Il nodo cosmico



mente e cervello sono una cosa sola?


Introduzione

Se mente e cervello, o meglio ancora coscienza e cervello ci appaiono come due ordini di realtà incongruenti per cui ci risulta così problematico annodarli insieme, forse ciò dipende dal retaggio “cartesiano” che permea ancora oggi il nostro modo di pensare: res cogitans e res extensa. Alla luce di questa antica e consolidata prospettiva, che molti come me considerano una sorta di schizofrenia culturale, la mente è il soggetto pensante, mentre il cervello è la macchina che tale soggetto utilizza per pensare. Valga un esempio autorevole per tutti: Popper ed Eccles (1977) nella loro opera dedicata a «materia, coscienza e cultura», ma eloquentemente intitolata L’io e il suo cervello (The Self and its Brain), arrivano più o meno alla conclusione che il cervello appare organizzato come uno splendido pianoforte, laddove non si può scorgere nessuna traccia del pianista che lo suona, ribadendo così la solita doppia visione materialistica del cervello e spiritualistica della mente.[1]
Questo gap insanabile separa la dimensione soggettiva, all’interno della quale facciamo esperienza di noi stessi e del mondo, dalla dimensione oggettiva, nella quale collochiamo gli oggetti di cui facciamo esperienza. La convinzione che ci mantiene ancorati a Cartesio è quella per cui pensiamo anche alla nostra mente e alla nostra coscienza come a delle cose fra le cose, per quanto di diversa natura da tutte le altre cose: non a caso per Cartesio si trattava di due diverse res, ma pur sempre di res.
Ma davvero il reale è fatto come una collezione di cose (estese o cogitanti che siano)? Le cose sarebbero enti che esistono in sé, la cui natura non cambia, a prescindere dalle possibili relazioni con le altre cose. Il bello è che da più di un secolo esistono le prove che questa concezione del reale è sbagliata e superata. Ultimamente abbiamo capito che essa è anche pericolosa, perché ci sta portando verso il disastro ecologico a ritmi sempre più preoccupanti e forse in maniera ormai irreversibile.
All’inizio del Novecento, sia la teoria della relatività, sia la fisica dei quanti hanno profondamente rivoluzionato l’antica convinzione per cui l’oggetto fisico avrebbe un’esistenza autonoma e indipendente rispetto alla soggettività che lo definisce. Non funzionano così le particelle elementari e non funzionano così nemmeno lo spazio e il tempo. Come dire che le cose non stanno così dietro le quinte: sembrano così soltanto sulla scena dove ci muoviamo noi, ma anche qui, a cercarli con un po’ di acume, ci sono seri indizi che le cose non stiano così.

