Il pensiero di Jung è particolarmente accattivante per chi sia in cerca di
un significato spirituale e senta il bisogno di un’apertura d’orizzonte, ma,
come vedremo, esso è anche “insidioso”, per tutti gli elementi di scienza,
magia e religione, affastellati nella struttura di in un vasto e disorientante
edificio di stile barocco. Risulta ormai comunemente accettato che non esiste
un discorso “vero” sulla realtà delle cose e che qualsiasi disciplina produce
narrazioni che consistono in un complesso articolarsi di metafore verbali, ma
quello che è necessario mantenere è la consapevolezza dei presupposti che caratterizzano
ogni diversa disciplina, altrimenti rischiamo la confusione delle lingue,
rischiamo di produrre oscurità, piuttosto che chiarezza.
La psicologia di Jung ci riporta a Platone, perché ci guida a leggere
questo mondo imperfetto della vita di ogni giorno alla luce di un mondo
perfetto che occhieggia da dietro le quinte, un mondo dove tutto torna ed è
straordinariamente ricco di senso. Come dire che l’avventura della nostra vita
consiste nel tentativo compiuto dalle idee (che Jung chiama “archetipi”) di
accedere alla dimensione spazio-temporale, dove vale il principio di non
contraddizione e le cose non possono mai risultare perfette. Alla luce di
questa prospettiva spiritualistica perfino il male, nella psicologia analitica
di Jung entra in un rapporto geometrico con il bene e lo fa quadrare: egli,
infatti, elaborò una spiegazione per cui il diavolo, aggiunto alla trinità
cristiana, ricrea una quaternità, cioè la totalità, la forma perfetta.
Secondo Jung, le fiabe, i miti e i sogni sono “veri”. Non parlano in
maniera cifrata delle solite cose della vita d’ogni giorno – o meglio delle
cose della vita d’ogni giorno di cui non vorremmo sentir parlare, ma che pure
sono alla base degli inciampi e dei tormenti che apparentemente ci cadono
addosso dal cielo, come aveva suggerito Freud – parlano invece dell’altro lato
della realtà, quello “vero”.
Se rifletto su ciò che finora ho scritto, il mio pensiero va a Winnicott,
un altro grande della psicoanalisi: egli insisteva sulla necessità
dell’illusione, lo spazio privato del sé, lo sdoppiamento di “vero Sé” e “falso
Sé”, l’intraducibilità del nucleo fondamentale del Sé. Entrambi questi due creatori
di psicologia avevano in comune la convinzione che l’inconscio fosse molto più
del deposito del rimosso: per loro era evidente che l’inconscio agisce, pensa,
crea, genera il nuovo e ci dà il senso della spontaneità e della vita piena, e
Jung ha preceduto Winnicott di almeno 30 anni.
Per distinguere l’inconscio junghiano da quello freudiano, si potrebbe partire
dall’esperienza che facciamo quando improvvisamente ci troviamo a vivere un inaspettato
avvicinamento della coscienza e dell’inconscio. La cosa strana consiste nel
fatto che tale fenomeno non solo viene diversamente interpretato ma anche
diversamente vissuto da chi ne fa esperienza nelle due diverse prospettive
psicologiche! Si tratta di una faccenda un po’ spiazzante, perché ci
aspetteremmo di avere a che fare con due letture psicologiche diverse che
focalizzino comunque una realtà esperienziale unica. Fatto sta che per Freud quando l’inconscio si
avvicina alla coscienza abbiamo il senso del “perturbante”, per Jung del
“numinoso” e non si tratta soltanto di due parole diverse.
Il perturbante, dice Freud, «appartiene alla sfera dello spaventoso, di ciò
che ingenera angoscia e orrore» (Freud, 1919). Egli sostiene che «qualunque
tipo di emozione viene trasformata in angoscia, qualora abbia luogo una
rimozione… l’elemento angoscioso è qualcosa di rimosso che ritorna» (ibid).
E ancora: «il perturbante… si verifica quando complessi infantili rimossi sono
richiamati in vita da un’impressione, o quando convinzioni primitive superate
sembrano aver trovato una nuova convalida» (ibid).
Per Jung, invece, il numinoso segnala l’avvicinamento di un archetipo alla
coscienza: «Dirò subito che la mia concezione si differenzia fondamentalmente
dalla teoria psicoanalitica in quanto io attribuisco alla madre personale
un’importanza solo limitata. E cioè: a svolgere sulla psiche infantile tutti
gli effetti descritti dalla letteratura non è tanto la madre personale, quanto
piuttosto l’archetipo su di lei proiettato, che le conferisce uno sfondo
mitologico e la investe di autorità e numinosità» (Jung, 1938).
Gli archetipi sono per Jung degli organizzatori psichici che agiscono
nell’inconscio di ogni essere umano, a prescindere dalla sua storia personale,
sono i significati fondamentali della vita. Gli archetipi non sono né buoni, né
cattivi, ma con essi possiamo avere un buon o un cattivo rapporto. Possiamo
soccombere agli archetipi, se la nostra personalità è debole o, viceversa, li
possiamo integrare, possiamo avvalerci della forza vitale che da essi promana.
Diventare se stessi implica prendere una posizione unica e personale verso gli
archetipi, in modo da interpretarne qualcuno in maniera non stereotipata ma
originale e creativa. Non basta essere severi e tirannici per essere dei padri
validi: nell’essere così si è piuttosto posseduti dall’archetipo paterno, come
il burattinaio Mangiafuoco nella fiaba di Pinocchio. Così come non basta essere
accoglienti per essere delle madri valide. L’essere un contenitore, un vaso, è semplicemente
un aspetto dell’archetipo materno.
Per tornare al perturbante, esso rappresenta, in poche parole, l’emozione
che proviamo quando uno scheletro esce dall’armadio, mentre il numinoso è il
timor di dio, l’emozione quasi sopraffacente e reverenziale che proviamo di
fronte a qualcosa che ci sovrasta, perché è enormemente più grande di noi. Di
tutto questo, comunque, ci occuperemo meglio in seguito, quando parleremo del
ruolo importantissimo attribuito da Jung all’esperienza del numinoso, in
relazione al cambiamento promosso dalla psicoterapia.
Non si può tracciare un quadro introduttivo al pensiero di Jung, per quanto
sommario, senza accennare al “processo d’individuazione”. Si tratta di un
elemento talmente fondamentale, da fare ritenere a più di uno studioso che la
psicologia di Jung si sarebbe dovuta chiamare “psicologia del processo
d’individuazione” e non psicologia analitica, come poi è stato. Infatti, quella
di Jung è la meno analitica di tutte le psicologie del profondo, proiettata
com’è in avanti, verso la “sintesi degli opposti” e lo sviluppo della personalità,
in una direzione costruttiva e “salvifica”, oltre che salutare, con la
convinzione piuttosto idealizzante che, procedendo per questa via, tutto si
risolva e, in un certo senso, si possano curare tutti i mali.
Anch’io riconosco il valore del mettersi in gioco, del coraggio, delle
peripezie, dei rischi e del raggiungimento, sempre parziale, sempre in corso
d’opera, com’è ovvio, di quella realizzazione di sé o “realizzazione del Sé”
che Jung considerava essere la meta del “processo d’individuazione”. Però, a
pensarci bene, è ben diverso dire “realizzazione di sé” o “realizzazione del
Sé”. Con la seconda espressione si compie una concretizzazione e
un’idealizzazione del termine, connotata quest’ultima dall’uso di mettere
l’iniziale maiuscola alla parola, creando in questo modo una sorta di
personaggio misterioso, l’archetipo più importante di tutti, un Cristo o un
Buddha interiori, o più ironicamente un supereroe nascosto dentro di noi, che
conosce il segreto della guarigione psichica.
C’è qualcosa di notevolmente consolatorio nel concetto junghiano di
realizzazione del Sé, la costruzione della “personalità totale” che,
«perseguita o tradita, interrotta o ripresa, costituisce l’avventura
esistenziale dell’essere umano ed illumina interiormente di significato tutta
la sua vita» (Jung, 1961). L’aspetto consolatorio deriva dal riferirsi a un
piano trascendente, precostituito nelle sue linee essenziali, che toglie dalle
nostre spalle una gran parte di quell’angoscia esistenziale che, viceversa,
diventa grandissima nell’opposta prospettiva filosofica, quella di essere noi i
creatori di noi stessi, come nell’esistenzialismo di Sartre. Il prezzo di
collocare il senso dell’esistenza in una dimensione trascendente, però, è
quello di attribuire a noi stessi una posizione minoritaria, un ruolo di eterni
allievi dell’inconscio, che devono imparare e mettere in pratica una lezione
che viene perennemente insegnata da un misterioso maestro interiore. Si tratta
a tutti gli effetti, di una posizione di fede. Non a caso, Jung scolpì con le
sue stesse mani la seguente frase sull’architrave della porta d’ingresso di
casa sua: “Vocatus atque non vocatus, deus aderit”:
Altrettanto significative sono le parole con le quali fece cominciare la
sua autobiografia:
«La mia vita è la storia di un’autorealizzazione dell’inconscio.
[…] Che cosa noi siamo per la nostra visione interiore e che cosa l’uomo
sembra essere sub specie aeternitatis, può essere espresso solo con
un mito. […] La scienza si serve di concetti troppo generali per poter
soddisfare alla ricchezza soggettiva della vita singola.
Ecco perché, a ottantatrè anni, mi accingo a narrare il mio mito personale.
Posso fare solo dichiarazioni immediate, soltanto “raccontare delle storie”; e
il problema non è quello di stabilire se esse siano o no vere, perché l’unica
domanda da porre è se ciò che racconto è la mia favola,
la mia verità» (Jung, 1965, p. 21).
