma», piuttosto
che un amore su un piano di parità. Meravigliandosi di se stesso, l’uomo riconobbe,
onestamente e a malincuore, la fondatezza di tali critiche, ammise il proprio
fallimento e dopo soli tre mesi portò a termine la convivenza.
In analisi, dopo un breve periodo
d’incertezza e diffidenza iniziali, che faceva dubitare della possibilità
dell’impresa, High sviluppò un transfert erotico verso la propria terapeuta,
praticamente una prosecuzione diretta dell’innamoramento da poco interrotto.
Sollecitato dalla nostra collega a fidarsi dei sentimenti che stavano emergendo
(trattato a sua volta quasi come un collega, in virtù della notevole esperienza
analitica che l’uomo portava con sé), egli s’innamorò di lei e lo fece in
maniera così totale da mettere finalmente in gioco, nella sede analitica, quel
nucleo di sfiducia relativo al rapporto con la donna, che aveva resistito
passando indenne attraverso due o forse tre lunghe analisi che si erano svolte
nel corso della sua vita.
Questa travolgente passione di transfert
colse di sorpresa la terapeuta, la quale non si aspettava una risposta così
veloce e si sentì invasa dalle pressioni del paziente. In effetti, questi
pretendeva di “amarla davvero”, facendole temere una perdita dei confini del
rapporto analitico. A quel punto, la donna reagì colta dal panico e lo fece in
maniera brutale, dichiarando senza mezzi termini che questa era analisi e non
vita reale e che nella vita reale egli si sarebbe ritrovato esattamente nella
stessa situazione dalla quale era fuggito, pretendendo questa volta da lei che
fosse capace di annullare se stessa per esprimere una sorta di amore materno
incondizionato.
Si potrebbe sostenere che la collega
reagì per difendere il setting, secondo una visione classica e distaccata del
rapporto terapeutico. L’uomo si sentì tradito e svergognato per la crudezza di
questa messa a nudo e reagì con ansia persecutoria, come documentato dalla mail
che scrisse a ridosso di questa drammatica seduta:
Ti sarai
ben accorta di come io sia rimasto spiazzato ieri, quando mi hai tolto la
seggiola di sotto al sedere, dichiarando che si trattava soltanto di transfert e
non di amore e, per di più, di un agito che ti faceva sentire usata, come se
innamorandomi di te io stabilissi la pretesa di passare da una donna all’altra,
senza impegnarmi in un serio lavoro su me stesso. In realtà, questo improvviso
cambiamento da parte tua tradisce una tua
identificazione con la donna che ho abbandonato, motivo per cui mi hai
umiliato, dichiarandomi a priori incapace di cambiare e prendermi cura nel modo
giusto di una donna. E ciò proprio nel momento in cui mi sto impegnando per
imparare a farlo.
Considero
decisiva la messa a fuoco del mio senso di sfiducia a livello di amore
primario, che riemerge ogni volta che m’innamoro. In questo transfert, però,
non si è trattato soltanto di una messa a fuoco, ma di un mio reale
avventurarmi in questa dimensione proibita. Il tuo improvviso cambiamento verso
di me, per cui all’improvviso mi hai messo di fronte ai miei limiti come se io
fossi davvero un bambino che sa cercare soltanto la mamma, assume un
significato più preciso: hai aspettato
che attraverso il transfert io m’innamorassi di te, che io trovassi quella
fiducia verso la donna che non ero mai riuscito a vivere prima, per ergerti nel
ruolo di vendicatrice di tutte le donne e restituirmi in maniera definitiva pan
per focaccia!
Considero
tutta questa costruzione come un colpo da maestra, assestato al momento giusto,
cioè alla mia fiducia neonata, per restituirmi tutto ciò che ho fatto patire
alle donne nel corso della vita, anche con qualche interesse.
La
vendetta è un’azione comprensibile e, a volte, inevitabile, per aggiustare
l’auto-stima. È ovvio, però, che il tuo colpetto ha mandato in frantumi il vaso
ermetico e la nostra analisi finisce qui. E questa non è una contro-vendetta da
parte mia, ma la diretta, ultima conseguenza della tua azione.
In realtà non fu difficile per la terapeuta
rimediare a una situazione di crisi che sul momento sembrava catastrofica.
Riconobbe il proprio agito, se ne scusò ed espresse meglio le proprie ragioni,
riconquistando la fiducia del paziente.
