Jung: una lettura relazionale

SIPRe, sede di Roma, 14 dicembre 2013




Il pensiero di Jung è particolarmente accattivante per chi sia in cerca di un significato spirituale e senta il bisogno di un’apertura d’orizzonte, ma, come vedremo, esso è anche “insidioso”, per tutti gli elementi di scienza, magia e religione, affastellati nella struttura di in un vasto e disorientante edificio di stile barocco. Risulta ormai comunemente accettato che non esiste un discorso “vero” sulla realtà delle cose e che qualsiasi disciplina produce narrazioni che consistono in un complesso articolarsi di metafore verbali, ma quello che è necessario mantenere è la consapevolezza dei presupposti che caratterizzano ogni diversa disciplina, altrimenti rischiamo la confusione delle lingue, rischiamo di produrre oscurità, piuttosto che chiarezza.
La psicologia di Jung ci riporta a Platone, perché ci guida a leggere questo mondo imperfetto della vita di ogni giorno alla luce di un mondo perfetto che occhieggia da dietro le quinte, un mondo dove tutto torna ed è straordinariamente ricco di senso. Come dire che l’avventura della nostra vita consiste nel tentativo compiuto dalle idee (che Jung chiama “archetipi”) di accedere alla dimensione spazio-temporale, dove vale il principio di non contraddizione e le cose non possono mai risultare perfette. Alla luce di questa prospettiva spiritualistica perfino il male, nella psicologia analitica di Jung entra in un rapporto geometrico con il bene e lo fa quadrare: egli, infatti, elaborò una spiegazione per cui il diavolo, aggiunto alla trinità cristiana, ricrea una quaternità, cioè la totalità, la forma perfetta.
Secondo Jung, le fiabe, i miti e i sogni sono “veri”. Non parlano in maniera cifrata delle solite cose della vita d’ogni giorno – o meglio delle cose della vita d’ogni giorno di cui non vorremmo sentir parlare, ma che pure sono alla base degli inciampi e dei tormenti che apparentemente ci cadono addosso dal cielo, come aveva suggerito Freud – parlano invece dell’altro lato della realtà, quello “vero”.
Se rifletto su ciò che finora ho scritto, il mio pensiero va a Winnicott, un altro grande della psicoanalisi: egli insisteva sulla necessità dell’illusione, lo spazio privato del sé, lo sdoppiamento di “vero Sé” e “falso Sé”, l’intraducibilità del nucleo fondamentale del Sé. Entrambi questi due creatori di psicologia avevano in comune la convinzione che l’inconscio fosse molto più del deposito del rimosso: per loro era evidente che l’inconscio agisce, pensa, crea, genera il nuovo e ci dà il senso della spontaneità e della vita piena, e Jung ha preceduto Winnicott di almeno 30 anni.
Per distinguere l’inconscio junghiano da quello freudiano, si potrebbe partire dall’esperienza che facciamo quando improvvisamente ci troviamo a vivere un inaspettato avvicinamento della coscienza e dell’inconscio. La cosa strana consiste nel fatto che tale fenomeno non solo viene diversamente interpretato ma anche diversamente vissuto da chi ne fa esperienza nelle due diverse prospettive psicologiche! Si tratta di una faccenda un po’ spiazzante, perché ci aspetteremmo di avere a che fare con due letture psicologiche diverse che focalizzino comunque una realtà esperienziale unica.  Fatto sta che per Freud quando l’inconscio si avvicina alla coscienza abbiamo il senso del “perturbante”, per Jung del “numinoso” e non si tratta soltanto di due parole diverse.
Il perturbante, dice Freud, «appartiene alla sfera dello spaventoso, di ciò che ingenera angoscia e orrore» (Freud, 1919). Egli sostiene che «qualunque tipo di emozione viene trasformata in angoscia, qualora abbia luogo una rimozione… l’elemento angoscioso è qualcosa di rimosso che ritorna» (ibid). E ancora: «il perturbante… si verifica quando complessi infantili rimossi sono richiamati in vita da un’impressione, o quando convinzioni primitive superate sembrano aver trovato una nuova convalida» (ibid).
Per Jung, invece, il numinoso segnala l’avvicinamento di un archetipo alla coscienza: «Dirò subito che la mia concezione si differenzia fondamentalmente dalla teoria psicoanalitica in quanto io attribuisco alla madre personale un’importanza solo limitata. E cioè: a svolgere sulla psiche infantile tutti gli effetti descritti dalla letteratura non è tanto la madre personale, quanto piuttosto l’archetipo su di lei proiettato, che le conferisce uno sfondo mitologico e la investe di autorità e numinosità» (Jung, 1938).
Gli archetipi sono per Jung degli organizzatori psichici che agiscono nell’inconscio di ogni essere umano, a prescindere dalla sua storia personale, sono i significati fondamentali della vita. Gli archetipi non sono né buoni, né cattivi, ma con essi possiamo avere un buon o un cattivo rapporto. Possiamo soccombere agli archetipi, se la nostra personalità è debole o, viceversa, li possiamo integrare, possiamo avvalerci della forza vitale che da essi promana. Diventare se stessi implica prendere una posizione unica e personale verso gli archetipi, in modo da interpretarne qualcuno in maniera non stereotipata ma originale e creativa. Non basta essere severi e tirannici per essere dei padri validi: nell’essere così si è piuttosto posseduti dall’archetipo paterno, come il burattinaio Mangiafuoco nella fiaba di Pinocchio. Così come non basta essere accoglienti per essere delle madri valide. L’essere un contenitore, un vaso, è semplicemente un aspetto dell’archetipo materno.
Per tornare al perturbante, esso rappresenta, in poche parole, l’emozione che proviamo quando uno scheletro esce dall’armadio, mentre il numinoso è il timor di dio, l’emozione quasi sopraffacente e reverenziale che proviamo di fronte a qualcosa che ci sovrasta, perché è enormemente più grande di noi. Di tutto questo, comunque, ci occuperemo meglio in seguito, quando parleremo del ruolo importantissimo attribuito da Jung all’esperienza del numinoso, in relazione al cambiamento promosso dalla psicoterapia.
Non si può tracciare un quadro introduttivo al pensiero di Jung, per quanto sommario, senza accennare al “processo d’individuazione”. Si tratta di un elemento talmente fondamentale, da fare ritenere a più di uno studioso che la psicologia di Jung si sarebbe dovuta chiamare “psicologia del processo d’individuazione” e non psicologia analitica, come poi è stato. Infatti, quella di Jung è la meno analitica di tutte le psicologie del profondo, proiettata com’è in avanti, verso la “sintesi degli opposti” e lo sviluppo della personalità, in una direzione costruttiva e “salvifica”, oltre che salutare, con la convinzione piuttosto idealizzante che, procedendo per questa via, tutto si risolva e, in un certo senso, si possano curare tutti i mali.
Anch’io riconosco il valore del mettersi in gioco, del coraggio, delle peripezie, dei rischi e del raggiungimento, sempre parziale, sempre in corso d’opera, com’è ovvio, di quella realizzazione di sé o “realizzazione del Sé” che Jung considerava essere la meta del “processo d’individuazione”. Però, a pensarci bene, è ben diverso dire “realizzazione di sé” o “realizzazione del Sé”. Con la seconda espressione si compie una concretizzazione e un’idealizzazione del termine, connotata quest’ultima dall’uso di mettere l’iniziale maiuscola alla parola, creando in questo modo una sorta di personaggio misterioso, l’archetipo più importante di tutti, un Cristo o un Buddha interiori, o più ironicamente un supereroe nascosto dentro di noi, che conosce il segreto della guarigione psichica.
C’è qualcosa di notevolmente consolatorio nel concetto junghiano di realizzazione del Sé, la costruzione della “personalità totale” che, «perseguita o tradita, interrotta o ripresa, costituisce l’avventura esistenziale dell’essere umano ed illumina interiormente di significato tutta la sua vita» (Jung, 1961). L’aspetto consolatorio deriva dal riferirsi a un piano trascendente, precostituito nelle sue linee essenziali, che toglie dalle nostre spalle una gran parte di quell’angoscia esistenziale che, viceversa, diventa grandissima nell’opposta prospettiva filosofica, quella di essere noi i creatori di noi stessi, come nell’esistenzialismo di Sartre. Il prezzo di collocare il senso dell’esistenza in una dimensione trascendente, però, è quello di attribuire a noi stessi una posizione minoritaria, un ruolo di eterni allievi dell’inconscio, che devono imparare e mettere in pratica una lezione che viene perennemente insegnata da un misterioso maestro interiore. Si tratta a tutti gli effetti, di una posizione di fede. Non a caso, Jung scolpì con le sue stesse mani la seguente frase sull’architrave della porta d’ingresso di casa sua: “Vocatus atque non vocatus, deus aderit”:
Altrettanto significative sono le parole con le quali fece cominciare la sua autobiografia:

«La mia vita è la storia di un’autorealizzazione dell’inconscio.
[…] Che cosa noi siamo per la nostra visione interiore e che cosa l’uomo sembra essere sub specie aeternitatis, può essere espresso solo con un mito. […] La scienza si serve di concetti troppo generali per poter soddisfare alla ricchezza soggettiva della vita singola.
Ecco perché, a ottantatrè anni, mi accingo a narrare il mio mito personale. Posso fare solo dichiarazioni immediate, soltanto “raccontare delle storie”; e il problema non è quello di stabilire se esse siano o no vere, perché l’unica domanda da porre è se ciò che racconto è la mia favola, la mia verità» (Jung, 1965, p. 21).