Non è difficile cogliere, già in queste poche affermazioni, la presenza dei
punti fondamentali del pensiero junghiano, sui quali ho già richiamato l’attenzione
del lettore. Il primo consiste nella ferma convinzione di Jung riguardo alla
duplicità del soggetto in noi, dovuta al fatto che, per lui, anche l’inconscio
è un capace di pensare e di decidere, e non solo l’io. Jung riferisce, a questo
proposito, di una propria precoce consapevolezza che esisteva già, in forma
istintiva, molto prima di avere sviluppato la capacità di rifletterci sopra in
maniera più articolata:
«sapevo da sempre di avere due personalità: una era il figlio dei miei
genitori, che frequentava la scuola ed era meno intelligente, attento,
volenteroso, decente e pulito di molti altri ragazzi; l’altra era adulta – in
realtà già vecchia – scettica, sospettosa, lontana dal mondo umano ma vicina
alla natura, alla terra, al sole, alla luna e a tutte le creature viventi.
(…) Il gioco delle parti fra la personalità numero 1 e la numero 2, che si
è protratto per tutta la mia vita (…) si verifica in ogni individuo. Nella mia
vita la numero 2 ha avuto una parte di primo piano, e ho sempre cercato di fare
posto a tutto ciò che mi fosse imposto dall’intimo» (Jung, 1965: 64-65).
Questa duplicità riverbera anche nella teoria dell’individuazione, per cui,
in un’opera della maturità Jung afferma:
«Distinguo fra l’Io e il Sé, in quanto l’Io è solo il soggetto della mia
coscienza consapevole, mentre il Sé è il soggetto della mia psiche totale,
quindi anche di quella inconscia. In questo senso il Sé sarebbe un’entità
(ideale) che include l’Io» (Jung, 1922).
Per inciso, il fatto che per Jung anche l’inconscio sia una forma di coscienza
rende molto moderno il suo pensiero e lo avvicina alle posizioni che gli
psicoanalisti relazionali hanno attualmente elaborato, nel tentativo di mettersi
al passo con le recenti acquisizioni dell’infant research. Mi riferisco
all’enorme rivalutazione della coscienza procedurale che non serve solo per aiutarci
ad andare in bicicletta, ma sta alla base di tutte le nostre competenze
relazionali ed è come “la mano nascosta che organizza l’esperienza”, per
mutuare la bella espressione di Lakoff e Johnson (i quali si riferiscono con
questa all’inconscio cognitivo, che basilarmente funziona attraverso metafore
primarie sensomotorie).
Al tema della soggettività dell’inconscio, al convincimento che anche
l’inconscio pensa, si collega la particolare importanza attribuita da Jung al
mito, al sogno e alla fiaba, considerati come espressione di quell’altra luce,
dell’inconscio stesso inteso come una forma di coscienza che si esprime in
forma metaforica, non completamente razionalizzabile e non riducibile al modo
logico e riflessivo di pensare che è caratteristico della coscienza consapevole
di sé.
Un secondo punto fondamentale che ritroviamo nella citazione di Jung
corrisponde a quella forma d’inesauribile di saggezza del mondo interiore, alla
quale potremmo liberamente attingere, a patto di riconoscere l’inconscio stesso
come nostro maestro e guida spirituale.
Proprio nel momento in cui scrivo queste riflessioni mi accorgo che è
uscito un film sulla vita di Steve Jobs. Ricordo di avere letto un paio d’anni
fa una breve autobiografia di lui, sorta di testamento spirituale, scritto
prima della morte, che sembrava il manifesto del principio di individuazione
secondo Jung. Prima egli buttò a mare l’università e si mise a costruire novità
tecnologiche rivoluzionarie nel garage di casa, poi si fece cacciare dalla
propria azienda, poi riconquistò il proprio potere, poi intraprese un
drammatico corpo a corpo con la malattia, ogni volta incarnando, per usare la
terminologia junghiana, l’archetipo dell’eroe che lotta contro il drago, cioè
l’emblema dell’individuazione. Ricorderete tutti la celebre chiusura del suo
scritto: «stay hungry, stay foolish!». Cosa c’è di più ammirevole del
mito americano del pioniere che crea nuova civiltà a partire soltanto dalla
natura selvaggia? Jobs, però, diceva anche che la gente non sa ciò che vuole,
finché non glielo spiega un illuminato come lui. L’individuazione junghiana per
molti aspetti è un atteggiamento prometeico, una hybris che in
alcuni rari casi, come nel caso di Jung o di Jobs, può conferire grande
successo al protagonista della storia, ma più spesso dà luogo all’esclusione,
allo smarrimento e all’angoscia. Oggi siamo anche troppo fortunati, se ci
paragoniamo con i secoli passati, quando pensare con la propria testa ed avere
una mente creativa poteva anche significare la proscrizione, per non dire il
rogo.
Jung raffigurava l’individuazione come la lotta dell’eroe contro il drago,
perché la spinta evolutiva era da lui attribuita unicamente al singolo, mentre
l’ambiente nel quale il singolo si muoveva era da lui concepito come punto di
partenza, dimensione naturale dalla quale emanciparsi per non finire omologati
nella mentalità e nell’inconscio collettivi. Oggi però siamo in grado di
concepire una diversa logica evolutiva che non separa più individuo e ambiente
in maniera così contrappositiva. Nella prospettiva di Oyama, per esempio, la
contrapposizione nature-nurture è un falso ideologico dal
quale cominciamo appena e molto faticosamente a emergere:
«Quando si considera l’interazione costruttiva di fondamentale importanza
nella formazione (non solo nel sostegno) di tutti i caratteri, compresi quelli
biologici, allora il ruolo dell’ambiente non è complementare a quello della
biologia, ma è costitutivo proprio come lo sono i geni» (Oyama, 1998).
In che modo questa diversa concezione dell’individuo e del suo rapporto con
l’ambiente potrà riverberare in psicologia e in che modo potrà cambiare la
percezione della fatica e della gioia di diventare più autenticamente e
pienamente se stessi?
Le due forme del pensare
Il primo capitolo di Simboli e trasformazioni della libido,
prima opera junghiana di Jung, pietra miliare che segnò nel 1913, cioè ormai
più di cento anni fa, la separazione definitiva da Freud, è un piccolo trattato
metodologico, dove si teorizza che i modi di pensare sono due: quello logico,
analitico e riflessivo e quello sintetico, immaginativo e intuitivo.
Quando, negli anni successivi, Jung si appassionerà all’alchimia, dirà che
i due “luminari” dell’astrologia, il sole e la luna, corrispondono a queste due
modalità complementari del pensiero.
La luce del “sole” è univoca e potentemente definitoria, perché separa
nettamente gli oggetti che illumina dalle loro ombre, impenetrabilmente
oscure, mentre la luce
della “luna” non è solo più debole, ma presenta la particolarità di illuminare
gli oggetti osservati senza fissarli nella loro spietata oggettività: li lascia
nella penombra, cioè in parte non conosciuti, e li lascia vivi, anzi esercita
un’azione favorevole sui cicli della loro vita. Potremmo dire che la luna, a
differenza del sole, svolge un’azione “empatica” su ciò che illumina, motivo
per cui il poeta, al contrario dello scienziato, si sente più facilmente in
accordo con la luna che non col sole. Pensate poi alla circostanza
straordinaria, per cui il ciclo mestruale si è sincronizzato nel corso
dell’evoluzione con il ciclo lunare, creando un legame impressionante fra la
fertilità femminile e la luna.
Winnicott ha molto insistito in relazione alla cautela che si deve avere quando
ci si avvicina allo “spazio privato del sé”. Secondo lui, c’è un nucleo vitale
della nostra soggettività che non deve essere illuminato,
dev’essere accolto ma non analizzato. Anche altri “maestri” di scuola non
winnicottiana si raccomandano molto che le interpretazione che diamo ai nostri
pazienti siano “insature”, per non bloccare il processo che la psicoterapia
dovrebbe avere messo in moto nel loro inconscio: primo fra tutti, mi viene in
mente Antonino Ferro. Questi sostiene che, giocando sul filo delle
interpretazioni insature, si «attiva un processo di “trasformazione
co-narrativa” che avviene in tempo reale» (Ferro, 2010, p. 34).
Si tratta di sviluppare il grado di oniricità della seduta, in modo che il
paziente possa introiettare il funzionamento onirico. Non possiamo cambiare
direttamente né la storia di una persona, né il suo mondo interno, ma solo
aiutarla a sviluppare la sua capacità di sognare. Paradossalmente, però,
aumentare la capacità di trasformare la sensorialità in immagini comporta
l’immissione di nuove immagini nel mondo interno e in questo modo si cambia
anche la storia. Anche la storia può essere riabitata in modo diverso» (Ferro,
2010, p. 38).
Kohut, a sua volta, distingueva tra comprendere e interpretare e giunse ad
ammettere (a malincuore) che l’empatia, da lui intesa primariamente come un
metodo osservativo attraverso immedesimazione con l’altro, neutro in quanto
tale, svolge di per sé un’azione terapeutica, senza necessariamente passare
attraverso la spiegazione e l’interpretazione.
Il sole, invece, rappresenta l’io eroico, maschile e attivo alla conquista
del mondo esterno. Il pensiero solare è la spiegazione riduttiva, che procede attraverso
nessi di causa ed effetto, quella che tenta di chiarificare l’inconscio
ordinandone i contenuti mediante catene associative lineari e riconducendolo ad
una spiegazione semplice. La celebre affermazione freudiana, «Wo es war,
soll ich werden», esemplifica al massimo grado questa posizione nei
confronti della psiche.