Ciò che ascrivo alla categoria terapeutica
dello “psicodramma in seduta” è il valore dell’agito della terapeuta, prima
ancora dell’indispensabile sua capacità di chiedere scusa. Infatti, se l’uomo arrivò,
come di lì a poco effettivamente arrivò, a capire qualcosa di più riguardo ai
propri problemi in amore, non ci arrivò per via delle spiegazioni verbali che
gli erano già state abbondantemente offerte, ma in un modo completamente
diverso, cioè per mezzo di un’intensa drammatizzazione che lo portò a confronto
con quel nucleo di paura che aveva resistito alle migliori psicoanalisi
tradizionali. Solo ex-post egli fu in
grado di verbalizzare ciò che era stato in grado di vivere e ridimensionare.
Sul momento la sua “sessualizzazione” fu spiegata
come un surrogato di quell’amore
materno cui l’uomo dubitava di poter mai avere accesso “gratuitamente”, cioè
per davvero. Ma la cosa più interessante, a conclusione di questo breve
excursus analitico, fu l’emergere della capacità di mettere sempre meglio a
fuoco l’antico stato di vuoto interiore e a collegarlo con l’originaria
mancanza d’amore materno. Di questo (fortunatamente) parlò di nuovo per mail:
La
difficoltà nel dirti come mi sento stamani dipende dal fatto che non sono
vittima di pensieri strani, ma di un umore strano, deprimente e tenace, uno
schifo. Corrisponde alla sensazione di non sapere più andare né avanti, né
indietro, in qualsiasi cosa (studio, lavoro, terapia, ecc.), ma principalmente
nella mia vita stessa.
Se
ci penso bene, questo stato emotivo paralizzante, come se non avessi le gambe
per andare da nessuna parte, mi riporta direttamente all’esperienza traumatica
di morire annegato che io feci a tre anni. Fu proprio in quell’occasione che
sentii le gambe diventare di burro e cedermi sotto, con la certezza che non
sarei andato più da nessuna parte. Il peso dell’acqua che si era chiusa sopra
di me era troppo superiore alle mie forze, mentre la luce del sole che
tremolava sopra la superficie era diventata irraggiungibile. Mia madre, a pochi
metri di distanza, non si era accorta di nulla e altri mi tirarono fuori di là.
Non ne uscii con le mie gambe e dentro di me s’inserì la convinzione assurda
che io non potessi contare sulle mie forze, perché erano troppo ridicolmente
piccole per sopravvivere. So che tutto questo è spostamento e metafora del
rapporto complessivo con mia madre (l’acqua che pesava sopra di me era la sua
depressione che mi soffocava). Quello che ho vissuto nel rapporto con la donna
è stata una perenne ripetizione del trauma: mi sono sempre sentito perso, privo
di forze, incapace di andare da qualsiasi parte, salvato in extremis non si sa da
chi.
L’acqua
del mare che mi sommerge è diventata, nella mia vita di ogni giorno, una
membrana di gomma che ostacola ogni mio movimento, fisico o mentale e mi fa
sentire come dentro a una massa indistinta che ingloba e depotenzia ogni
tentativo di esprimere più energicamente me stesso.
Il
caso di Giulia
Anni fa avevo in
terapia una ragazza piuttosto attraente e intellettualmente molto dotata,
Giulia. L’interesse di questo caso risiede anche nel fatto che Giulia, anni
prima, era già stata in terapia con me per un periodo di circa tre anni. In
quella circostanza eravamo stati l’analista e la paziente ideali, avevamo
capito un sacco di cose e alla fine la ragazza se n’era andata, portando con sé
un certo patrimonio di conoscenze psicoanalitiche su se stessa, pur essendo, di
fatto, ben poco cambiata.
Ora Giulia era ritornata, messa con le
spalle al muro dall’ennesimo amore impossibile al quale aveva consegnato i
propri sentimenti. Al nostro primo incontro della seconda serie mi disse di sentirsi
come il protagonista del film A Beautiful
Mind. Come lui, aveva imparato a vedere la propria “follia” e a convivere
con essa. Il lavoro precedentemente svolto l’aveva resa particolarmente lucida
a riguardo, ma la follia era sempre con lei a farle buona compagnia.
Questa volta, però, Giulia non mi colse
impreparato e, dopo averla accolta con garbo e ascoltata con attenzione, le
somministrai subito, al termine della prima seduta, una drammatizzazione
piccola ma ben indirizzata. Con vera e propria enfasi teatrale, le dissi: “Giulia,
hai fatto proprio bene a venire e mi sembra giusto riprendere il lavoro, noi
due però abbiamo un serio problema! Infatti, corriamo il rischio di fuggire
dall’emozione mettendoci a ragionare, cercando le spiegazioni e le cause.
Possiamo essere complici in questo, perciò dobbiamo stare molto attenti. Non è
che non si debbano cercare le spiegazioni e le cause, ma c’è il rischio di un
passaggio troppo veloce dall’emozione alla ragione, per cui ci troveremmo poi a
ragionare a mani vuote”.