Non è difficile cogliere, già in queste poche affermazioni, la presenza dei punti fondamentali del pensiero junghiano, sui quali ho già richiamato l’attenzione del lettore. Il primo consiste nella ferma convinzione di Jung riguardo alla duplicità del soggetto in noi, dovuta al fatto che, per lui, anche l’inconscio è un capace di pensare e di decidere, e non solo l’io. Jung riferisce, a questo proposito, di una propria precoce consapevolezza che esisteva già, in forma istintiva, molto prima di avere sviluppato la capacità di rifletterci sopra in maniera più articolata:

«sapevo da sempre di avere due personalità: una era il figlio dei miei genitori, che frequentava la scuola ed era meno intelligente, attento, volenteroso, decente e pulito di molti altri ragazzi; l’altra era adulta – in realtà già vecchia – scettica, sospettosa, lontana dal mondo umano ma vicina alla natura, alla terra, al sole, alla luna e a tutte le creature viventi.
(…) Il gioco delle parti fra la personalità numero 1 e la numero 2, che si è protratto per tutta la mia vita (…) si verifica in ogni individuo. Nella mia vita la numero 2 ha avuto una parte di primo piano, e ho sempre cercato di fare posto a tutto ciò che mi fosse imposto dall’intimo» (Jung, 1965: 64-65).

Questa duplicità riverbera anche nella teoria dell’individuazione, per cui, in un’opera della maturità Jung afferma:

«Distinguo fra l’Io e il Sé, in quanto l’Io è solo il soggetto della mia coscienza consapevole, mentre il Sé è il soggetto della mia psiche totale, quindi anche di quella inconscia. In questo senso il Sé sarebbe un’entità (ideale) che include l’Io» (Jung, 1922).

Per inciso, il fatto che per Jung anche l’inconscio sia una forma di coscienza rende molto moderno il suo pensiero e lo avvicina alle posizioni che gli psicoanalisti relazionali hanno attualmente elaborato, nel tentativo di mettersi al passo con le recenti acquisizioni dell’infant research. Mi riferisco all’enorme rivalutazione della coscienza procedurale che non serve solo per aiutarci ad andare in bicicletta, ma sta alla base di tutte le nostre competenze relazionali ed è come “la mano nascosta che organizza l’esperienza”, per mutuare la bella espressione di Lakoff e Johnson (i quali si riferiscono con questa all’inconscio cognitivo, che basilarmente funziona attraverso metafore primarie sensomotorie).
Al tema della soggettività dell’inconscio, al convincimento che anche l’inconscio pensa, si collega la particolare importanza attribuita da Jung al mito, al sogno e alla fiaba, considerati come espressione di quell’altra luce, dell’inconscio stesso inteso come una forma di coscienza che si esprime in forma metaforica, non completamente razionalizzabile e non riducibile al modo logico e riflessivo di pensare che è caratteristico della coscienza consapevole di sé.
Un secondo punto fondamentale che ritroviamo nella citazione di Jung corrisponde a quella forma d’inesauribile di saggezza del mondo interiore, alla quale potremmo liberamente attingere, a patto di riconoscere l’inconscio stesso come nostro maestro e guida spirituale.
Proprio nel momento in cui scrivo queste riflessioni mi accorgo che è uscito un film sulla vita di Steve Jobs. Ricordo di avere letto un paio d’anni fa una breve autobiografia di lui, sorta di testamento spirituale, scritto prima della morte, che sembrava il manifesto del principio di individuazione secondo Jung. Prima egli buttò a mare l’università e si mise a costruire novità tecnologiche rivoluzionarie nel garage di casa, poi si fece cacciare dalla propria azienda, poi riconquistò il proprio potere, poi intraprese un drammatico corpo a corpo con la malattia, ogni volta incarnando, per usare la terminologia junghiana, l’archetipo dell’eroe che lotta contro il drago, cioè l’emblema dell’individuazione. Ricorderete tutti la celebre chiusura del suo scritto: «stay hungry, stay foolish!». Cosa c’è di più ammirevole del mito americano del pioniere che crea nuova civiltà a partire soltanto dalla natura selvaggia? Jobs, però, diceva anche che la gente non sa ciò che vuole, finché non glielo spiega un illuminato come lui. L’individuazione junghiana per molti aspetti è un atteggiamento prometeico, una hybris che in alcuni rari casi, come nel caso di Jung o di Jobs, può conferire grande successo al protagonista della storia, ma più spesso dà luogo all’esclusione, allo smarrimento e all’angoscia. Oggi siamo anche troppo fortunati, se ci paragoniamo con i secoli passati, quando pensare con la propria testa ed avere una mente creativa poteva anche significare la proscrizione, per non dire il rogo.
Jung raffigurava l’individuazione come la lotta dell’eroe contro il drago, perché la spinta evolutiva era da lui attribuita unicamente al singolo, mentre l’ambiente nel quale il singolo si muoveva era da lui concepito come punto di partenza, dimensione naturale dalla quale emanciparsi per non finire omologati nella mentalità e nell’inconscio collettivi. Oggi però siamo in grado di concepire una diversa logica evolutiva che non separa più individuo e ambiente in maniera così contrappositiva. Nella prospettiva di Oyama, per esempio, la contrapposizione nature-nurture è un falso ideologico dal quale cominciamo appena e molto faticosamente a emergere:

«Quando si considera l’interazione costruttiva di fondamentale importanza nella formazione (non solo nel sostegno) di tutti i caratteri, compresi quelli biologici, allora il ruolo dell’ambiente non è complementare a quello della biologia, ma è costitutivo proprio come lo sono i geni» (Oyama, 1998).

In che modo questa diversa concezione dell’individuo e del suo rapporto con l’ambiente potrà riverberare in psicologia e in che modo potrà cambiare la percezione della fatica e della gioia di diventare più autenticamente e pienamente se stessi?

Le due forme del pensare

Il primo capitolo di Simboli e trasformazioni della libido, prima opera junghiana di Jung, pietra miliare che segnò nel 1913, cioè ormai più di cento anni fa, la separazione definitiva da Freud, è un piccolo trattato metodologico, dove si teorizza che i modi di pensare sono due: quello logico, analitico e riflessivo e quello sintetico, immaginativo e intuitivo.
Quando, negli anni successivi, Jung si appassionerà all’alchimia, dirà che i due “luminari” dell’astrologia, il sole e la luna, corrispondono a queste due modalità complementari del pensiero.
La luce del “sole” è univoca e potentemente definitoria, perché separa nettamente gli oggetti che illumina dalle loro ombre, impenetrabilmente




oscure, mentre la luce della “luna” non è solo più debole, ma presenta la particolarità di illuminare gli oggetti osservati senza fissarli nella loro spietata oggettività: li lascia nella penombra, cioè in parte non conosciuti, e li lascia vivi, anzi esercita un’azione favorevole sui cicli della loro vita. Potremmo dire che la luna, a differenza del sole, svolge un’azione “empatica” su ciò che illumina, motivo per cui il poeta, al contrario dello scienziato, si sente più facilmente in accordo con la luna che non col sole. Pensate poi alla circostanza straordinaria, per cui il ciclo mestruale si è sincronizzato nel corso dell’evoluzione con il ciclo lunare, creando un legame impressionante fra la fertilità femminile e la luna.
Winnicott ha molto insistito in relazione alla cautela che si deve avere quando ci si avvicina allo “spazio privato del sé”. Secondo lui, c’è un nucleo vitale della nostra soggettività che non deve essere illuminato, dev’essere accolto ma non analizzato. Anche altri “maestri” di scuola non winnicottiana si raccomandano molto che le interpretazione che diamo ai nostri pazienti siano “insature”, per non bloccare il processo che la psicoterapia dovrebbe avere messo in moto nel loro inconscio: primo fra tutti, mi viene in mente Antonino Ferro. Questi sostiene che, giocando sul filo delle interpretazioni insature, si «attiva un processo di “trasformazione co-narrativa” che avviene in tempo reale» (Ferro, 2010, p. 34).

Si tratta di sviluppare il grado di oniricità della seduta, in modo che il paziente possa introiettare il funzionamento onirico. Non possiamo cambiare direttamente né la storia di una persona, né il suo mondo interno, ma solo aiutarla a sviluppare la sua capacità di sognare. Paradossalmente, però, aumentare la capacità di trasformare la sensorialità in immagini comporta l’immissione di nuove immagini nel mondo interno e in questo modo si cambia anche la storia. Anche la storia può essere riabitata in modo diverso» (Ferro, 2010, p. 38).