Il pensiero lunare rispetta la complessità e non pretende di risolverla in
formule. Si orienta attraverso il precetto ermetico che si esprime con il motto
dal significato del tutto opposto: ignotum per ignotius, che vuol
dire spiegare l’ignoto per mezzo di ciò che è ancora più ignoto. In
psicoterapia, ciò corrisponde al tentativo di non risolvere le tematiche
dell’inconscio riportandole al semplice, ma di comprenderle nella loro complessità
e articolata unicità. Comprendere se stessi, secondo Jung, significa portare a
coscienza il proprio “mito personale”, aiutati anche dalla conoscenza delle
religioni, dei miti e di tutte le narrazioni letterarie nelle quali ci possiamo
riconoscere; mito personale dal quale non possiamo semplicemente evadere
chiarendolo (luce solare), ma che dobbiamo piuttosto vivere, svolgere e
fare evolvere.
Come Jung è partito dai due modi di pensare, Kohut è partito da una
affermazione di metodo molto simile, marcando, o forse bisogna dire concretizzando,
la contrapposizione fra mondo interno e mondo esterno, come se davvero fossero
due ambiti separati del reale. Nel saggio sull’empatia del 1959, il quale a sua
volta è la prima opera veramente kohutiana di Kohut (Kohut, 1959), egli afferma
categoricamente che, così come percepiamo il mondo esterno attraverso gli
organi di senso, altrettanto percepiamo il mondo interno attraverso una sorta
di altro organo di senso che è l’introspezione. Da qui il discorso dell’empatia
come introspezione vicariante[2], che definisce il campo
della psicoanalisi e consente tutta una costruzione coerente della psicologia
del sé. Inoltre, Kohut, come Jung, ha sviluppato la concezione degli “stati
mentali complessi”. Da questo punto di vista i contenuti del mondo interiore
che conosciamo attraverso l’empatia rappresentano una realtà
psicologica primaria, non scomponibile e non riducibile, mentre
alle pulsioni viene assegnato lo status secondario di “prodotti di
frammentazione”.
«Nel paradigma della psicologia del Sé con il termine “Sé” ci si riferisce
alla vita mentale dell’esperienza soggettiva della persona; e si ritiene che
essa è costituita da stati mentali complessi che vanno capiti così come sono,
senza ridurli ai loro componenti elementari... Secondo Kohut gli stati mentali
complessi sono le configurazioni psicologiche primarie. Al di sotto di tali
configurazioni psicologiche non esiste altro se non i prodotti della
disintegrazione di esse... Detto più semplicemente... si adotta un procedimento
olistico. Mentre le pulsioni possono essere studiate oggettivamente,
gli stati mentali complessi, non ridotti ad altro di più elementare, possono
logicamente essere studiati e capiti soltanto mediante l’introspezione e
l’empatia» (Ruggiero, 1996: 20).
Già Jung aveva inventato i “complessi”: configurazioni psicologiche, che
sono conoscibili solo metaforicamente, con metodo fenomenologico ermeneutico,
non riduttivo. I complessi, secondo Jung, sono personalità parziali nelle quali
tende a scomporsi la personalità totale nelle condizioni di sofferenza
psicologica. Le linee di frattura, in corrispondenza delle quali la personalità
tende a frammentarsi, sarebbero determinate dall’attrazione magnetica degli
archetipi. Dietro al complesso materno starebbe l’archetipo della madre, dietro
a quello paterno l’archetipo del padre e così via. Questa spiegazione appare
piuttosto tautologica e costituisce, a mio vedere, un aspetto debole del
pensiero di Jung. Infatti, l’archetipo, inconoscibile di per se stesso in quanto
abitatore di una dimensione trascendente, trova la sua giustificazione per via
degli effetti che produce sulla psiche. Nello stesso tempo, però, determinate
condizioni patologiche della psiche trovano la loro causa nell’influsso degli
archetipi che agiscono emanando il loro influsso da quella posizione
trascendente…
A proposito delle due forme del pensare, voglio citare lo stesso Jung,
nell’opera citata, pietra miliare del suo pensiero:
«Il pensare indirizzato o, come potremmo anche chiamarlo, il pensare con
parole è manifestamente lo strumento della cultura, e non andiamo
errati quando diciamo che il poderoso lavoro educativo che i secoli hanno
accordato al pensare indirizzato, svincolandolo in maniera originale dalla
sfera individuale-soggettiva, ha costretto lo spirito umano a un lavoro di
adattamento al quale dobbiamo l’empirismo e la tecnica moderni, fenomeni
assolutamente inediti nella storia del mondo e ignoti ai secoli precedenti.
(…) Un allentamento dell’interesse, una lieve stanchezza sono sufficienti
ad annullare l’esattezza dell’adattamento psicologico al mondo della realtà.
(…) ci allontaniamo dal tema, ci abbandoniamo completamente ai nostri pensieri;
se il rilassamento dell’at-tenzione si fa più forte, perdiamo a poco a poco
coscienza del presente e la fantasia prende il sopravvento.
A questo punto, s’impone la domanda: qual è la natura di queste fantasie?
(…) Il pensare non indirizzato è in sostanza motivato soggettivamente e, a
dire il vero, molto meno da moventi coscienti che da moventi inconsci. Per
certo esso produce un’immagine del mondo differente da quella del pensare
indirizzato cosciente. Non esiste però un motivo fondato per supporre che sia
solo una deformazione dell’immagine oggettiva del mondo.
(…) Le basi inconsce dei sogni e delle fantasie sono soltanto in apparenza
reminiscenze infantili. In realtà si tratta di forme di pensiero primitive o
arcaiche (…) anche il mito, basato egualmente su processi inconsci di fantasie,
non è assolutamente infantile quanto a significato, contenuto e forma; né è
espressione di un atteggiamento autoerotico o autistico, anche se dà origine a
un’immagine del mondo che si adatta a stento alle nostre opinioni razionali e
oggettive» (Jung, 1913: 30-42).
Quando rileggo Jung, a distanza di tanti anni dal mio allontanamento, prima
in direzione di Kohut e poi per approdare alla psicoanalisi relazionale, mi
capita ancora oggi di restare ammirato e meravigliato di fronte ad alcuni
passaggi. L’espressione “Il pensare indirizzato o, come potremmo anche chiamarlo,
il pensare con parole” e la contrapposizione di questa forma di
pensiero a quella tipica delle fantasie e dei sogni, risulta, a distanza di un
secolo, come una distinzione incredibilmente appropriata. Essa individua con
ammirevole esattezza la differenza fra la coscienza narrativa che segue
determinate regole logiche e il livello procedurale di elaborazione del
pensiero che funziona secondo esperienza, condizionamento, principi
organizzatori inconsci ecc., ma alla chiarezza scientifica di oggi siamo
arrivati attraverso il lavoro sperimentale dell’infant research, la
psicoanalisi relazionale, la neurofisiologia di Edelman e l’impostazione
filosofica interazionista e costruttivista di Bateson, di Morin e di Oyama,
solo per citare alcuni nomi e alcuni passaggi di un percorso molto attuale e
ancora in via di elaborazione.
Freud criticava Jung di non accontentarsi di fare lo psicoanalista, ma di
voler fare il profeta e adesso, per certi aspetti, scopriamo che per davvero
era portatore di una visione profetica della psicologia del profondo! Aveva già
scoperto, con un secolo di anticipo rispetto a noi, l’enorme importanza
dell’inconscio non dinamico, da lui battezzato “inconscio collettivo”. Per
questo, Jung diceva che l’inconscio freudiano era solo il primo strato, non
tanto profondo, mentre il livello più importante dell’inconscio era per lui
l’inconscio originario, un livello arcaico di funzionamento della mente, dal
quale la coscienza non si è mai completamente differenziata.
Jung sosteneva che «Le basi inconsce dei sogni e delle fantasie sono
soltanto in apparenza reminiscenze infantili». A quanto pare, Jung aveva colto
proprio quel livello della mente di cui oggi tanto parliamo, che è capace di
auto-etero-organizzarsi e di elaborare l’esperienza a prescindere dalla nostra
consapevolezza riflessiva.
L’errore o meglio il limite fondamentale di Jung, dovuto anche al fatto che
egli era troppo in anticipo sui tempi, fu quello di non riuscire a collocare
questo livello della mente nella realtà incarnata dello scambio relazionale procedurale
che sottilmente e ininterrottamente si svolge fra l’uno e l’altro e fra il
soggetto e il mondo. Per Jung, l’inconscio si collocava, come ho già detto, in
una dimensione trascendente, mistica, ma anche “autistica”: abiterebbe infatti
dentro di noi e conterrebbe dei modi di funzionare, cioè di elaborare e di dare
significato all’esperienza, precostituiti e presenti fino dalla nascita,
ereditati non si sa bene come: per l’appunto, gli archetipi dell’inconscio
collettivo. Lo sviluppo della coscienza e della personalità, cioè il processo
d’individuazione, costituirebbe una potenzialità che richiede preparazione e
coraggio per essere attuata, ma rispetto alla quale il rapporto sociale avrebbe
solo un valore propedeutico, quando non fosse di impedimento e di ostacolo. Per
questo motivo tutto il pensiero di Jung ricade appieno sotto il fuoco della
critica che Atwood e Stolorow hanno rivolto al “mito della mente isolata”
(1992).
Una percezione completamente diversa dell’inconscio procedurale è quella
che ho incontrato diversi anni fa, a Milano, al primo seminario con George
Downing al quale ho avuto la fortuna di partecipare. Egli ci mostrò alcuni
filmati di video-micro-analisi, quelli che utilizza nella terapia della coppia
madre-bambino, dove lo scambio non verbale appare in tutta la sua rilevanza,
non appena siamo in grado di confrontare le immagini della loro interazione con
una scansione temporale inferiore al decimo di secondo. Ciò che mi dissi fu: ecco
il punto di contatto, dove psiche e nervi sono la stessa cosa. Non certo la
ghiandola pineale ipotizzata da Cartesio, ma nemmeno la misteriosa magia degli
archetipi dell’inconscio collettivo, bensì l’incessante flusso interattivo di
connessione non conscia e non verbale, con il continuo auto-etero-organizzarsi
delle strutture preriflessive. Tutto ciò si poteva toccare con mano, perché si
svolgeva davanti ai nostri occhi, con un grado di evidenza a dir poco
sconvolgente.