In questo caso, direi che la
drammatizzazione consisteva nel tono della mia dichiarazione-confessione,
mentre per quanto riguarda il contenuto verbale la chiamerei senz’altro una
“self-disclosure” alla Renik.
Non ho mai considerato Giulia come un
caso grave, però sappiamo bene quale genere di difesa tenace e a volte
addirittura invincibile possa rappresentare l’intellettualizzazione di una
persona perfezionista e colta. Giulia era come una turris eburnea e il suo problema di fronte alle emozioni d’amore
era quello del “non sentire” e di “sottoporsi all’amore”, praticamente
depersonalizzandosi. Non si trattava di un non sentire generalizzato, come
avevo incontrato in pazienti più gravi (cfr. il caso di Frank nella Crisi necessaria), ma di una difesa più circoscritta
che riguardava le esperienze d’amore. Per usare le stesse parole di Giulia, le
succedeva che: “quando mi apro all’altro, provo un rifiuto viscerale, una sorta
di disgusto per me stessa, forse perché ciò mi fa sentire debole (o poco
intelligente, o malfunzionante)”. Per non fallire la seconda occasione che mi
stava concedendo, decisi di attuare anche con lei la tecnica della
drammatizzazione in analisi e ciò che mi appresto a riferire, un episodio
accaduto dopo un paio di mesi dall’inizio, costituisce un buon esempio degli
psicodrammi attraverso i quali siamo passati nei due anni di una terapia che, a
suo dire, l’ha finalmente guarita e le ha restituito una pienezza di vita
emotiva all’altezza di tutto il resto della sua persona.
L’occasione per
drammatizzare il nucleo dei suoi problemi emotivi che riguardavano l’amore e
l’apertura all’altro non tardò a manifestarsi nella relazione vivacizzata fin
dall’inizio dall’atmosfera di suspense che avevo creato.
Mi aveva parlato
del metodo che utilizzava per fare l’amore con un uomo che era stato molto importante
per lei: si assentava mentalmente dall’abbraccio pensando a un altro uomo e in
questo modo evitava il proprio rifiuto viscerale della fisicità. Le risposi
senza mezzi termini che io non avrei mai potuto fare l’amore in quel modo. Che io posso fare
l’amore solo guardando negli occhi la donna che amo, per godere della sua
presenza viva, palpitante e reale, altrimenti perdo interesse. Inoltre, sarebbe
stato impossibile per me non accorgermi che lei stava altrove con la mente.
Aggiunsi una critica per questa forma di trattamento che era disposta a subire,
una forma di remissività che contrastava completamente con il coraggio
esplicito e la forza manifestati in tanti altri settori della sua vita.
Giulia trasecolò, si
offese, si sentì umiliata, mi accusò di giocare con lei come il gatto con il
topo e alla fine mi mandò “affanculo”.
Le risposi scusandomi
per essere stato così pesante e, siccome il nostro dialogo era continuato per
via epistolare con l’aiuto di alcune mail, le scrissi fra l’altro:
Ammetto di essere stato troppo teatrale ed enfatico
nel puntare il dito sulla cosa. Però, credo davvero che il rapporto con il tuo
compagno sia finito per quel motivo e non per le spiegazioni razionali che ti
sei data. Penso quindi che ciò abbia molto a che fare con la tua previsione
pessimistica e ricorrente di finire sola su una panchina, come i vecchietti che
saluti per strada. Non sono fissato con il sesso, ma tu sei venuta da me in
cerca di aiuto proprio per quei motivi lì, e finalmente li stiamo affrontando
in realtà e non in teoria. Se metto dell’intensità nelle cose che ti dico e non
il distacco accademico di un professore dell’università, è perché a differenza
di quello io so che si può restare bloccati per tutta la vita dalle paure che
ci impediscono di vivere una vita piena.
A quel punto Giulia
cambiò atteggiamento e mi chiese scusa. Disse che aveva sempre amato quell’uomo, ma entro i limiti dell’amore
di cui era capace... e che tutto d’un tratto si era resa conto che c’era sempre
stata una “misura di disperazione” nel suo modo d’amare, soprattutto nel
desiderio che provava verso di lui e verso gli altri uomini con cui era stata.
Era come se li avesse voluti e li avesse desiderati nel disperato tentativo di
sentire attraverso l’atto fisico con loro l’emozione che non c’era, come se il
sesso avesse potuto portarla finalmente a “percepire” l’emozione mancante, o
come se potesse offrire agli uomini uno strumento per “farsi percepire” da
loro, cosa che altrimenti rischiava di non succedere affatto...