Kohut, a sua volta, distingueva tra comprendere e interpretare e giunse ad ammettere (a malincuore) che l’empatia, da lui intesa primariamente come un metodo osservativo attraverso immedesimazione con l’altro, neutro in quanto tale, svolge di per sé un’azione terapeutica, senza necessariamente passare attraverso la spiegazione e l’interpretazione.
Il sole, invece, rappresenta l’io eroico, maschile e attivo alla conquista del mondo esterno. Il pensiero solare è la spiegazione riduttiva, che procede attraverso nessi di causa ed effetto, quella che tenta di chiarificare l’inconscio ordinandone i contenuti mediante catene associative lineari e riconducendolo ad una spiegazione semplice. La celebre affermazione freudiana, «Wo es war, soll ich werden», esemplifica al massimo grado questa posizione nei confronti della psiche.
Il pensiero lunare rispetta la complessità e non pretende di risolverla in formule. Si orienta attraverso il precetto ermetico che si esprime con il motto dal significato del tutto opposto: ignotum per ignotius, che vuol dire spiegare l’ignoto per mezzo di ciò che è ancora più ignoto. In psicoterapia, ciò corrisponde al tentativo di non risolvere le tematiche dell’inconscio riportandole al semplice, ma di comprenderle nella loro complessità e articolata unicità. Comprendere se stessi, secondo Jung, significa portare a coscienza il proprio “mito personale”, aiutati anche dalla conoscenza delle religioni, dei miti e di tutte le narrazioni letterarie nelle quali ci possiamo riconoscere; mito personale dal quale non possiamo semplicemente evadere chiarendolo (luce solare), ma che dobbiamo piuttosto vivere, svolgere e fare evolvere.
Come Jung è partito dai due modi di pensare, Kohut è partito da una affermazione di metodo molto simile, marcando, o forse bisogna dire concretizzando, la contrapposizione fra mondo interno e mondo esterno, come se davvero fossero due ambiti separati del reale. Nel saggio sull’empatia del 1959, il quale a sua volta è la prima opera veramente kohutiana di Kohut (Kohut, 1959), egli afferma categoricamente che, così come percepiamo il mondo esterno attraverso gli organi di senso, altrettanto percepiamo il mondo interno attraverso una sorta di altro organo di senso che è l’introspezione. Da qui il discorso dell’empatia come introspezione vicariante[2], che definisce il campo della psicoanalisi e consente tutta una costruzione coerente della psicologia del sé. Inoltre, Kohut, come Jung, ha sviluppato la concezione degli “stati mentali complessi”. Da questo punto di vista i contenuti del mondo interiore che conosciamo attraverso l’empatia rappresentano una realtà psicologica primaria, non scomponibile e non riducibile, mentre alle pulsioni viene assegnato lo status secondario di “prodotti di frammentazione”.

«Nel paradigma della psicologia del Sé con il termine “Sé” ci si riferisce alla vita mentale dell’esperienza soggettiva della persona; e si ritiene che essa è costituita da stati mentali complessi che vanno capiti così come sono, senza ridurli ai loro componenti elementari... Secondo Kohut gli stati mentali complessi sono le configurazioni psicologiche primarie. Al di sotto di tali configurazioni psicologiche non esiste altro se non i prodotti della disintegrazione di esse... Detto più semplicemente... si adotta un procedimento olistico. Mentre le pulsioni possono essere studiate oggettivamente, gli stati mentali complessi, non ridotti ad altro di più elementare, possono logicamente essere studiati e capiti soltanto mediante l’introspezione e l’empatia» (Ruggiero, 1996: 20).

Già Jung aveva inventato i “complessi”: configurazioni psicologiche, che sono conoscibili solo metaforicamente, con metodo fenomenologico ermeneutico, non riduttivo. I complessi, secondo Jung, sono personalità parziali nelle quali tende a scomporsi la personalità totale nelle condizioni di sofferenza psicologica. Le linee di frattura, in corrispondenza delle quali la personalità tende a frammentarsi, sarebbero determinate dall’attrazione magnetica degli archetipi. Dietro al complesso materno starebbe l’archetipo della madre, dietro a quello paterno l’archetipo del padre e così via. Questa spiegazione appare piuttosto tautologica e costituisce, a mio vedere, un aspetto debole del pensiero di Jung. Infatti, l’archetipo, inconoscibile di per se stesso in quanto abitatore di una dimensione trascendente, trova la sua giustificazione per via degli effetti che produce sulla psiche. Nello stesso tempo, però, determinate condizioni patologiche della psiche trovano la loro causa nell’influsso degli archetipi che agiscono emanando il loro influsso da quella posizione trascendente…
A proposito delle due forme del pensare, voglio citare lo stesso Jung, nell’opera citata, pietra miliare del suo pensiero:

«Il pensare indirizzato o, come potremmo anche chiamarlo, il pensare con parole è manifestamente lo strumento della cultura, e non andiamo errati quando diciamo che il poderoso lavoro educativo che i secoli hanno accordato al pensare indirizzato, svincolandolo in maniera originale dalla sfera individuale-soggettiva, ha costretto lo spirito umano a un lavoro di adattamento al quale dobbiamo l’empirismo e la tecnica moderni, fenomeni assolutamente inediti nella storia del mondo e ignoti ai secoli precedenti.
(…) Un allentamento dell’interesse, una lieve stanchezza sono sufficienti ad annullare l’esattezza dell’adattamento psicologico al mondo della realtà. (…) ci allontaniamo dal tema, ci abbandoniamo completamente ai nostri pensieri; se il rilassamento dell’at-tenzione si fa più forte, perdiamo a poco a poco coscienza del presente e la fantasia prende il sopravvento.
A questo punto, s’impone la domanda: qual è la natura di queste fantasie?
(…) Il pensare non indirizzato è in sostanza motivato soggettivamente e, a dire il vero, molto meno da moventi coscienti che da moventi inconsci. Per certo esso produce un’immagine del mondo differente da quella del pensare indirizzato cosciente. Non esiste però un motivo fondato per supporre che sia solo una deformazione dell’immagine oggettiva del mondo.
(…) Le basi inconsce dei sogni e delle fantasie sono soltanto in apparenza reminiscenze infantili. In realtà si tratta di forme di pensiero primitive o arcaiche (…) anche il mito, basato egualmente su processi inconsci di fantasie, non è assolutamente infantile quanto a significato, contenuto e forma; né è espressione di un atteggiamento autoerotico o autistico, anche se dà origine a un’immagine del mondo che si adatta a stento alle nostre opinioni razionali e oggettive» (Jung, 1913: 30-42).

Quando rileggo Jung, a distanza di tanti anni dal mio allontanamento, prima in direzione di Kohut e poi per approdare alla psicoanalisi relazionale, mi capita ancora oggi di restare ammirato e meravigliato di fronte ad alcuni passaggi. L’espressione “Il pensare indirizzato o, come potremmo anche chiamarlo, il pensare con parole” e la contrapposizione di questa forma di pensiero a quella tipica delle fantasie e dei sogni, risulta, a distanza di un secolo, come una distinzione incredibilmente appropriata. Essa individua con ammirevole esattezza la differenza fra la coscienza narrativa che segue determinate regole logiche e il livello procedurale di elaborazione del pensiero che funziona secondo esperienza, condizionamento, principi organizzatori inconsci ecc., ma alla chiarezza scientifica di oggi siamo arrivati attraverso il lavoro sperimentale dell’infant research, la psicoanalisi relazionale, la neurofisiologia di Edelman e l’impostazione filosofica interazionista e costruttivista di Bateson, di Morin e di Oyama, solo per citare alcuni nomi e alcuni passaggi di un percorso molto attuale e ancora in via di elaborazione.
Freud criticava Jung di non accontentarsi di fare lo psicoanalista, ma di voler fare il profeta e adesso, per certi aspetti, scopriamo che per davvero era portatore di una visione profetica della psicologia del profondo! Aveva già scoperto, con un secolo di anticipo rispetto a noi, l’enorme importanza dell’inconscio non dinamico, da lui battezzato “inconscio collettivo”. Per questo, Jung diceva che l’inconscio freudiano era solo il primo strato, non tanto profondo, mentre il livello più importante dell’inconscio era per lui l’inconscio originario, un livello arcaico di funzionamento della mente, dal quale la coscienza non si è mai completamente differenziata.
Jung sosteneva che «Le basi inconsce dei sogni e delle fantasie sono soltanto in apparenza reminiscenze infantili». A quanto pare, Jung aveva colto proprio quel livello della mente di cui oggi tanto parliamo, che è capace di auto-etero-organizzarsi e di elaborare l’esperienza a prescindere dalla nostra consapevolezza riflessiva.
L’errore o meglio il limite fondamentale di Jung, dovuto anche al fatto che egli era troppo in anticipo sui tempi, fu quello di non riuscire a collocare questo livello della mente nella realtà incarnata dello scambio relazionale procedurale che sottilmente e ininterrottamente si svolge fra l’uno e l’altro e fra il soggetto e il mondo. Per Jung, l’inconscio si collocava, come ho già detto, in una dimensione trascendente, mistica, ma anche “autistica”: abiterebbe infatti dentro di noi e conterrebbe dei modi di funzionare, cioè di elaborare e di dare significato all’esperienza, precostituiti e presenti fino dalla nascita, ereditati non si sa bene come: per l’appunto, gli archetipi dell’inconscio collettivo. Lo sviluppo della coscienza e della personalità, cioè il processo d’individuazione, costituirebbe una potenzialità che richiede preparazione e coraggio per essere attuata, ma rispetto alla quale il rapporto sociale avrebbe solo un valore propedeutico, quando non fosse di impedimento e di ostacolo. Per questo motivo tutto il pensiero di Jung ricade appieno sotto il fuoco della critica che Atwood e Stolorow hanno rivolto al “mito della mente isolata” (1992).
Una percezione completamente diversa dell’inconscio procedurale è quella che ho incontrato diversi anni fa, a Milano, al primo seminario con George Downing al quale ho avuto la fortuna di partecipare. Egli ci mostrò alcuni filmati di video-micro-analisi, quelli che utilizza nella terapia della coppia madre-bambino, dove lo scambio non verbale appare in tutta la sua rilevanza, non appena siamo in grado di confrontare le immagini della loro interazione con una scansione temporale inferiore al decimo di secondo. Ciò che mi dissi fu: ecco il punto di contatto, dove psiche e nervi sono la stessa cosa. Non certo la ghiandola pineale ipotizzata da Cartesio, ma nemmeno la misteriosa magia degli archetipi dell’inconscio collettivo, bensì l’incessante flusso interattivo di connessione non conscia e non verbale, con il continuo auto-etero-organizzarsi delle strutture preriflessive. Tutto ciò si poteva toccare con mano, perché si svolgeva davanti ai nostri occhi, con un grado di evidenza a dir poco sconvolgente.
Per finire con le corrispondenze e gli accostamenti fra vecchio e nuovo e per spiegare meglio in cosa consiste l’inconscio procedurale, devo dire che trovo molto illuminante la distinzione fra coscienza primaria e coscienza superiore prospettata da Edelman. La coscienza primaria è quella che si realizza negli animali vertebrati, nei quali per la prima volta sono disponibili le necessarie connessioni cerebrali (di rientro) per ritrovare di fronte all’esperienza in corso la visione fantasmatica di ciò che in passato è già accaduto.