Per finire con le corrispondenze e gli accostamenti fra vecchio e nuovo e
per spiegare meglio in cosa consiste l’inconscio procedurale, devo dire che
trovo molto illuminante la distinzione fra coscienza primaria e coscienza
superiore prospettata da Edelman. La coscienza primaria è quella che si
realizza negli animali vertebrati, nei quali per la prima volta sono
disponibili le necessarie connessioni cerebrali (di rientro) per ritrovare di
fronte all’esperienza in corso la visione fantasmatica di ciò che in passato è
già accaduto.
Consideriamo allora un animale nella giungla che percepisce un cambiamento
nel vento e dei rumori insoliti sul far del crepuscolo. L’animale potrebbe
fuggire pur non esistendo evidenti pericoli. Cambiamenti del vento e rumori si
sono già presentati indipendentemente in passato, ma l’ultima volta che si sono
manifestati insieme è comparso un giaguaro: nella memoria di quell’individuo
cosciente esiste una connessione, anche se non si può dimostrare che sia
causale. […] l’animale in questione sta collegando eventi o segnali in una
scena complessa, costruendo relazioni basate sulla propria e unica storia di
risposte dipendenti-dal-valore. (Edelman e Tononi, 2000, p. 129).
Abbiamo improvvisamente a che fare con uno sdoppiamento della
realtà. La cosa più importante da considerare è che questo sdoppiamento,
ovvero riflessione, non avviene a livello di coscienza superiore
verbale, ma si realizza nel rapporto dell’animale vertebrato con il suo
ambiente. Questo fenomeno costituisce un
nuovo anello che s’inserisce nella ricorsività della danza relazionale, come
l’emergere di un livello di complessità assolutamente nuovo, caratterizzato dal
fatto che, a questo punto, gli eventi valgono non tanto per quello che
sono, ma soprattutto per quello che potrebbero diventare. Con una
progressiva acquisizione di competenza, questo livello primario di coscienza
che è ancora in presa diretta con i sensi e funziona in maniera estremamente
veloce diventa l’inconscio procedurale messo in luce dagli strumenti dell’infant
research.
Nel sogno viene riabilitata l’attività della coscienza primaria e con essa
l’azione di un intuito selvaggio che è capace di deviare le narrazioni della
coscienza superiore verso strade a noi generalmente precluse nella vita da
svegli. Per questo Ferro sostiene che la creatività della nostra mente
corrisponde alla capacità di sognare da svegli.
Per riprendere il discorso sul numinoso e riferirlo a qualcosa di più plausibile
da pensare piuttosto che gli archetipi, potremmo reinterpretarlo come il
sentimento di appartenenza-intrappolamento in quella rete in cui siamo presi
senza scampo, in quanto esseri viventi e coscienti: la danza relazionale di cui parlava Bateson, che corrisponde anche,
se vogliamo, all’intuizione religiosa che sta alla base del buddhismo, quella
dell’interdipendenza universale di tutti gli esseri e di tutte le forme. La
stessa intuizione si è affacciata in ambito filosofico, in contemporanea con
Jung, nella concezione husserliana di “mondo della vita”. Secondo Husserl, è
proprio perché siamo primariamente inseriti con la nostra vita nel mondo della
vita che possiamo dare un senso a tutto ciò che ha senso per noi.
Successivamente, Heidegger e poi Gadamer elaborarono il concetto di “circolo
ermeneutico” per spiegare come nasca la comprensione del senso in ambito
culturale. Nasce dal fatto che siamo già dentro alle cose, siamo già
primariamente dentro a una rete di nessi che ci rende “aperti al mondo”. Dice curiosamente
Gadamer: «i pregiudizi rappresentano le tendenza della nostra apertura al
mondo. Si tratta semplicemente delle condizioni attraverso cui sperimentiamo
qualcosa – attraverso cui ciò in cui ci imbattiamo ci dice qualcosa» (1960, p.
8). Per affermare poi che «ogni esperienza degna di tal nome si verifica in
opposizione alle nostre aspettative […] l’insight è qualcosa di più che non
conoscere perfettamente quella situazione o quell’altra. l’insight comporta
sempre la fuga da qualcosa che ci ha ingannati e ci ha tenuto prigionieri» (pp.
319-320). Questo paradosso dell’ermeneutica di Gadamer è un altro modo di
concepire il rapporto sinergico delle due coscienze di cui siamo fatti.
In definitiva, ciò che Jung, sulla scorta degli alchimisti, cercava di
ottenere attraverso la congiunzione di luna e sole era nientemeno che l’integrazione
della coscienza narrativa con la coscienza primaria: le due potenti forme del
pensare di cui siamo dotati e fatti, che possono contrapporsi e confliggere a
nostro danno o integrarsi a nostro favore.
A questo proposito, mi piace sempre citare un brano tratto dal Martin Eden
di Jack London, come esempio d’integrazione. L’esempio parla di Martin, il
protagonista del romanzo, un uomo in lotta con il contesto arcaico e
penalizzante nel quale è nato, tutto teso verso la conquista, nonostante tutto,
del proprio sviluppo culturale e intellettuale:
«Mentre il professore parlava, Martin si rese conto che gli venivano alle
labbra i versi del Canto degli Alisei […] Stava quasi per
sussurrarli, quando si rese conto all’im-provviso che l’altro gli ricordava gli
Alisei, quelli di nord-est in particolare, che soffiavano costanti, freddi e
forti. Era sincero, quel professore, e si poteva contare su di lui, eppure
c’era in lui qualcosa d’inafferrabile. Martin avvertiva che non diceva mai
tutto quello che pensava, proprio come gli Alisei, che non soffiano mai con
tutta la loro forza, ma sempre ne conservano da parte un poco. L’immaginazione
di Martin era viva come sempre e la sua mente un archivio di ricordi e
fantasie, dove si entrava con facilità e dove tutto era sempre messo in ordine,
pronto per venir ispezionato. Qualsiasi cosa gli accadesse a un dato momento,
la mente di Martin immediatamente gli presentava associazioni con antitesi e
similitudini che, di solito, prendevano forma di visioni. Era una cosa
praticamente automatica e la sua forza visionaria lo accompagnava, senza
cedimenti, attraverso la vita presente» (London, 1909, p. 272 della trad. it.).
L’ermeneutica di Jung
Per dimostrare in pratica come funziona il proprio metodo interpretativo,
da lui denominato “sintetico” (o “costruttivo”), Jung racconta il sogno di una
sua paziente:
La donna è in procinto di varcare un largo ruscello. Non ci sono ponti,
però riesce a trovare un punto adatto per passare dall’altra parte. Mentre sta
per farlo, un grosso granchio che sta celato nell’acqua l’afferra al piede e
non la lascia più. Si sveglia con una sensazione d’angoscia (Jung, 1917).
L’interpretazione freudiana, secondo Jung, ricondurrebbe il sogno al piano
dell’oggetto e il granchio rappresenterebbe l’abbraccio omosessuale dell’amica
che ha sostituito la madre nella vita della sognatrice. L’interpretazione
sintetica, invece, chiama più direttamente in causa il soggetto, o meglio il
“doppio soggetto”, il rapporto del soggetto con se stesso. La natura
dell’ostacolo da superare è spiazzante e terrorizzante, in primo luogo perché
si associa al cancro (si trattava, infatti, di una paziente inglese e in
inglese crab significa sia “granchio”, sia “cancro”).
L’attraversamento dell’acqua è una metafora ricorrente, che si trova anche
nell’I King, dove si parla spesso di “attraversamento della grande acqua”, come
necessità di un cambiamento radicale (simbologia di morte e rinascita, ecc.).
Ma questo attraversamento che significa un importante cambiamento risulta
impedito, secondo Jung, perché la sua paziente «partecipa ancora troppo poco
alla vita reale, per poter rischiare un capovolgimento del punto di vista»
(Jung, 1917). Con questa espressione Jung vuole dire la paziente è ancora troppo
“egoriferita”, riferita cioè soltanto all’ego della vita di ogni giorno e
insensibile nei confronti del Sé con la esse maiuscola, la grande persona che
costituisce l’altro soggetto, quello che vive nella prospettiva dell’eternità.
Per questo motivo, la donna non può ancora abbandonare il proprio atteggiamento
psicologico di attaccamento, per quanto disfunzionale esso sia ormai diventato
per lei.
Questo modo di vedere le cose, attraverso amplificazioni, piuttosto che
scomposizioni e associazioni, conduce progressivamente a sviluppare una specie
di “timor di dio”, quello appunto che Jung chiamava il sentimento del
“numinoso”. Il cancro costituisce una sorta di incubosa minaccia, rispetto alla
quale l’io è totalmente impotente, e va letta simbolicamente come lo scontro
con una volontà e una realtà psichica più forti della volontà e realtà
coscienti e non semplicemente la “scabrosità” dell’inconscio freudiano. L’io
cosciente da “tracotante” deve diventare “religioso”. Secondo Jung, in questo
modo possiamo accedere all’esperienza di un fondamento “trascendentale” che si
manifesta nell’intimo di noi stessi, un punto di riferimento per la costruzione
della personalità totale.
In questa prospettiva, il sogno non si limita a svelare un desiderio
omosessuale (del quale, fra l’altro, la paziente era perfettamente
consapevole), ma illumina di luce diversa il significato dell’esistenza
di quel desiderio. Secondo Jung, infatti, il suo metodo ci porta oltre
l’inconscio dinamico freudiano e ci consente di accedere all’inconscio
collettivo. Il granchio-cancro sarebbe la rappresentazione di un complesso,
creato dall’azione di un potente archetipo, l’archetipo materno, che domina e
blocca la vita psichica della paziente: l’angoscia da lei provata sarebbe una
percezione ancora confusa di questo tremendum.