A livello dello scambio relazionale con me, il contenuto più
importante della drammatizzazione era stato, come nel caso di High, una sorta
di ansia persecutoria, concretizzata nella convinzione che io agissi con lei
come un perfido manipolatore e mi compiacessi di giocare con i suoi sentimenti,
per l’appunto “come un gatto con il topo”. Emergendo da questa prospettiva, si
accorse della proiezione dalla quale essa traeva origine, cioè dal fatto di addebitare
a me il suo comportamento abituale di impedire ai propri sentimenti di
influenzare se stessa. Dietro a questo modo di relazionarsi con se stessa e di
tenere in pugno i propri sentimenti, c’era il condizionamento subito nel
rapporto con il padre. Costui si era inserito in maniera molto invadente nella
crescita della figlia, per quanto a fin di bene, e si era posto nei confronti
di lei come una sorta di Pigmalione, personaggio mitologico che divenne
un’importante metafora esplicativa nel seguito della nostra analisi.
Conclusioni
In entrambi i casi presentati la terapia
si è avvantaggiata di crisi, nel corso delle quali i terapeuti furono
inconsapevolmente arruolati per rappresentare, rispettivamente, la madre narcisisticamente
malata di High e il padre invadente e ossessivo di Giulia.
Perché si dovette passare attraverso
momenti drammatici così impegnativi e rischiosi e non fu sufficiente avvalersi
di spiegazioni e di parole, mantenendo l’atmosfera colloquiale e rispettosa
della normale consultazione di un professionista che ne sa più di noi della
sofferenza per cui ci siamo rivolti a lui? Tralasciamo l’ipotesi più banale,
per cui i terapeuti avrebbero semplicemente fatto degli sbagli, comportandosi
come si sono comportati, per poi correggersi e consentire alle cose di riprendere
il loro corso normale. Secondo una spiegazione più sensata e comunque sempre troppo
concessiva verso il punto di vista psicoanalitico tradizionale, si potrebbe
dire che soltanto dopo essere stata concretamente agita, quell’antica forma di
sfiducia e il trauma sottostante sono diventati rappresentabili verbalmente e
di conseguenza sono stati disponibili per un insight riflessivo. Non credo, tuttavia,
che nemmeno questa possa essere una spiegazione sufficiente. La convinzione che
ho maturato, nella prospettiva di valorizzare la crisi come momento
indispensabile – e non semplicemente inevitabile – del percorso terapeutico, è che
nella messa in gioco delle “emozioni
proibite”, quelle che bloccano e dissociano la persona, risiede anche la
possibilità di creare nuove emozioni,
di inserire, in altri termini, nuovo tessuto psichico a colmare il gap che sta
alla base della patologia. Non “abreazione”, ma co-creazione!
Non è il disseppellimento degli antichi
traumi che guarisce, ma la possibilità di rapportarsi ad essi in un modo nuovo
e questa possibilità non nasce dalle parole, ma da un corpo-a-corpo con le
emozioni, una “danza relazionale” alla quale il terapeuta può imparare a non
sottrarsi. Le parole vengono tutte dopo.
Questo punto di vista, che si potrebbe
definire interattivo, costruttivistico ed evolutivo, si colloca naturalmente nell’orientamento
relazione, e trova sostegno nello studio della coscienza incarnata (Iofrida,
Lorenzini, 2014; Lorenzini, 2015a; 2015b). Da questo studio, infatti, nasce
l’evidenza per cui le emozioni – e non le parole – sono la coscienza primaria. Addirittura, ritengo che non esista
altra coscienza se non quella emotiva, cioè primaria, la stessa che
condividiamo con tutti i vertebrati di ordine superiore. Attraverso le parole
la coscienza emotiva prende le ali e s’incanala nella trama inesauribile delle
narrazioni, ma quando le parole perdono la loro carica emotiva non significano
più niente. La coscienza vola attraverso le parole, ma se vola troppo in alto
precipita come Icaro e muore.
La coscienza emotiva, a sua volta, non
nasce dal nulla, ma dalla danza relazionale che ci contraddistingue, prima di
tutto, come esseri viventi. Incredibilmente, per guarire è necessario ritornare
proprio a quel livello, perché la coscienza non è una cosa che si possa
aggiustare a partire dalle cause che l’hanno danneggiata. La coscienza,
tuttavia, può nascere: non rinascere, ma continuare
a nascere per tutta la vita dalla matrice relazionale che la precede e la sostiene.
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[1] Parte di questo
scritto è tratta dall’omonimo articolo, pubblicato su Ricerca Psicoanalitica, n. 3/2016.
[2] Riconosco in
Harold Searles (1965) un grande anticipatore della psicoanalisi relazionale nel
trattamento dei casi gravi, mentre riconosco in George Atwood uno straordinario
punto di arrivo.