Consideriamo allora un animale nella giungla che percepisce un cambiamento nel vento e dei rumori insoliti sul far del crepuscolo. L’animale potrebbe fuggire pur non esistendo evidenti pericoli. Cambiamenti del vento e rumori si sono già presentati indipendentemente in passato, ma l’ultima volta che si sono manifestati insieme è comparso un giaguaro: nella memoria di quell’individuo cosciente esiste una connessione, anche se non si può dimostrare che sia causale. […] l’animale in questione sta collegando eventi o segnali in una scena complessa, costruendo relazioni basate sulla propria e unica storia di risposte dipendenti-dal-valore. (Edelman e Tononi, 2000, p. 129).

Abbiamo improvvisamente a che fare con uno sdoppiamento della realtà. La cosa più importante da considerare è che questo sdoppiamento, ovvero riflessione, non avviene a livello di coscienza superiore verbale, ma si realizza nel rapporto dell’animale vertebrato con il suo ambiente. Questo fenomeno  costituisce un nuovo anello che s’inserisce nella ricorsività della danza relazionale, come l’emergere di un livello di complessità assolutamente nuovo, caratterizzato dal fatto che, a questo punto, gli eventi valgono non tanto per quello che sono, ma soprattutto per quello che potrebbero diventare. Con una progressiva acquisizione di competenza, questo livello primario di coscienza che è ancora in presa diretta con i sensi e funziona in maniera estremamente veloce diventa l’inconscio procedurale messo in luce dagli strumenti dell’infant research.
Nel sogno viene riabilitata l’attività della coscienza primaria e con essa l’azione di un intuito selvaggio che è capace di deviare le narrazioni della coscienza superiore verso strade a noi generalmente precluse nella vita da svegli. Per questo Ferro sostiene che la creatività della nostra mente corrisponde alla capacità di sognare da svegli.
Per riprendere il discorso sul numinoso e riferirlo a qualcosa di più plausibile da pensare piuttosto che gli archetipi, potremmo reinterpretarlo come il sentimento di appartenenza-intrappolamento in quella rete in cui siamo presi senza scampo, in quanto esseri viventi e coscienti: la danza relazionale  di cui parlava Bateson, che corrisponde anche, se vogliamo, all’intuizione religiosa che sta alla base del buddhismo, quella dell’interdipendenza universale di tutti gli esseri e di tutte le forme. La stessa intuizione si è affacciata in ambito filosofico, in contemporanea con Jung, nella concezione husserliana di “mondo della vita”. Secondo Husserl, è proprio perché siamo primariamente inseriti con la nostra vita nel mondo della vita che possiamo dare un senso a tutto ciò che ha senso per noi. Successivamente, Heidegger e poi Gadamer elaborarono il concetto di “circolo ermeneutico” per spiegare come nasca la comprensione del senso in ambito culturale. Nasce dal fatto che siamo già dentro alle cose, siamo già primariamente dentro a una rete di nessi che ci rende “aperti al mondo”. Dice curiosamente Gadamer: «i pregiudizi rappresentano le tendenza della nostra apertura al mondo. Si tratta semplicemente delle condizioni attraverso cui sperimentiamo qualcosa – attraverso cui ciò in cui ci imbattiamo ci dice qualcosa» (1960, p. 8). Per affermare poi che «ogni esperienza degna di tal nome si verifica in opposizione alle nostre aspettative […] l’insight è qualcosa di più che non conoscere perfettamente quella situazione o quell’altra. l’insight comporta sempre la fuga da qualcosa che ci ha ingannati e ci ha tenuto prigionieri» (pp. 319-320). Questo paradosso dell’ermeneutica di Gadamer è un altro modo di concepire il rapporto sinergico delle due coscienze di cui siamo fatti.
In definitiva, ciò che Jung, sulla scorta degli alchimisti, cercava di ottenere attraverso la congiunzione di luna e sole era nientemeno che l’integrazione della coscienza narrativa con la coscienza primaria: le due potenti forme del pensare di cui siamo dotati e fatti, che possono contrapporsi e confliggere a nostro danno o integrarsi a nostro favore.
A questo proposito, mi piace sempre citare un brano tratto dal Martin Eden di Jack London, come esempio d’integrazione. L’esempio parla di Martin, il protagonista del romanzo, un uomo in lotta con il contesto arcaico e penalizzante nel quale è nato, tutto teso verso la conquista, nonostante tutto, del proprio sviluppo culturale e intellettuale:

«Mentre il professore parlava, Martin si rese conto che gli venivano alle labbra i versi del Canto degli Alisei […] Stava quasi per sussurrarli, quando si rese conto all’im-provviso che l’altro gli ricordava gli Alisei, quelli di nord-est in particolare, che soffiavano costanti, freddi e forti. Era sincero, quel professore, e si poteva contare su di lui, eppure c’era in lui qualcosa d’inafferrabile. Martin avvertiva che non diceva mai tutto quello che pensava, proprio come gli Alisei, che non soffiano mai con tutta la loro forza, ma sempre ne conservano da parte un poco. L’immaginazione di Martin era viva come sempre e la sua mente un archivio di ricordi e fantasie, dove si entrava con facilità e dove tutto era sempre messo in ordine, pronto per venir ispezionato. Qualsiasi cosa gli accadesse a un dato momento, la mente di Martin immediatamente gli presentava associazioni con antitesi e similitudini che, di solito, prendevano forma di visioni. Era una cosa praticamente automatica e la sua forza visionaria lo accompagnava, senza cedimenti, attraverso la vita presente» (London, 1909, p. 272 della trad. it.).


L’ermeneutica di Jung

Per dimostrare in pratica come funziona il proprio metodo interpretativo, da lui denominato “sintetico” (o “costruttivo”), Jung racconta il sogno di una sua paziente:

La donna è in procinto di varcare un largo ruscello. Non ci sono ponti, però riesce a trovare un punto adatto per passare dall’altra parte. Mentre sta per farlo, un grosso granchio che sta celato nell’acqua l’afferra al piede e non la lascia più. Si sveglia con una sensazione d’angoscia (Jung, 1917).

L’interpretazione freudiana, secondo Jung, ricondurrebbe il sogno al piano dell’oggetto e il granchio rappresenterebbe l’abbraccio omosessuale dell’amica che ha sostituito la madre nella vita della sognatrice. L’interpretazione sintetica, invece, chiama più direttamente in causa il soggetto, o meglio il “doppio soggetto”, il rapporto del soggetto con se stesso. La natura dell’ostacolo da superare è spiazzante e terrorizzante, in primo luogo perché si associa al cancro (si trattava, infatti, di una paziente inglese e in inglese crab significa sia “granchio”, sia “cancro”). L’attraversamento dell’acqua è una metafora ricorrente, che si trova anche nell’I King, dove si parla spesso di “attraversamento della grande acqua”, come necessità di un cambiamento radicale (simbologia di morte e rinascita, ecc.). Ma questo attraversamento che significa un importante cambiamento risulta impedito, secondo Jung, perché la sua paziente «partecipa ancora troppo poco alla vita reale, per poter rischiare un capovolgimento del punto di vista» (Jung, 1917). Con questa espressione Jung vuole dire la paziente è ancora troppo “egoriferita”, riferita cioè soltanto all’ego della vita di ogni giorno e insensibile nei confronti del Sé con la esse maiuscola, la grande persona che costituisce l’altro soggetto, quello che vive nella prospettiva dell’eternità. Per questo motivo, la donna non può ancora abbandonare il proprio atteggiamento psicologico di attaccamento, per quanto disfunzionale esso sia ormai diventato per lei.
Questo modo di vedere le cose, attraverso amplificazioni, piuttosto che scomposizioni e associazioni, conduce progressivamente a sviluppare una specie di “timor di dio”, quello appunto che Jung chiamava il sentimento del “numinoso”. Il cancro costituisce una sorta di incubosa minaccia, rispetto alla quale l’io è totalmente impotente, e va letta simbolicamente come lo scontro con una volontà e una realtà psichica più forti della volontà e realtà coscienti e non semplicemente la “scabrosità” dell’inconscio freudiano. L’io cosciente da “tracotante” deve diventare “religioso”. Secondo Jung, in questo modo possiamo accedere all’esperienza di un fondamento “trascendentale” che si manifesta nell’intimo di noi stessi, un punto di riferimento per la costruzione della personalità totale.
In questa prospettiva, il sogno non si limita a svelare un desiderio omosessuale (del quale, fra l’altro, la paziente era perfettamente consapevole), ma illumina di luce diversa il significato dell’esistenza di quel desiderio. Secondo Jung, infatti, il suo metodo ci porta oltre l’inconscio dinamico freudiano e ci consente di accedere all’inconscio collettivo. Il granchio-cancro sarebbe la rappresentazione di un complesso, creato dall’azione di un potente archetipo, l’archetipo materno, che domina e blocca la vita psichica della paziente: l’angoscia da lei provata sarebbe una percezione ancora confusa di questo tremendum.
Come si risolve il tremendum? Non si risolve: abbiamo piuttosto a che fare con esso come gli antichi avevano a che fare con gli dei. Si richiedeva un atteggiamento di venerazione e si supponeva che il dio arrabbiato dovesse essere placato attraverso un’offerta, un sacrificio. Tradurre questo compito nei termini psicologici odierni sarebbe lo scopo della psicoterapia, quando abbiamo a che fare con i contenuti dell’inconscio collettivo. In altre parole, non basta portare a coscienza l’inconscio, ma è la coscienza che deve farsi umile ed iniziarsi ai misteri dell’inconscio, cioè farsi educare dall’inconscio stesso.
Jung entrava dunque con venerazione nella dimensione dell’inconscio collettivo, assumendone i contenuti dissociati come realtà di primo livello, con l’intento di fondare su di essi l’edificio della propria psicologia.
Quando ancora mi riconoscevo come psicologo junghiano, mi divertii una volta a riformulare la celebre auto-interpretazione freudiana del sogno dell’iniezione a Irma, contrapponendo alla lettura freudiana quella che, secondo me, poteva essere un’interpretazione junghiana. Oggi, a distanza di molti anni, direi che la mia interpretazione junghiana era anche molto più relazionale di quella freudiana.
Nel 1895, trovandosi momentaneamente ospite in una casa di vacanza, Freud ebbe un sogno. Dopo averci parecchio rimuginato, comunicò per lettera le proprie riflessioni all’amico Fliess e trionfalmente concluse:

«Non credi che su questa casa un giorno si potrà leggere questa lapide?

In questa casa il 24 luglio 1895
al dottor Sigmund Freud
si svelò il segreto del sogno»

Ed ecco, un po’ riassunto, il famoso Sogno dell’iniezione ad Irma:

Un grande salone, molti ospiti che stiamo ricevendo. Tra questi, Irma, che prendo subito in disparte, come per rispondere alla sua lettera e rimproverarla di non accettare ancora la “soluzione”. Le dico: «Se hai ancora dolori è veramente soltanto colpa tua». Lei risponde: «Sapessi che dolori ho ora alla gola, allo stomaco, al ventre, mi sento tutta stretta». Mi spavento e la guardo: è pallida, gonfia. Penso: dopotutto forse non tengo conto di qualche cosa di organico. La porto alla finestra e le guardo la gola. Irma mostra una certa riluttanza, come le donne che portano la dentiera. Penso che non ne ha proprio bisogno. La bocca poi si apre bene, e vedo a destra una grande macchia bianca e in un altro punto, accanto a strane forme increspate, che imitano evidentemente le conche nasali, estese croste grigiastre. Chiamo subito il dottor M., che ripete la visita e conferma... Il dottor M. ha un aspetto assolutamente diverso dal solito: è molto pallido, zoppica, non ha barba al mento... Anche il mio amico Otto si trova ora accanto a Irma e l’amico Leopold la percuote sul corsetto e dice: «C’è una zona di ottusità in basso a sinistra»; e indica inoltre un tratto di cute infiltrato sulla spalla sinistra (cosa che anch’io sento, nonostante il vestito)... M. dice: «Non c’è dubbio, è un’infezione; ma non importa; sopraggiungerà una dissenteria e il veleno sarà eliminato...». Inoltre sappiamo subito da dove proviene l’infezione. Qualche tempo fa, per un’indisposizione, l’amico Otto le ha fatto un’i-niezione con un preparato di propile, propilene... acido propionico... trimetilamina (ne vedo la formula davanti ai miei occhi, stampata in grassetto)... Non si fanno queste iniezioni con tanta leggerezza... probabilmente anche la siringa non era pulita (Freud, 1899).

Come sapete, si tratta di una pagina particolarmente sacra per la psicoanalisi, perché è precisamente con questo sogno che Freud applica per la prima volta il proprio metodo d’interpretazione dei sogni. Il fatto che io abbia voluto fare il verso a Freud utilizzando questo materiale costituisce una prova dell’intenzione dissacratoria che mi animava in quel momento. Oggi sono molto più riconciliato, anche se, nella sostanza, la mia critica sarebbe la stessa.
Leggendo le pagine di commento e di spiegazione che Freud scrisse di seguito al proprio sogno, risulta subito chiaro che per lui analizzare significava interessarsi soprattutto ai particolari e non all’insieme di un testo. In biologia si frantumano le cellule, per andare a vedere cosa c’è dentro, per separare gli uni dagli altri gli organelli e le molecole di cui sono fatte e Freud, per essere scientifico, cercava di fare la stessa cosa con i sogni, ispirandosi direttamente alle scienze naturali.
Diceva a questo proposito Laing nell’Io diviso:

L’essere umano (...) può essere visto da diversi angoli, e l’uno o l’altro aspetto può essere preso come oggetto di studio. In particolare può essere visto come una persona o come una cosa.
(...) posso vederti come un’altra persona come me; ma, senza che tu cambi o faccia niente di nuovo, posso anche vederti come un sistema fisico-chimico complesso, forse dotato di certe caratteristiche individuali ma nondimeno sempre tale. Visto in questo modo tu non sei più una persona, ma un organismo. Nel linguaggio della fenomenologia esistenziale l’altro – visto alternativamente come persona o come organismo – è l’oggetto di atti intenzionali diversi (Laing, 1960).

Freud sminuzzava il sogno in tanti pezzetti e poi usava ogni pezzetto come punto di partenza e stimolo per una catena di associazioni di idee. Nel caso del Sogno dell’iniezione a Irma, lo sviluppo delle diverse catene associative occupa nove pagine, «Anche se», riferisce Freud in nota, «come è comprensibile, non ho comunicato tutto quel che mi è venuto in mente per il lavoro d’interpretazione»(Freud, 1899:118). Dal momento che ogni catena è, in linea di principio, interminabile, risultano inevitabilmente parecchie intersezioni; ebbene, un’ipotesi che Freud ventilava, una delle tante iper-semplificazioni che lo hanno reso così famoso, era che la mappa delle intersezioni potesse costituire di per se stessa l’interpretazione del sogno. Nel caso specifico, il significato del sogno sarebbe consistito nella realizzazione camuffata del desiderio di attribuire ad altri, e in particolare al dottor Otto, la colpa dell’insuccesso terapeutico registrato nei confronti della paziente Irma.
Mi ha sempre colpito vedere quanto poco, alla fine dei conti, il prodotto di tutta quella complicata procedura si allontanasse dalla letteralità del testo da cui parte, per cui non sono mai riuscito a capire quale avrebbe dovuto essere l’illuminazione alla quale si arrivava. Infatti, l’intenzione di colpevolizzare il povero Otto appare manifesta nel sogno fin dal principio: «l’amico Otto le ha fatto un’iniezione [...] Non si fanno queste iniezioni con tanta leggerezza... probabilmente la siringa non era pulita».
La mia impressione è che, procedendo in maniera scompositiva e associativa, s’imbocchino dei percorsi circolari e si producano tutta una serie di metafore equivalenti a quelle di partenza, senza compiere mai quel salto di livello logico nel quale dovrebbe consistere la vera interpretazione di un sogno.
Ecco, invece, il mio vecchio tentativo d’interpretazione junghiana dello stesso sogno:

Un grande salone, molti ospiti, che stiamo ricevendo.

Jung consigliava di prestare molta attenzione al prologo, quando si analizza un sogno. Qui ci troviamo inseriti in un contesto mondano, di convenzioni sociali e di marcata estroversione. L’iniziale preoccupazione freudiana di mantenere la psicoanalisi nell’ambito della medicina scientifica era motivata dalla sua ambizione di rendersi bene accetto e diventare importante nel contesto della società borghese di fine secolo, cui apparteneva.
Riferendoci alla simbologia delle due forme del pensare, potremmo dire che era molto forte in lui il bisogno di ammantarsi della «luce del sole».
Come amplificazione del personaggio che Freud viene a rappresentare nel prologo del proprio sogno, scelgo anch’io una mia immagine archetipica: la carta numero VII dei tarocchi, Il Carro, che raffigura l’eterna illusione del giovane eroe di spingersi alla conquista del mondo, senza curarsi delle tante contraddizioni irrisolte che porta con sé.
L’interpretazione junghiana della simbologia dei tarocchi ci porterebbe molto lontano. Qui è sufficiente dire, in estrema sintesi, che le ventuno immagini degli “arcani maggiori”, ordinate secondo la loro numerazione, ci mostrano l’evoluzione psicologica e spirituale di un protagonista maschile che si scontra ripetutamente con il lato oscuro e per lui incomprensibile della vita, che è rappresentato dalla sfinge, e viene educato a più riprese da una figura femminile che si presenta sotto diverse forme, pur rappresentando sempre la stessa cosa e cioè la conoscenza non intellettuale ma vissuta di quelle realtà archetipiche di cui parla Jung.
La carta numero VI, l’Innamorato, ci mostra il protagonista nella fase immediatamente precedente del suo cammino. Non ancora identificato con l’eroe, egli si trova di fronte ad un bivio piuttosto imbarazzante. Alla sua destra c’è la via della rettitudine. Le scelte giuste, le buone abitudini e i valori morali che gli sono stati inculcati sono rappresentati da una ragazza dall’aspetto idealizzato di madonnina, mentre a sinistra c’è la “perdizione”, rappresentata da una ragazza dall’abito discinto con i fiori fra i capelli. A destra la sicurezza di essere un ragazzo per bene, conforme all’aspettativa dei genitori e della società cui appartiene, a sinistra la tentazione e il pericolo di sperimentare una “vita vissuta” e di farsi un’esperienza in prima persona. Eros con freccia puntata sopra di lui costituisce una presenza ben poco rassicurante: basta un passo in una qualsiasi delle due direzioni per restare fulminato. Infatti, la scelta che il protagonista deve fare è fra il rimorso e il rimpianto: in entrambi i casi molto dolore dovuto a eros. Il compito psicologico di integrare i due opposti non è alla portata di un giovane alle