Come si risolve il tremendum? Non si risolve: abbiamo piuttosto
a che fare con esso come gli antichi avevano a che fare con gli dei. Si
richiedeva un atteggiamento di venerazione e si supponeva che il dio arrabbiato
dovesse essere placato attraverso un’offerta, un sacrificio. Tradurre questo
compito nei termini psicologici odierni sarebbe lo scopo della psicoterapia,
quando abbiamo a che fare con i contenuti dell’inconscio collettivo. In altre
parole, non basta portare a coscienza l’inconscio, ma è la coscienza che deve
farsi umile ed iniziarsi ai misteri dell’inconscio, cioè farsi educare
dall’inconscio stesso.
Jung entrava dunque con venerazione nella dimensione dell’inconscio
collettivo, assumendone i contenuti dissociati come realtà di primo livello,
con l’intento di fondare su di essi l’edificio della propria psicologia.
Quando ancora mi riconoscevo come psicologo junghiano, mi divertii una
volta a riformulare la celebre auto-interpretazione freudiana del sogno
dell’iniezione a Irma, contrapponendo alla lettura freudiana quella che,
secondo me, poteva essere un’interpretazione junghiana. Oggi, a distanza di
molti anni, direi che la mia interpretazione junghiana era anche molto più
relazionale di quella freudiana.
Nel 1895, trovandosi momentaneamente ospite in una casa di vacanza, Freud
ebbe un sogno. Dopo averci parecchio rimuginato, comunicò per lettera le
proprie riflessioni all’amico Fliess e trionfalmente concluse:
«Non credi che su questa casa un giorno si potrà leggere questa lapide?
In questa casa il 24 luglio 1895
al dottor Sigmund Freud
si svelò il segreto del sogno»
Ed ecco, un po’ riassunto, il famoso Sogno dell’iniezione ad Irma:
Un grande salone, molti ospiti
che stiamo ricevendo. Tra questi, Irma, che prendo subito in disparte, come per
rispondere alla sua lettera
e rimproverarla di non accettare ancora la “soluzione”. Le dico: «Se hai ancora dolori è
veramente soltanto colpa tua». Lei
risponde: «Sapessi che dolori ho ora alla gola, allo stomaco, al ventre, mi sento tutta
stretta». Mi spavento
e la guardo: è pallida, gonfia. Penso: dopotutto forse non tengo conto di qualche cosa
di organico. La porto alla finestra
e le guardo la gola. Irma mostra una certa riluttanza, come le donne che portano la
dentiera. Penso che non ne ha proprio bisogno. La bocca poi si apre bene, e vedo a
destra una grande macchia
bianca e in un altro punto, accanto a strane forme increspate, che imitano evidentemente le
conche nasali, estese croste grigiastre. Chiamo subito il dottor M., che ripete la visita e conferma... Il
dottor M. ha un aspetto assolutamente
diverso dal solito: è molto pallido, zoppica, non ha barba al mento... Anche il mio
amico Otto si trova ora accanto
a Irma e l’amico Leopold la percuote sul corsetto e dice: «C’è una zona di ottusità in
basso a sinistra»; e indica inoltre un tratto di cute infiltrato sulla spalla
sinistra (cosa che anch’io
sento, nonostante il vestito)... M. dice: «Non c’è dubbio, è un’infezione; ma non importa;
sopraggiungerà una dissenteria
e il veleno sarà eliminato...». Inoltre sappiamo subito da dove proviene l’infezione.
Qualche tempo fa, per un’indisposizione, l’amico Otto le ha fatto un’i-niezione con un
preparato di propile,
propilene... acido propionico... trimetilamina (ne vedo la formula davanti ai miei
occhi, stampata in grassetto)... Non si fanno queste iniezioni con tanta leggerezza...
probabilmente anche la
siringa non era pulita (Freud, 1899).
Come sapete, si tratta di una pagina particolarmente
sacra per la psicoanalisi, perché è precisamente con questo sogno che Freud applica
per la prima volta il proprio metodo d’interpretazione dei sogni. Il fatto che io abbia
voluto fare il verso a Freud utilizzando questo materiale costituisce una prova
dell’intenzione dissacratoria che mi animava in quel momento. Oggi sono molto
più riconciliato, anche se, nella sostanza, la mia critica sarebbe la stessa.
Leggendo le pagine di commento e di spiegazione che
Freud scrisse di seguito al proprio sogno, risulta subito chiaro che per lui
analizzare significava interessarsi soprattutto ai particolari e non
all’insieme di un testo. In biologia si frantumano le cellule, per andare a
vedere cosa c’è dentro, per separare gli uni dagli altri gli organelli e le
molecole di cui sono fatte e Freud, per essere scientifico, cercava di fare la
stessa cosa con i sogni, ispirandosi direttamente alle scienze naturali.
Diceva a questo proposito Laing nell’Io diviso:
L’essere umano (...)
può essere visto da diversi angoli, e l’uno o l’altro aspetto può essere preso come
oggetto di studio.
In particolare può essere visto come una persona o come una cosa.
(...) posso vederti come un’altra persona come me; ma, senza
che tu cambi o faccia niente di nuovo, posso anche vederti
come un sistema fisico-chimico
complesso, forse dotato di certe caratteristiche individuali ma nondimeno sempre tale. Visto in
questo modo tu non sei più
una persona, ma un organismo. Nel linguaggio della fenomenologia esistenziale l’altro –
visto alternativamente come
persona o come organismo – è l’oggetto di atti intenzionali diversi (Laing,
1960).
Freud sminuzzava il sogno in tanti pezzetti e poi
usava ogni pezzetto come punto di partenza e stimolo per una catena di
associazioni di idee. Nel caso
del Sogno dell’iniezione a Irma, lo sviluppo delle diverse catene associative occupa nove pagine,
«Anche se», riferisce Freud in
nota, «come è comprensibile, non ho comunicato tutto quel che mi è venuto in mente per il lavoro d’interpretazione»2 (Freud,
1899:118). Dal momento che ogni catena è, in linea di principio, interminabile, risultano inevitabilmente
parecchie intersezioni; ebbene, un’ipotesi che Freud ventilava, una delle tante
iper-semplificazioni che lo hanno reso così famoso, era che la mappa delle intersezioni potesse costituire di per se stessa l’interpretazione del sogno. Nel caso specifico,
il significato del sogno sarebbe consistito nella realizzazione camuffata del desiderio di attribuire ad altri,
e in particolare al dottor Otto, la
colpa dell’insuccesso terapeutico registrato
nei confronti della paziente Irma.
Mi ha sempre colpito vedere
quanto poco, alla fine dei conti, il prodotto di tutta quella
complicata procedura si allontanasse dalla
letteralità del testo da cui parte, per cui non sono mai riuscito a capire
quale avrebbe dovuto essere l’illuminazione alla quale si arrivava. Infatti, l’intenzione di colpevolizzare il povero Otto
appare manifesta nel sogno fin dal
principio: «l’amico Otto le ha fatto un’iniezione [...] Non si fanno queste iniezioni con tanta leggerezza... probabilmente la siringa non era pulita».
La mia impressione è che, procedendo in maniera
scompositiva e associativa, s’imbocchino dei percorsi circolari e si producano
tutta una serie di metafore equivalenti a quelle di partenza, senza compiere mai quel salto di livello logico nel quale dovrebbe consistere la vera interpretazione di un sogno.
Ecco, invece, il mio vecchio tentativo
d’interpretazione junghiana dello stesso sogno:
Un grande salone, molti ospiti,
che stiamo ricevendo.
Jung consigliava di prestare molta
attenzione al prologo,
quando si analizza un sogno. Qui ci troviamo inseriti in un contesto mondano, di convenzioni sociali e di
marcata estroversione. L’iniziale preoccupazione freudiana di mantenere la psicoanalisi
nell’ambito della medicina scientifica
era motivata dalla sua ambizione di rendersi bene
accetto e diventare importante
nel contesto della società borghese di fine secolo, cui
apparteneva.
Riferendoci alla simbologia delle
due forme del pensare, potremmo dire che era molto forte in lui il bisogno di
ammantarsi della «luce
del sole».
Come amplificazione del
personaggio che Freud viene a rappresentare nel prologo del proprio sogno,
scelgo anch’io una mia immagine archetipica: la carta numero VII dei
tarocchi, Il Carro, che raffigura l’eterna illusione del
giovane eroe di spingersi alla
conquista del mondo, senza curarsi delle tante contraddizioni irrisolte che
porta con sé.
L’interpretazione junghiana della
simbologia dei tarocchi ci porterebbe molto lontano. Qui è sufficiente dire, in
estrema sintesi, che le ventuno immagini degli “arcani maggiori”, ordinate
secondo la loro numerazione, ci mostrano l’evoluzione psicologica e spirituale
di un protagonista maschile che si scontra ripetutamente con il lato oscuro e
per lui incomprensibile della vita, che è rappresentato dalla sfinge, e viene
educato a più riprese da una figura femminile che si presenta sotto diverse
forme, pur rappresentando sempre la stessa cosa e cioè la conoscenza non
intellettuale ma vissuta di quelle realtà archetipiche di cui parla Jung.
La carta numero VI, l’Innamorato,
ci mostra il protagonista nella fase immediatamente precedente del suo cammino.
Non ancora identificato con l’eroe, egli si trova di fronte ad un bivio
piuttosto imbarazzante. Alla sua destra c’è la via della rettitudine. Le scelte
giuste, le buone abitudini e i valori morali che gli sono stati inculcati sono
rappresentati da una ragazza dall’aspetto idealizzato di madonnina, mentre a
sinistra c’è la “perdizione”, rappresentata da una ragazza dall’abito discinto
con i fiori fra i capelli. A destra la sicurezza di essere un ragazzo per bene,
conforme all’aspettativa dei genitori e della società cui appartiene, a
sinistra la tentazione e il pericolo di sperimentare una “vita vissuta” e di
farsi un’esperienza in prima persona. Eros con freccia puntata sopra di lui
costituisce una presenza ben poco rassicurante: basta un passo in una qualsiasi
delle due direzioni per restare fulminato. Infatti, la scelta che il
protagonista deve fare è fra il rimorso e il rimpianto: in entrambi i casi
molto dolore dovuto a eros. Il compito psicologico di integrare i due opposti
non è alla portata di un giovane alle
prime armi come lui e per la sfinge è fin troppo
facile averla vinta. La carta successiva, per l’appunto il Carro, ci fa capire
che l’unica soluzione momentaneamente possibile è quella di “cavalcare la
scissione”, visto che l’integrazione è ancora impossibile. Buttarsi nella
mischia, non importa come: fare soldi, carriera, figli, debiti, fare comunque
qualcosa per portare avanti la propria vita. Qui la sfinge ride moltissimo e
addirittura si sdoppia, a rappresentare la dissociazione alla base dell’atteggiamento
solo fintamente e grottescamente “vittorioso” del nostro eroe: le due sfingi
trascinano il suo carro e tirano in due direzioni opposte, una a destra e
l’altra a sinistra. Il pover’uomo s’illude di essere arbitro del proprio
destino, ma presto si scontrerà con la resa dei conti, la Giustizia della carta
successiva.
Come ho detto, paragono Freud
all’eroe sul carro, mentre il ruolo della Giustizia è svolto dalla sua paziente Irma:
Tra questi, Irma, che prendo subito in disparte come per rispondere alla sua lettera e
rimproverarla di non accettare
ancora la «soluzione».
La comparsa di Irma produce un immediato
spostamento dell’attenzione dal contesto
collettivo, che fa da sfondo al sogno,
al luogo più ristretto e delimitato di una relazione personale: la coppia analitica. Irma è la paziente indocile,
quella rompiscatole che non si lascia convincere e ci costringe a uscire dal comodo ruolo di “medico sano”, di eroe buono, che porta salvezza e salute, per coinvolgerci nelle
spirali di transfert e controtransfert. Irma mette un bastone fra le ruote del
carro e l’eroe sbalza rovinosamente a terra.
«Chiunque percorra il cammino che
porta alla totalità [...] finirà con l’imbattersi immancabilmente in ciò che
gli taglia la strada, che lo «mette in croce»: in primo luogo in ciò che
egli non vorrebbe essere
(l’Ombra), in secondo luogo in ciò che non «egli», ma l’altro è (realtà individuale del Tu),
in terzo luogo
in ciò che costituisce il suo non-Io psichico, cioè nell’inconscio collettivo» (Jung, 1927).
Le dico: «Se hai ancora dolori è veramente
soltanto colpa tua».
È merito di Freud averci insegnato a dubitare delle negazioni e
delle affermazioni troppo perentorie e l’espressione “veramente soltanto”
attira inevitabilmente la nostra attenzione:
II modo in cui i pazienti
presentano le loro associazioni durante il lavoro analitico ci fornisce lo
spunto per alcune osservazioni
interessanti. «Ora Lei penserà che io voglia dire qualche cosa di offensivo, ma
in realtà non ho assolutamente questa intenzione». Comprendiamo che questo è il ripudio,
mediante proiezione,
di un’associazione che sta or ora emergendo (Freud, 1925).
Ma di cosa Freud colpevolizza Irma, o meglio se
stesso, nel proprio sogno? La “soluzione” di cui si parla consiste nella spiegazione riduttiva del significato dei sintomi, in termini di pulsioni sessuali, che Freud aveva dato alla sua paziente. Irma sostiene di avere «dolori alla gola, allo stomaco, al ventre» e di sentirsi «tutta stretta». Sostiene anche di
avere ricevuto una medicina sbagliata che le sta facendo male e danneggia il
suo interno.
Mi spavento e la guardo: è
pallida, gonfia. Penso: dopo tutto forse non tengo conto di qualche cosa di
organico. La porto alla finestra e le
guardo la gola. Irma mostra una certa riluttanza, come le donne che portano la
dentiera. Penso che non ne ha proprio
bisogno. La bocca poi si apre bene, e vedo a destra una grande
macchia bianca e in un altro punto, accanto
a strane forme increspate, che imitano evidentemente le conche nasali, estese
croste grigiastre.
Da questo punto in poi il sogno volge al
grottesco, come una tipica commedia degli inganni, secondo il gioco del non
intendersi, del parlare ciascuno la propria lingua ed equivocare quella
altrui. Freud rilancia un’attenzione accanitamente
incentrata sulle cause organiche, mentre Irma, la rompiscatole, trattata senza empatia, si aggrava sempre
di più e produce una vera e
propria fioritura di falsa patologia organica, secondo il cliché delle somatizzazioni
nevrotiche.
Chiamo subito il dottor M., che
ripete la visita e conferma...
Il dottor M. ha un aspetto assolutamente diverso dal solito: è
molto pallido, zoppica, non ha barba al mento...
Dice Freud a proposito della convocazione del
dottor M.: «Ciò
corrisponderebbe semplicemente alla posizione del dottor M. nel nostro ambiente»,
facendoci intendere che si tratta di un personaggio ragguardevole, di un appello all’autorità della
scienza. Non dobbiamo
meravigliarci troppo
dell’aspetto insolito del dottor M.: stando ai canoni interpretativi di Freud, il piede e
il pizzo al mento sono
simboli fallici, perciò è lecito dire che il patriarca si presenta paradossalmente sulla
scena “castrato”, o meglio assolutamente impotente di fronte a un problema che riguarda
l’altro lato dell’essere umano, il mondo interiore.
Anche
il mio amico Otto si trova ora accanto a Irma e l’amico
Leopold la percuote sul corsetto e dice: «C’è una zona di
ottusità in basso a sinistra»; e indica inoltre un tratto di
cute infiltrato sulla spalla sinistra (cosa che anch’io sento nonostante
il vestito)...
Dato che Freud associa il suo «reumatismo alla spalla, che
sento regolarmente se resto sveglio fino a notte alta», ci autorizza a riferire a lui
stesso la «zona di ottusità». L’altro lato di Freud sa benissimo che la solarità che domina la coscienza e
l’esagerata ammirazione per il dottor M. producono ottusità.
M. dice: «Non c’è dubbio, è un’infezione; ma
non importa; sopraggiungerà una dissenteria
e il veleno sarà eliminato...».
Io credo che i sogni si esprimano
generalmente in chiave ironico-grottesca e questo sogno non fa eccezione,
aggiungendo una pennellata
degna dell’arguzia di Molière. Ecco infatti che l’autorità accademica si trasforma
in un perfetto “dottor
Purgone”:
Inoltre
sappiamo subito da dove proviene l’infezione. Qualche
tempo fa, per un’indisposizione, l’amico Otto le ha fatto un’iniezione
con un preparato di propile, propilene... acido propionico...
trimetilamina (ne vedo la formula davanti ai miei
occhi, stampata in grassetto)... Non si fanno queste iniezioni
con tanta leggerezza... probabilmente anche la siringa non era
pulita.
Il tanto disprezzato Otto, medico di second’ordine,
che agisce senza farsi tanta
pubblicità (praticamente nell’ombra), rappresenta la componente relazionale dello stesso
Freud, nel rapporto con la paziente; in altri termini, la sua capacità di
indurre in essa un
transfert. Per
questo il Freud accademico associa al farmaco iniettato gli ormoni sessuali.
La necessità di coinvolgersi e di misurarsi
personalmente con gli affetti, invece di trattarli col metodo allontanante
e anonimo delle scienze
naturali, produce in Freud un’emozione insostenibile, dalla quale si difende con
l’ossessività (la follia della ragione). Ecco allora tutta la serie chimica, le formule stampate in grassetto, la preoccupazione
per la pulizia della siringa, ecc.
È così che mi sono divertito a ribaltare la prima interpretazione freudiana
del sogno, sporcando il monumento che Freud immaginava di erigere a se stesso a
imperitura memoria. Pensandoci bene, però, questa costituisce più
un’interpretazione relazionale e lorenziniana che junghiana, perché
l’attenzione è rivolta più che altro verso le dinamiche relazionali in corso e all’elemento
ironico grottesco come chiave interpretativa del sogno e non tanto al numinoso
trascendente.
Mi chiedo cosa resti di junghiano nel mio modo di pensare e praticare la
psicoterapia. Fairbairn, uno dei primi ad allontanarsi dal paradigma pulsionale
di Freud, si espresse in questi termini:
Non posso dire di nutrire alcun rimpianto per aver condotto le mie ricerche
sotto gli auspici della tradizione freudiana piuttosto che di quella junghiana.
Quando giunsi ad interessarmi per la prima volta dei problemi della
psicopatologia, non avevo già in partenza una lancia da spezzare in favore di
qualcuno; e se, al bivio, ho scelto di seguire la via tracciata da Freud invece
di quella tracciata da Jung, ciò non fu sicuramente perché io considerassi
Freud invariabilmente nel giusto e Jung invariabilmente in errore. Ciò avvenne
perché, paragonando le concezioni fondamentali di Freud e quelle di Jung,
trovavo le prime incomparabilmente più illuminanti e convincenti e sentivo che
esse offrivano una prospettiva infinitamente migliore per la risoluzione dei problemi
che interessano la psicopatologia (Fairbairn, 1955, p. 144).