prime armi come lui e per la sfinge è fin troppo facile averla vinta. La carta successiva, per l’appunto il Carro, ci fa capire che l’unica soluzione momentaneamente possibile è quella di “cavalcare la scissione”, visto che l’integrazione è ancora impossibile. Buttarsi nella mischia, non importa come: fare soldi, carriera, figli, debiti, fare comunque qualcosa per portare avanti la propria vita. Qui la sfinge ride moltissimo e addirittura si sdoppia, a rappresentare la dissociazione alla base dell’atteggiamento solo fintamente e grottescamente “vittorioso” del nostro eroe: le due sfingi trascinano il suo carro e tirano in due direzioni opposte, una a destra e l’altra a sinistra. Il pover’uomo s’illude di essere arbitro del proprio destino, ma presto si scontrerà con la resa dei conti, la Giustizia della carta successiva.
Come ho detto, paragono Freud all’eroe sul carro, mentre il ruolo della Giustizia è svolto dalla sua paziente Irma:

Tra questi, Irma, che prendo subito in disparte come per rispondere alla sua lettera e rimproverarla di non accettare ancora la «soluzione».

La comparsa di Irma produce un immediato spostamento dell’attenzione dal contesto collettivo, che fa da sfondo al sogno, al luogo più ristretto e delimitato di una relazione personalela coppia analitica. Irma è la paziente indocile, quella rompiscatole che non si lascia  convincere e ci costringe a uscire dal comodo ruolo di “medico sano”, di eroe buono, che porta salvezza e salute, per coinvolgerci nelle spirali di transfert e controtransfert. Irma mette un bastone fra le ruote del carro e l’eroe sbalza rovinosamente a terra.

«Chiunque percorra il cammino che porta alla totalità [...] finirà con l’imbattersi immancabilmente in ciò che gli taglia la strada, che lo «mette in croce»: in primo luogo in ciò che egli non vorrebbe essere (l’Ombra), in secondo luogo in ciò che non «egli», ma l’altro è (realtà individuale del Tu), in terzo luogo in ciò che costituisce il suo non-Io psichico, cioè nell’inconscio collettivo» (Jung, 1927).

Le dico: «Se hai ancora dolori è veramente soltanto colpa tua».

È merito di Freud averci insegnato a dubitare delle negazioni e delle affermazioni troppo perentorie e l’espressione “veramente soltanto” attira inevitabilmente la nostra attenzione:

II modo in cui i pazienti presentano le loro associazioni durante il lavoro analitico ci fornisce lo spunto per alcune osservazioni interessanti. «Ora Lei penserà che io voglia dire qualche cosa di offensivo, ma in realtà non ho assolutamente questa intenzione». Comprendiamo che questo è il ripudio, mediante proiezione, di un’associazione che sta or ora emergendo (Freud, 1925).

Ma di cosa Freud colpevolizza Irma, o meglio se stesso, nel proprio sogno? La “soluzione” di cui si parla consiste nella spiegazione riduttiva del significato dei sintomi, in termini di pulsioni sessuali, che Freud aveva dato alla sua paziente. Irma sostiene di avere «dolori alla gola, allo stomaco, al ventre» e di sentirsi «tutta stretta». Sostiene anche di avere ricevuto una medicina sbagliata che le sta facendo male e danneggia il suo interno.

Mi spavento e la guardo: è pallida, gonfia. Penso: dopo tutto forse non tengo conto di qualche cosa di organico. La porto alla finestra e le guardo la gola. Irma mostra una certa riluttanza, come le donne che portano la dentiera. Penso che non ne ha proprio bisogno. La bocca poi si apre bene, e vedo a destra una grande macchia bianca e in un altro punto, accanto a strane forme increspate, che imitano evidentemente le conche nasali, estese croste grigiastre.

Da questo punto in poi il sogno volge al grottesco, come una tipica commedia degli inganni, secondo il gioco del non intendersi, del parlare ciascuno la propria lingua ed equivocare quella altrui. Freud rilancia un’attenzione accanitamente incentrata sulle cause organiche, mentre Irma, la rompiscatole, trattata senza empatia, si aggrava sempre di più e produce una vera e propria fioritura di falsa patologia organica, secondo il cliché delle somatizzazioni nevrotiche.

Chiamo subito il dottor M., che ripete la visita e conferma... Il dottor M. ha un aspetto assolutamente diverso dal solito: è molto pallido, zoppica, non ha barba al mento...

Dice Freud a proposito della convocazione del dottor M.: «Ciò corrisponderebbe semplicemente alla posizione del dottor M. nel nostro ambiente», facendoci intendere che si tratta di un personaggio ragguardevole, di un appello all’autorità della scienza. Non dobbiamo meravigliarci troppo dell’aspetto insolito del dottor M.: stando ai canoni interpretativi di Freud, il piede e il pizzo al mento sono simboli fallici, perciò è lecito dire che il patriarca si presenta paradossalmente sulla scena “castrato”, o meglio assolutamente impotente di fronte a un problema che riguarda l’altro lato dell’essere umano, il mondo interiore.

Anche il mio amico Otto si trova ora accanto a Irma e l’amico Leopold la percuote sul corsetto e dice: «C’è una zona di ottusità in basso a sinistra»; e indica inoltre un tratto di cute infiltrato sulla spalla sinistra (cosa che anch’io sento nonostante il vestito)...

Dato che Freud associa il suo «reumatismo alla spalla, che sento regolarmente se resto sveglio fino a notte alta», ci autorizza a riferire a lui stesso la «zona di ottusità». L’altro lato di Freud sa benissimo che la solarità che domina la coscienza e l’esagerata ammirazione per il dottor M. producono ottusità.

M. dice: «Non c’è dubbio, è un’infezione; ma non importa; sopraggiungerà una dissenteria e il veleno sarà eliminato...».

Io credo che i sogni si esprimano generalmente in chiave ironico-grottesca e questo sogno non fa eccezione, aggiungendo una pennellata degna dell’arguzia di Molière. Ecco infatti che l’autorità accademica si trasforma in un perfetto “dottor Purgone”:

Inoltre sappiamo subito da dove proviene l’infezione. Qualche tempo fa, per un’indisposizione, l’amico Otto le ha fatto un’iniezione con un preparato di propile, propilene... acido propionico... trimetilamina (ne vedo la formula davanti ai miei occhi, stampata in grassetto)... Non si fanno queste iniezioni con tanta leggerezza... probabilmente anche la siringa non era pulita.

Il tanto disprezzato Otto, medico di second’ordine, che agisce senza farsi tanta pubblicità (praticamente nell’ombra), rappresenta la componente relazionale dello stesso Freud, nel rapporto con la paziente; in altri termini, la sua capacità di indurre in essa un transfert. Per questo il Freud accademico associa al farmaco iniettato gli ormoni sessuali.
La necessità di coinvolgersi e di misurarsi personalmente con gli affetti, invece di trattarli col metodo allontanante e anonimo delle scienze naturali, produce in Freud un’emozione insostenibile, dalla quale si difende con l’ossessività (la follia della ragione). Ecco allora tutta la serie chimica, le formule stampate in grassetto, la preoccupazione per la pulizia della siringa, ecc.
È così che mi sono divertito a ribaltare la prima interpretazione freudiana del sogno, sporcando il monumento che Freud immaginava di erigere a se stesso a imperitura memoria. Pensandoci bene, però, questa costituisce più un’interpretazione relazionale e lorenziniana che junghiana, perché l’attenzione è rivolta più che altro verso le dinamiche relazionali in corso e all’elemento ironico grottesco come chiave interpretativa del sogno e non tanto al numinoso trascendente.
Mi chiedo cosa resti di junghiano nel mio modo di pensare e praticare la psicoterapia. Fairbairn, uno dei primi ad allontanarsi dal paradigma pulsionale di Freud, si espresse in questi termini:

Non posso dire di nutrire alcun rimpianto per aver condotto le mie ricerche sotto gli auspici della tradizione freudiana piuttosto che di quella junghiana. Quando giunsi ad interessarmi per la prima volta dei problemi della psicopatologia, non avevo già in partenza una lancia da spezzare in favore di qualcuno; e se, al bivio, ho scelto di seguire la via tracciata da Freud invece di quella tracciata da Jung, ciò non fu sicuramente perché io considerassi Freud invariabilmente nel giusto e Jung invariabilmente in errore. Ciò avvenne perché, paragonando le concezioni fondamentali di Freud e quelle di Jung, trovavo le prime incomparabilmente più illuminanti e convincenti e sentivo che esse offrivano una prospettiva infinitamente migliore per la risoluzione dei problemi che interessano la psicopatologia (Fairbairn, 1955, p. 144).