Per Fairbairn i sogni non erano una sorta di appagamento allucinatorio di
desideri insoddisfatti, ma “lungometraggi nei quali si autorappresentava la
vita interiore”. Il già citato Antonino Ferro, a partire da una formazione tutt’altro
che jumghiana, cioè da Bion, lavora nello stesso modo. Rimasi a bocca aperta
quando lo sentii dire nel corso di un seminario che lui non chiede affatto
associazioni d’idee e che al significato dei sogni ci arriva per intuizione
diretta. Mi sentii così grato, che decisi, seduta stante, di pubblicare la sua
conferenza sul primo numero di Ricerca Psicoanalitica da me
diretto:
«Il sogno, secondo me, non ha bisogno di essere interpretato, ma intuito.
Il sogno è la poesia della mente: o lo capisco o no. Se non lo capisco, ho una
seconda chance: chiedere al paziente cosa gli fa venire in mente.
In questo modo, egli mette in funzione la propria funzione alfa e, credendo di
fare delle associazioni libere, fa un sogno sul suo sogno, dando all’analista
una seconda possibilità per comprendere» (Ferro, 2010: 51).
In
presa diretta: il concetto del Sé nell’opera conclusiva della maturità di
Jung, Mysterium
Coniunctionis
A questo punto, non pago di parlare di Jung, vorrei che
Jung stesso ci illuminasse in relazione al concetto del Sé, punto chiave delle
sue riflessioni.
Come ho più volte sottolineato, le asserzioni relative
alla pietra [filosofale], se considerate dal punto di vista psicologico,
descrivono l’archetipo del Sé, la cui fenomenologia è esemplificata nel
simbolismo del mandala. Quest’ultimo descrive il Sé come una struttura
concentrica, spesso nella forma della quadratura del cerchio. Gli è associato
ogni tipo di simbolo secondario che esprima in generale la natura degli opposti
da unire. La struttura è invariabilmente avvertita come la rappresentazione di
uno stato centrale o di un centro della personalità sostanzialmente diverso
dall’Io. Esso è di natura numinosa, come indicano il tipo di raffigurazione o i
simboli impiegati (sole, stella, luce, fuoco, fiore, pietra preziosa ecc.). Vi
s’incontrano tutti i gradi di valutazione emotiva, dal disegno astratto,
incolore e indifferente di un cerchio fino all’intensità suprema di
un’esperienza d’illuminazione. Tutti questi aspetti si possono già costatare
nell’alchimia, con l’unica differenza però che là essi appaiono proiettati
nella materia, mentre qui sono intesi come simboli psichici. L’arcanum
chymicum si è dunque trasformato in un evento psichico, senza perdere
nulla della sua numinosità originaria.
[…] A differenza dell’ideale dell’alchimia, che
consisteva nella produzione di una sostanza misteriosa, l’interpretazione
psicologica conduce all’idea di totalità dell’uomo. Quest’idea ha anzitutto un
significato terapeutico, giacché tenta di cogliere concettualmente quello stato
psichico che risulta dal superamento della dissociazione, ossia della distanza,
tra coscienza e inconscio. La compensazione alchemica corrisponde
all’integrazione dell’inconscio nella coscienza, operazione che produce una
trasformazione in entrambi. Anzitutto, la coscienza sperimenta un ampliamento,
uno spostamento dei confini del proprio orizzonte. Ciò significa in primo luogo
un considerevole miglioramento delle condizioni psichiche generali, poiché la
coscienza cessa di essere turbata dall’azione contraria dell’inconscio. Ma,
poiché ogni bene si deve pagare a caro prezzo, il conflitto che era prima
inconscio viene così trasferito alla luce della coscienza, e quest’ultima viene
gravata d’una pesante ipoteca: è da lei, ora, che si attende la soluzione del
conflitto. E tuttavia la coscienza pare essere inadeguata e mal preparata a
tale compito, allo stesso modo di quella degli alchimisti medioevali. Non
diversamente da questi ultimi, l’uomo moderno ha bisogno di un metodo speciale,
che consiste nell’esplorare e formulare i contenuti inconsci allo scopo di
superare le difficoltà della coscienza. Come ho già mostrato altrove, quale
risultato dello sforzo psicoterapeutico è possibile attendersi una certa
esperienza del Sé. I fatti dimostrano che quest’attesa è legittima. Non di rado
si tratta di esperienze realmente numinose. È superfluo tentare di descrivere
il carattere di totalità. Chiunque ha vissuto un tale evento sa bene che cosa
voglio dire, e per chi invece non ha fatto tale esperienza ogni descrizione
resterà insufficiente (Jung, 1971: 543-546).
L’idealizzazione
dell’inconscio
Qual è il modo caratteristico che aveva Jung di porsi rispetto ai miti,
alle religioni e ai sogni? Egli si poneva dentro-fuori rispetto a essi, perché
secondo lui i significati che costituiscono tutte quelle narrazioni non possono
essere semplicemente ridotti a frammenti ed elaborati secondo una logica
riduttiva, per poi diventare un possesso della mente razionale, ma devono prima
di tutto essere vissuti, sviluppati e portati a maturazione.
Questo particolare atteggiamento verso la psiche e la psicoterapia avrebbe
potuto fare di Jung un precursore di Winnicott, perché con il suo particolare
atteggiamento non riduttivo verso l’inconscio egli collocava il lavoro della
psicoterapia nella dimensione molto favorevole di un perenne spazio
transizionale di crescita personale. Inoltre, anche l’idea che non si possa
realmente risolvere la metafora, a favore di una spiegazione basata su di una
presunta realtà concreta non metaforica era molto avanzata rispetto ai tempi.
Purtroppo però la posizione di Jung è sottilmente ambigua e non mi sembra
proprio di poterla definire costruttivistica o contestualistica. Teorizzando
gli archetipi, egli andava alla ricerca di un fondamento certo, una dimensione
trascendente (o “trascendentale”) che si rivelava direttamente nell’interiorità
delle persone. Per questo motivo, la sua impostazione non si può definire altro
che religiosa: Jung era, in definitiva, nell’atteggiamento di un
credente che mantiene un atteggiamento devozionale verso l’oggetto della sua
ricerca.
La potenza soverchiante dell’inconscio collettivo concepito da Jung incute
un sacro timore e mette inevitabilmente l’analizzando in una condizione di
soggezione, oppure di inflazione psicologica, a seconda della sua
predisposizione alla remissività del seguace, o all’identificazione con il sé
grandioso del credersi un illuminato.
Per entrare ancora meglio nell’inquietante stranezza di questa deviazione
dalla scienza verso la religione, ho trovato assai illuminante lo studio
psico-biografico che Atwood e Stolorow hanno dedicato a Jung e da questo
attingerò a piene mani (Atwood e Stolorow, 1979).
Fino da bambino, Jung aveva sviluppato e coltivato un mondo segreto che gli
serviva come rifugio dove ritirarsi per fare fronte ad un senso di sé
particolarmente fragile. Dice infatti Jung di se stesso bambino:
Scoprii che [i miei compagni di scuola] mi alienavano da me stesso. Quando
ero con loro diventavo diverso rispetto a quello che ero a casa... i miei
compagni di scuola... mi costringevano a essere diverso da quello che pensavo
di essere... Era come se sentissi e temessi una scissione del mio essere: ne
avevo paura, quasi fosse una minaccia per la mia sicurezza interiore (Jung
1961, trad. it. 1965: 38-39).
Così commentano i nostri autori:
Insieme allo spaventoso cambiamento e alla scissione interna generatasi in
Jung con il suo ingresso a scuola e con la frequentazione di un mondo sociale
più ampio della cerchia familiare, egli sviluppò un certo numero di giochi
simbolici, veramente affascinanti, perché chiariscono i temi soggettivi che
dominarono quel periodo della sua vita (fra i 7 e i 10 anni). Uno dei giochi
richiedeva il fuoco... un altro gioco si basava su una curiosa relazione con
una pietra. Spesso, quando Jung si sentiva solo, andava a sedersi su una pietra
particolare che sporgeva sullo stesso pendio dove il ragazzo si prendeva cura
del fuoco sacro. Allora cominciava un dialogo che rispecchiava le sue
difficoltà nel differenziare fra il sé e l’oggetto (Atwood e Stolorow, 1979;
trad. mia).
«Io sto seduto sulla cima di questa pietra, e la pietra è sotto», ma anche
la pietra potrebbe dire «io» e pensare: «Io sono posata su questo pendio ed
egli è seduto su di me». Allora sorgeva il problema: «Sono io quello che e
seduto sulla pietra, o io sono la pietra sulla quale egli siede?»...
La risposta era tutt’altro che chiara... [ma] non nutrivo dubbi che la pietra
fosse in qualche oscuro rapporto con me (Jung, 1961:39).
A Jung veniva voglia di andare sulla pietra, soprattutto quando si sentiva
confuso e in conflitto per via del suo interminabile rimuginare sulle
rivelazioni segrete della sua prima infanzia (il gesuita, il mangiatore di uomini,
ecc.). Egli spesso sentiva un gran desiderio di comunicare le sue esperienze a
qualcuno e interrompere l'isolamento psicologico nel quale lo avevano
precipitato i suoi segreti. Allo stesso tempo, tuttavia, temeva che mostrare i
suoi pensieri segreti lo avrebbe esposto all’incomprensione e al trauma del
ridicolo (Atwood e Stolorow, 1979:88; trad. mia).
Queste premesse precoci proiettano una luce molto significativa su tutta
l’opera di Jung. Consideriamo, per esempio, la scelta di analizzare le fantasie
e i sogni di miss Miller, per spiegare il proprio punto di vista sulla psiche e
contrapporlo a quello di Freud. Era questa una ragazza gravemente schizoide che
Jung non incontrò mai di persona. Nelle quasi 500 pagine a lei dedicate
in Simboli e trasformazioni della libido vediamo dispiegarsi
il farraginoso labirinto fantastico, o gorgo, nel quale, di lì a poco, si
sarebbe completamente smarrita la mente della poveretta. Se Jung fu capace di
riconoscere così a colpo sicuro le avvisaglie di un ritiro senza ritorno, fu
perché conosceva bene, per esperienza diretta, le vie insidiose e forse anche
le seduzioni che conducono verso la creazione di universo autistico, attraverso
il distacco dalla realtà condivisa. Jung profetizzò senza esitazione la
schizofrenia di miss Miller, che in effetti si manifestò pochi anni più tardi.
Tornando alla storia precoce di Jung, proprio all’inizio dell’autobiografia
egli ci riferisce un sogno molto impressionante che risale alla stessa età
precoce dei suoi giochi solitari. In questo sogno fondamentale si esprime, a
mio avviso, il nucleo infantile di un possibile processo psicotico futuro:
Pressappoco nello stesso periodo feci il primo sogno del quale riesco a
ricordarmi, un sogno che mi avrebbe preoccupato per tutta la vita.
Presso il castello di Laufen, in posizione appartata, vi era la canonica;
dietro, a partire dalla fattoria del sacrestano, si stendeva un grande prato:
nel sogno mi trovai in questo prato. Improvvisamente scoprii, nel terreno, una
fossa scura, rettangolare, orlata di pietra, mai vista prima; con curiosità mi
avvicinai e mi sporsi per guardarvi dentro. Una scala di pietra conduceva giù;
scesi, esitando per la paura, e in fondo trovai una porta ad arco, chiusa da
una tenda verde, pesante, enorme, che pareva di broccato, molto sontuosa. Preso
dalla curiosità di vedere che cosa potesse nascondere, la sollevai da una
parte. Innanzi a me, nella luce incerta, vidi una stanza rettangolare, lunga
circa dieci metri; il soffitto era a volta, di pietra sbozzata; il pavimento
era lastricato, e al centro un tappeto rosso si stendeva dall’entrata fino a
una bassa piattaforma, sulla quale si ergeva un meraviglioso trono d’oro, con
sopra – ma non ne sono sicuro – un cuscino rosso. Era un trono splendido, un
vero trono regale come in un racconto di fate! Sul trono c’era qualcosa, e a
tutta prima pensai che fosse un tronco d’albero, di circa quattro o cinque
metri d’altezza e cinquanta centimetri di diametro. Era una cosa immensa, che
quasi toccava il soffitto, composta stranamente di carne nuda e di pelle, e
terminava in una specie di testa rotonda, ma senza faccia, senza capelli e con
un solo – proprio in cima – unico occhio, che guardava fisso verso l’alto.
La stanza era sufficientemente illuminata, sebbene non vi fossero finestre
e non si vedesse alcuna sorgente di luce; comunque al di sopra della testa vi
era un’aureola luminosa. Quello strano corpo non si muoveva, eppure io avevo la
sensazione che da un momento all’altro potesse scendere dal trono e avanzare
verso di me strisciando come un verme. Ero paralizzato dal terrore, quando
sentii la voce di mia madre, proveniente dall’esterno, dall’alto della stanza,
che diceva “Sì, guardalo! Quello è il divoratore di uomini!” ciò mi spaventò
ancora di più, e mi svegliai in un bagno di sudore, con una paura da morire.
Per molte notti poi ebbi paura di andare a dormire, temendo di poter avere un
altro sogno simile (Jung, 1961:30-31).
Questo bambino molto fantasioso, che viveva in una pericolosa dimensione
d’isolamento psicologico, cade come Alice dentro al buco di un mondo
immaginario, dove potrebbe rinchiudersi per sempre. Fortunatamente c’è una
mamma da qualche parte che non è totalmente distratta e lo richiama alla
realtà. Il punto è che, attorno a questo nucleo di fascino e di paura, Jung
cominciò a costruire tutto il suo sistema di pensiero. Ci tornò sopra infinite
volte durante la sua vita. Pensò che il fallo fosse una divinità sotterranea da
non nominare, che la luminosità che ne circondava la cima fosse connessa con
l’etimologia della parola fallo (falòs = lucente, splendente), e a un certo
punto, molti anni più tardi, si convinse che avesse a che fare con il motivo
del cannibalismo sacro, insito nel simbolismo dell’eucaristia… e alla fine
trasse queste conclusioni:
Con questo sogno infantile fui iniziato ai segreti della terra; ciò che
avvenne allora fu una specie di seppellimento nella terra, e molti anni
dovevano passare prima della mia resurrezione. Oggi so che ciò avvenne affinché
la massima luce si facesse nell’oscurità. Fu una sorta d’iniziazione al regno
delle tenebre: la mia vita intellettuale ebbe le sue inconsce origini in
quell’epoca (Jung, 1961:34).
Quello che Jung intende dire è che quell’esperienza onirica gli fece capire
che esiste un mondo di significati eterni, che concretamente abita dentro di
noi a nostra insaputa: significati che possono risucchiarci e dissolverci o,
viceversa, che noi possiamo riconoscere e fare nostri con il risultato di
arricchire la nostra consapevolezza e di salvare la nostra vita.
Riguardo alla dimensione particolare nella quale si è svolta l’infanzia di
Jung, mi pare interessante riferire quanto dice Franco De Masi, noto studioso
psicoanalitico della psicosi:
La mia ipotesi è che lo stato psicotico rappresenta lo sviluppo estremo di
una condizione iniziata nell’infanzia e in cui il bambino ha cominciato a
vivere in un mondo parallelo, creato nella fantasia e mantenuto segreto, che lo
ha reso solo superficialmente capace d’interagire con il mondo circostante. (…)
È da questa realtà dissociata che trarrà alimento la parte psicotica della
personalità, destinata a prendere il comando nel corso dello sviluppo (De Masi,
2010).
Dopo la separazione da Freud, cominciò per Jung un periodo d’incertezza e
disorientamento. Era perseguitato da fantasie paurose di cadaveri nel forno
crematorio, che poi erano ancora vivi. Fece sogni inquietanti che lo
riportavano indietro nei secoli e riprese intenzionalmente i giochi con le
pietre che faceva da bambino. In riva al lago trovò
un frammento di pietra levigato dall’acqua […] Appena vistolo, capii che
doveva essere un altare. Sistemai la pietra al centro, sotto la cupola, e il
quel momento mi ricordai del fallo sotterraneo sognato da bambino e provai un
senso di sollievo.
Si scatenò un flusso incessante di fantasie […] ero inerme di fronte a un
mondo estraneo, dove tutto appariva difficile e incomprensibile[…] annotai le
mie fantasie come meglio potevo […] Per prima cosa esponevo le fantasie come le
avevo osservate, di solito in un “linguaggio elevato”, poiché questo
corrisponde allo stile degli archetipi. Gli archetipi parlano un linguaggio
patetico e perfino ampolloso. Uno stile che mi riesce fastidioso e mi dà ai
nervi, ma poiché non sapevo di cosa si trattasse, non avevo altra scelta che
scrivere tutto nello stile voluto dall’inconscio stesso. A volte era come se lo
udissi con le mie orecchie, a volte come se fosse sulla mia bocca e la mia lingua
stesse formulando parole; di tanto in tanto mi coglievo a bisbigliare parole:
sotto la soglia della coscienza era tutto un fermento di vita (Jung, 1961:204).
Questo rapporto d’intimità con la patologia grave orientò
inequivocabilmente Jung verso un modello di terapia diverso da quello di Freud:
per Jung fu istintivamente ovvio interpretare la malattia come debolezza
strutturale dell’io e arresto o deragliamento evolutivo, piuttosto che
conflitto fra pulsione e difesa. La teoria della cura come ripresa dello
sviluppo interrotto avvicina una volta di più Jung a Winnicott e a Kohut. Ma
Jung fu il primo, in psicoanalisi, ad esserne assertore convinto.
In conclusione, Jung fu contemporaneamente un “iniziato” ai misteri, un
esoterista che si rivolge all’inconscio come a una forma di saggezza oracolare
e anche un pensatore scientifico in anticipo sui tempi. Era convinto che
l’inconscio svolgesse una funzione di compensazione nei confronti della
coscienza e che avesse il potere di orientare lo sviluppo della personalità
verso l’arricchimento e la guarigione, perciò interpretava i sogni in senso
prospettico e andava a cercare in essi i semi di uno sviluppo futuro.
Il metodo più caratteristico di Jung, soprattutto dalla sua crisi in poi,
fu quello di individuare delle tipiche personalità separate nelle immagini dei
sogni, delle fiabe e dei miti, alle quali dette nomi pittoreschi: Ombra,
Persona, Anima-Animus, Puer-Senex, ecc. Pensava di avere così identificato i
“complessi” della psiche, personalità parziali nelle quali la personalità
totale tende a scomporsi per l’azione degli archetipi dell’inconscio
collettivo. A volte Jung incoraggiava i pazienti a stabilire un dialogo
immaginario con questi personaggi, nella convinzione che si potesse imparare da
essi, cioè direttamente dall’inconscio, personificato in quelle figure, ciò che
era necessario sapere per procedere all’integrazione della propria personalità.
Paradossalmente, si cercava di creare l’integrazione, praticando la
dissociazione.
A pensarci bene, mantenendo questa fede in una realtà separata e credendo
di poter attingere salvezza e salute mantenendosi a cavallo di due mondi, Jung
incarnò davvero un archetipo, quello dello sciamano che è sopravvissuto alla
propria malattia ed ha tratto da essa una straordinaria capacità di aiutare gli
altri.
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[1] “Espedienti” li chiama Bateson nel
saggio citato.
[2] “Introspezione vicariante” significa
ricordare o ricreare dentro di sé per mezzo dell’immaginazione un’esperienza
simile a quella di cui l’altro ci parla, per metterla poi alla prova attraverso
la risonanza: se l’altro si sente capito, vuol dire che abbiamo messo al suo
servizio la nostra capacità d’introspezione e in questo senso, secondo Kohut,
l’empatia è un metodo conoscitivo.