Per Fairbairn i sogni non erano una sorta di appagamento allucinatorio di desideri insoddisfatti, ma “lungometraggi nei quali si autorappresentava la vita interiore”. Il già citato Antonino Ferro, a partire da una formazione tutt’altro che jumghiana, cioè da Bion, lavora nello stesso modo. Rimasi a bocca aperta quando lo sentii dire nel corso di un seminario che lui non chiede affatto associazioni d’idee e che al significato dei sogni ci arriva per intuizione diretta. Mi sentii così grato, che decisi, seduta stante, di pubblicare la sua conferenza sul primo numero di Ricerca Psicoanalitica da me diretto:

«Il sogno, secondo me, non ha bisogno di essere interpretato, ma intuito. Il sogno è la poesia della mente: o lo capisco o no. Se non lo capisco, ho una seconda chance: chiedere al paziente cosa gli fa venire in mente. In questo modo, egli mette in funzione la propria funzione alfa e, credendo di fare delle associazioni libere, fa un sogno sul suo sogno, dando all’analista una seconda possibilità per comprendere» (Ferro, 2010: 51).


In presa diretta: il concetto del Sé nell’opera conclusiva della maturità di Jung, Mysterium Coniunctionis

A questo punto, non pago di parlare di Jung, vorrei che Jung stesso ci illuminasse in relazione al concetto del Sé, punto chiave delle sue riflessioni.

Come ho più volte sottolineato, le asserzioni relative alla pietra [filosofale], se considerate dal punto di vista psicologico, descrivono l’archetipo del Sé, la cui fenomenologia è esemplificata nel simbolismo del mandala. Quest’ultimo descrive il Sé come una struttura concentrica, spesso nella forma della quadratura del cerchio. Gli è associato ogni tipo di simbolo secondario che esprima in generale la natura degli opposti da unire. La struttura è invariabilmente avvertita come la rappresentazione di uno stato centrale o di un centro della personalità sostanzialmente diverso dall’Io. Esso è di natura numinosa, come indicano il tipo di raffigurazione o i simboli impiegati (sole, stella, luce, fuoco, fiore, pietra preziosa ecc.). Vi s’incontrano tutti i gradi di valutazione emotiva, dal disegno astratto, incolore e indifferente di un cerchio fino all’intensità suprema di un’esperienza d’illuminazione. Tutti questi aspetti si possono già costatare nell’alchimia, con l’unica differenza però che là essi appaiono proiettati nella materia, mentre qui sono intesi come simboli psichici. L’arcanum chymicum si è dunque trasformato in un evento psichico, senza perdere nulla della sua numinosità originaria.
[…] A differenza dell’ideale dell’alchimia, che consisteva nella produzione di una sostanza misteriosa, l’interpretazione psicologica conduce all’idea di totalità dell’uomo. Quest’idea ha anzitutto un significato terapeutico, giacché tenta di cogliere concettualmente quello stato psichico che risulta dal superamento della dissociazione, ossia della distanza, tra coscienza e inconscio. La compensazione alchemica corrisponde all’integrazione dell’inconscio nella coscienza, operazione che produce una trasformazione in entrambi. Anzitutto, la coscienza sperimenta un ampliamento, uno spostamento dei confini del proprio orizzonte. Ciò significa in primo luogo un considerevole miglioramento delle condizioni psichiche generali, poiché la coscienza cessa di essere turbata dall’azione contraria dell’inconscio. Ma, poiché ogni bene si deve pagare a caro prezzo, il conflitto che era prima inconscio viene così trasferito alla luce della coscienza, e quest’ultima viene gravata d’una pesante ipoteca: è da lei, ora, che si attende la soluzione del conflitto. E tuttavia la coscienza pare essere inadeguata e mal preparata a tale compito, allo stesso modo di quella degli alchimisti medioevali. Non diversamente da questi ultimi, l’uomo moderno ha bisogno di un metodo speciale, che consiste nell’esplorare e formulare i contenuti inconsci allo scopo di superare le difficoltà della coscienza. Come ho già mostrato altrove, quale risultato dello sforzo psicoterapeutico è possibile attendersi una certa esperienza del Sé. I fatti dimostrano che quest’attesa è legittima. Non di rado si tratta di esperienze realmente numinose. È superfluo tentare di descrivere il carattere di totalità. Chiunque ha vissuto un tale evento sa bene che cosa voglio dire, e per chi invece non ha fatto tale esperienza ogni descrizione resterà insufficiente (Jung, 1971: 543-546).


L’idealizzazione dell’inconscio

Qual è il modo caratteristico che aveva Jung di porsi rispetto ai miti, alle religioni e ai sogni? Egli si poneva dentro-fuori rispetto a essi, perché secondo lui i significati che costituiscono tutte quelle narrazioni non possono essere semplicemente ridotti a frammenti ed elaborati secondo una logica riduttiva, per poi diventare un possesso della mente razionale, ma devono prima di tutto essere vissuti, sviluppati e portati a maturazione.
Questo particolare atteggiamento verso la psiche e la psicoterapia avrebbe potuto fare di Jung un precursore di Winnicott, perché con il suo particolare atteggiamento non riduttivo verso l’inconscio egli collocava il lavoro della psicoterapia nella dimensione molto favorevole di un perenne spazio transizionale di crescita personale. Inoltre, anche l’idea che non si possa realmente risolvere la metafora, a favore di una spiegazione basata su di una presunta realtà concreta non metaforica era molto avanzata rispetto ai tempi. Purtroppo però la posizione di Jung è sottilmente ambigua e non mi sembra proprio di poterla definire costruttivistica o contestualistica. Teorizzando gli archetipi, egli andava alla ricerca di un fondamento certo, una dimensione trascendente (o “trascendentale”) che si rivelava direttamente nell’interiorità delle persone. Per questo motivo, la sua impostazione non si può definire altro che religiosa: Jung era, in definitiva, nell’atteggiamento di un credente che mantiene un atteggiamento devozionale verso l’oggetto della sua ricerca.
La potenza soverchiante dell’inconscio collettivo concepito da Jung incute un sacro timore e mette inevitabilmente l’analizzando in una condizione di soggezione, oppure di inflazione psicologica, a seconda della sua predisposizione alla remissività del seguace, o all’identificazione con il sé grandioso del credersi un illuminato.
Per entrare ancora meglio nell’inquietante stranezza di questa deviazione dalla scienza verso la religione, ho trovato assai illuminante lo studio psico-biografico che Atwood e Stolorow hanno dedicato a Jung e da questo attingerò a piene mani (Atwood e Stolorow, 1979).

Fino da bambino, Jung aveva sviluppato e coltivato un mondo segreto che gli serviva come rifugio dove ritirarsi per fare fronte ad un senso di sé particolarmente fragile. Dice infatti Jung di se stesso bambino:

Scoprii che [i miei compagni di scuola] mi alienavano da me stesso. Quando ero con loro diventavo diverso rispetto a quello che ero a casa... i miei compagni di scuola... mi costringevano a essere diverso da quello che pensavo di essere... Era come se sentissi e temessi una scissione del mio essere: ne avevo paura, quasi fosse una minaccia per la mia sicurezza interiore (Jung 1961, trad. it. 1965: 38-39).

Così commentano i nostri autori:

Insieme allo spaventoso cambiamento e alla scissione interna generatasi in Jung con il suo ingresso a scuola e con la frequentazione di un mondo sociale più ampio della cerchia familiare, egli sviluppò un certo numero di giochi simbolici, veramente affascinanti, perché chiariscono i temi soggettivi che dominarono quel periodo della sua vita (fra i 7 e i 10 anni). Uno dei giochi richiedeva il fuoco... un altro gioco si basava su una curiosa relazione con una pietra. Spesso, quando Jung si sentiva solo, andava a sedersi su una pietra particolare che sporgeva sullo stesso pendio dove il ragazzo si prendeva cura del fuoco sacro. Allora cominciava un dialogo che rispecchiava le sue difficoltà nel differenziare fra il sé e l’oggetto (Atwood e Stolorow, 1979; trad. mia).

«Io sto seduto sulla cima di questa pietra, e la pietra è sotto», ma anche la pietra potrebbe dire «io» e pensare: «Io sono posata su questo pendio ed egli è seduto su di me». Allora sorgeva il problema: «Sono io quello che e seduto sulla pietra, o io sono la pietra sulla quale egli siede?»... La risposta era tutt’altro che chiara... [ma] non nutrivo dubbi che la pietra fosse in qualche oscuro rapporto con me (Jung, 1961:39).

A Jung veniva voglia di andare sulla pietra, soprattutto quando si sentiva confuso e in conflitto per via del suo interminabile rimuginare sulle rivelazioni segrete della sua prima infanzia (il gesuita, il mangiatore di uomini, ecc.). Egli spesso sentiva un gran desiderio di comunicare le sue esperienze a qualcuno e interrompere l'isolamento psicologico nel quale lo avevano precipitato i suoi segreti. Allo stesso tempo, tuttavia, temeva che mostrare i suoi pensieri segreti lo avrebbe esposto all’incomprensione e al trauma del ridicolo (Atwood e Stolorow, 1979:88; trad. mia).

Queste premesse precoci proiettano una luce molto significativa su tutta l’opera di Jung. Consideriamo, per esempio, la scelta di analizzare le fantasie e i sogni di miss Miller, per spiegare il proprio punto di vista sulla psiche e contrapporlo a quello di Freud. Era questa una ragazza gravemente schizoide che Jung non incontrò mai di persona. Nelle quasi 500 pagine a lei dedicate in Simboli e trasformazioni della libido vediamo dispiegarsi il farraginoso labirinto fantastico, o gorgo, nel quale, di lì a poco, si sarebbe completamente smarrita la mente della poveretta. Se Jung fu capace di riconoscere così a colpo sicuro le avvisaglie di un ritiro senza ritorno, fu perché conosceva bene, per esperienza diretta, le vie insidiose e forse anche le seduzioni che conducono verso la creazione di universo autistico, attraverso il distacco dalla realtà condivisa. Jung profetizzò senza esitazione la schizofrenia di miss Miller, che in effetti si manifestò pochi anni più tardi.
Tornando alla storia precoce di Jung, proprio all’inizio dell’autobiografia egli ci riferisce un sogno molto impressionante che risale alla stessa età precoce dei suoi giochi solitari. In questo sogno fondamentale si esprime, a mio avviso, il nucleo infantile di un possibile processo psicotico futuro:

Pressappoco nello stesso periodo feci il primo sogno del quale riesco a ricordarmi, un sogno che mi avrebbe preoccupato per tutta la vita.
Presso il castello di Laufen, in posizione appartata, vi era la canonica; dietro, a partire dalla fattoria del sacrestano, si stendeva un grande prato: nel sogno mi trovai in questo prato. Improvvisamente scoprii, nel terreno, una fossa scura, rettangolare, orlata di pietra, mai vista prima; con curiosità mi avvicinai e mi sporsi per guardarvi dentro. Una scala di pietra conduceva giù; scesi, esitando per la paura, e in fondo trovai una porta ad arco, chiusa da una tenda verde, pesante, enorme, che pareva di broccato, molto sontuosa. Preso dalla curiosità di vedere che cosa potesse nascondere, la sollevai da una parte. Innanzi a me, nella luce incerta, vidi una stanza rettangolare, lunga circa dieci metri; il soffitto era a volta, di pietra sbozzata; il pavimento era lastricato, e al centro un tappeto rosso si stendeva dall’entrata fino a una bassa piattaforma, sulla quale si ergeva un meraviglioso trono d’oro, con sopra – ma non ne sono sicuro – un cuscino rosso. Era un trono splendido, un vero trono regale come in un racconto di fate! Sul trono c’era qualcosa, e a tutta prima pensai che fosse un tronco d’albero, di circa quattro o cinque metri d’altezza e cinquanta centimetri di diametro. Era una cosa immensa, che quasi toccava il soffitto, composta stranamente di carne nuda e di pelle, e terminava in una specie di testa rotonda, ma senza faccia, senza capelli e con un solo – proprio in cima – unico occhio, che guardava fisso verso l’alto.
La stanza era sufficientemente illuminata, sebbene non vi fossero finestre e non si vedesse alcuna sorgente di luce; comunque al di sopra della testa vi era un’aureola luminosa. Quello strano corpo non si muoveva, eppure io avevo la sensazione che da un momento all’altro potesse scendere dal trono e avanzare verso di me strisciando come un verme. Ero paralizzato dal terrore, quando sentii la voce di mia madre, proveniente dall’esterno, dall’alto della stanza, che diceva “Sì, guardalo! Quello è il divoratore di uomini!” ciò mi spaventò ancora di più, e mi svegliai in un bagno di sudore, con una paura da morire. Per molte notti poi ebbi paura di andare a dormire, temendo di poter avere un altro sogno simile (Jung, 1961:30-31).

Questo bambino molto fantasioso, che viveva in una pericolosa dimensione d’isolamento psicologico, cade come Alice dentro al buco di un mondo immaginario, dove potrebbe rinchiudersi per sempre. Fortunatamente c’è una mamma da qualche parte che non è totalmente distratta e lo richiama alla realtà. Il punto è che, attorno a questo nucleo di fascino e di paura, Jung cominciò a costruire tutto il suo sistema di pensiero. Ci tornò sopra infinite volte durante la sua vita. Pensò che il fallo fosse una divinità sotterranea da non nominare, che la luminosità che ne circondava la cima fosse connessa con l’etimologia della parola fallo (falòs = lucente, splendente), e a un certo punto, molti anni più tardi, si convinse che avesse a che fare con il motivo del cannibalismo sacro, insito nel simbolismo dell’eucaristia… e alla fine trasse queste conclusioni:

Con questo sogno infantile fui iniziato ai segreti della terra; ciò che avvenne allora fu una specie di seppellimento nella terra, e molti anni dovevano passare prima della mia resurrezione. Oggi so che ciò avvenne affinché la massima luce si facesse nell’oscurità. Fu una sorta d’iniziazione al regno delle tenebre: la mia vita intellettuale ebbe le sue inconsce origini in quell’epoca (Jung, 1961:34).

Quello che Jung intende dire è che quell’esperienza onirica gli fece capire che esiste un mondo di significati eterni, che concretamente abita dentro di noi a nostra insaputa: significati che possono risucchiarci e dissolverci o, viceversa, che noi possiamo riconoscere e fare nostri con il risultato di arricchire la nostra consapevolezza e di salvare la nostra vita.
Riguardo alla dimensione particolare nella quale si è svolta l’infanzia di Jung, mi pare interessante riferire quanto dice Franco De Masi, noto studioso psicoanalitico della psicosi:

La mia ipotesi è che lo stato psicotico rappresenta lo sviluppo estremo di una condizione iniziata nell’infanzia e in cui il bambino ha cominciato a vivere in un mondo parallelo, creato nella fantasia e mantenuto segreto, che lo ha reso solo superficialmente capace d’interagire con il mondo circostante. (…) È da questa realtà dissociata che trarrà alimento la parte psicotica della personalità, destinata a prendere il comando nel corso dello sviluppo (De Masi, 2010).

Dopo la separazione da Freud, cominciò per Jung un periodo d’incertezza e disorientamento. Era perseguitato da fantasie paurose di cadaveri nel forno crematorio, che poi erano ancora vivi. Fece sogni inquietanti che lo riportavano indietro nei secoli e riprese intenzionalmente i giochi con le pietre che faceva da bambino. In riva al lago trovò

un frammento di pietra levigato dall’acqua […] Appena vistolo, capii che doveva essere un altare. Sistemai la pietra al centro, sotto la cupola, e il quel momento mi ricordai del fallo sotterraneo sognato da bambino e provai un senso di sollievo.
Si scatenò un flusso incessante di fantasie […] ero inerme di fronte a un mondo estraneo, dove tutto appariva difficile e incomprensibile[…] annotai le mie fantasie come meglio potevo […] Per prima cosa esponevo le fantasie come le avevo osservate, di solito in un “linguaggio elevato”, poiché questo corrisponde allo stile degli archetipi. Gli archetipi parlano un linguaggio patetico e perfino ampolloso. Uno stile che mi riesce fastidioso e mi dà ai nervi, ma poiché non sapevo di cosa si trattasse, non avevo altra scelta che scrivere tutto nello stile voluto dall’inconscio stesso. A volte era come se lo udissi con le mie orecchie, a volte come se fosse sulla mia bocca e la mia lingua stesse formulando parole; di tanto in tanto mi coglievo a bisbigliare parole: sotto la soglia della coscienza era tutto un fermento di vita (Jung, 1961:204).

Questo rapporto d’intimità con la patologia grave orientò inequivocabilmente Jung verso un modello di terapia diverso da quello di Freud: per Jung fu istintivamente ovvio interpretare la malattia come debolezza strutturale dell’io e arresto o deragliamento evolutivo, piuttosto che conflitto fra pulsione e difesa. La teoria della cura come ripresa dello sviluppo interrotto avvicina una volta di più Jung a Winnicott e a Kohut. Ma Jung fu il primo, in psicoanalisi, ad esserne assertore convinto.
In conclusione, Jung fu contemporaneamente un “iniziato” ai misteri, un esoterista che si rivolge all’inconscio come a una forma di saggezza oracolare e anche un pensatore scientifico in anticipo sui tempi. Era convinto che l’inconscio svolgesse una funzione di compensazione nei confronti della coscienza e che avesse il potere di orientare lo sviluppo della personalità verso l’arricchimento e la guarigione, perciò interpretava i sogni in senso prospettico e andava a cercare in essi i semi di uno sviluppo futuro.
Il metodo più caratteristico di Jung, soprattutto dalla sua crisi in poi, fu quello di individuare delle tipiche personalità separate nelle immagini dei sogni, delle fiabe e dei miti, alle quali dette nomi pittoreschi: Ombra, Persona, Anima-Animus, Puer-Senex, ecc. Pensava di avere così identificato i “complessi” della psiche, personalità parziali nelle quali la personalità totale tende a scomporsi per l’azione degli archetipi dell’inconscio collettivo. A volte Jung incoraggiava i pazienti a stabilire un dialogo immaginario con questi personaggi, nella convinzione che si potesse imparare da essi, cioè direttamente dall’inconscio, personificato in quelle figure, ciò che era necessario sapere per procedere all’integrazione della propria personalità. Paradossalmente, si cercava di creare l’integrazione, praticando la dissociazione.
A pensarci bene, mantenendo questa fede in una realtà separata e credendo di poter attingere salvezza e salute mantenendosi a cavallo di due mondi, Jung incarnò davvero un archetipo, quello dello sciamano che è sopravvissuto alla propria malattia ed ha tratto da essa una straordinaria capacità di aiutare gli altri.

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[1] “Espedienti” li chiama Bateson nel saggio citato.
[2] “Introspezione vicariante” significa ricordare o ricreare dentro di sé per mezzo dell’immaginazione un’esperienza simile a quella di cui l’altro ci parla, per metterla poi alla prova attraverso la risonanza: se l’altro si sente capito, vuol dire che abbiamo messo al suo servizio la nostra capacità d’introspezione e in questo senso, secondo Kohut, l’empatia è un metodo conoscitivo.