Filosofia

In concomitanza con le scoperte che hanno cambiato il rapporto soggetto-oggetto nella fisica, anche nella filosofia, in particolare con la fenomenologia di Husserl, si è compiuta una bella svolta che punta nella stessa direzione.
Husserl prese dal suo maestro Franz Brentano il concetto chiave di “intenzionalità”[2], come caratteristica fondamentale di ogni atto psichico e, in particolare della coscienza. L’intenzionalità lega il soggetto di ogni atto esperienziale a un oggetto che è altro da lui, ma alla fine anche parte di lui. Il compito della fenomenologia consisteva nel disvelamento sistematico dell’intenzionalità costituente: sospendere l’adesione immediata al mondo e ricondurre ogni realtà oggettiva alla soggettività per cui vale. In definitiva, né il soggetto, né l’oggetto potevano rivendicare una realtà separata, ma esistevano solo nella relazione che li definiva. Non mi sembra poco.
È quasi incredibile considerare che, a distanza di un secolo, siamo ancora alle prese con la stessa rivoluzione intellettuale che ancora tanto fatica ad affermarsi. Ma il secolo che abbiamo alle spalle è stato fortemente dominato dal potere della tecnica e dall’illusione della crescita senza limiti, fattori che hanno straordinariamente rinforzato mito della soluzione ottenuta magicamente, il famoso “patto col diavolo” di faustiana memoria, per cui la scienza positivistica, per un tipico paradosso della storia umana, si è presentata molto spesso come una sorta di magia, tutto il contrario di ciò che voleva essere al suo inizio, ed ha esercitato un ruolo di potente freno nei confronti dell’evoluzione culturale. Per considerare ciò che è avvenuto nel mio campo, bisogna dire che il mito di Faust è stato raccolto e coltivato in maniera particolarmente accattivante dalla psichiatria organicistica, che propone (e lucra con) l’idea di uno psicofarmaco della felicità, uno psicofarmaco che dovrebbe andare ben oltre il sedare agitazione e delirio o il dare un po’ di euforia al depresso: lo psicofarmaco dovrebbe addirittura «liberarci dal male oscuro», come dice Cassano (Zoli, 1993) nel libro bestseller dedicato a fare pubblicità alla cura farmacologica della depressione, citando implicitamente Berto (1964).
Ma il “male oscuro” di cui parlava Berto descrivendo autobiograficamente la propria nevrosi era strettamente imparentato con quell’angoscia esistenziale che già Jaspers, Heidegger e Sartre avevano considerato come esperienza inevitabile nel tentativo di essere autenticamente se stessi. Secondo Heidegger, così spesso l’essere umano manca del proprio essere, al punto che questa mancanza appare a prima vista come la sua caratteristica più peculiare. L’idea di questo filosofo fu quella di andare a cercare questa cosa impalpabile che tanto interessa i filosofi, l’essere, proprio là dove la sua stessa presenza è un problema, cioè nei modi di essere dell’essere umano, con la speranza di potere così apprezzare la differenza che tale presenza o assenza comporta! Trovo totalmente poetica e geniale quest’operazione di contaminazione tra filosofia e psicologia. In un certo senso l’interesse del filosofo si allarga in quel modo dall’inganno conoscitivo all’inganno etico e indaga sul motivo per cui ci adeguiamo al modo di essere e di pensare collettivo, invece di accedere a quello più autentico e personale che rende unico ogni individuo, pienamente se stesso: il “si” del “si deve”, “si dice”, “si fa così”, invece del sé che opera per volontà propria; il “si stesso”, invece del “se stesso”[3].
È interessante notare che già Jung aveva posto la questione dell’unicità dell’individuo (individuazione) come principio di salute psicologica, riconoscendo contemporaneamente l’imprigionamento nella mentalità collettiva come segno di fallimento dell’individuazione. Molto più tardi, Winnicott elaborò a sua volta i concetti di vero e di falso sé.
Sartre ha fatto parecchi passi avanti rispetto a Heidegger, nella direzione di applicare la filosofia alla vita, ma contemporaneamente anche diversi passi indietro: infatti, egli è partito dalla critica al cogito cartesiano per approdare, paradossalmente, a una concezione di netta separazione fra soggetto e oggetto, diventando a sua volta decisamente dualista: per lui le cose, da un lato, hanno una indiscutibile realtà in sé (nonostante tutte le rivoluzioni già avvenute nella fisica) mentre la coscienza, dall’altro lato, non ha nessuna realtà in sé, ma si dà presuntuosamente una realtà da sé.
Merleau-Ponty, alla fine, ha fatto un deciso balzo in avanti, illustrando in un modo completamente nuovo il rapporto che lega le due sponde del reale:

Il chiasma è il rapporto che sussiste fra l’organismo e il suo ambiente, rapporto che non è riconducibile a quello fra due entità separate, ma una relazione dinamica di scambio fra due entità che sono sì distinte, ma inseparabili. Ne consegue che l’organismo non rappresenta un soggetto che avrebbe il mondo come suo oggetto, ma che esso è l’altra faccia del mondo, da cui certo è distinto, ma non separabile con una linea netta di demarcazione fra esterno e interno. […] Da questa concezione del visibile emerge anche cosa significhi il tema della carne del mondo, che è fondamentale per comprendere il nuovo tipo di soggetto a cui Merleau-Ponty pensa: la carne del mondo è un avvolgimento spazio-temporale abitato dal soggetto e di cui egli è un’emersione, una finestra; la concezione della teoria dei sistemi, secondo cui ogni sistema vivente si accoppia con l’ambiente, e con altri sistemi viventi, istituendo uno scambio e un equilibrio dinamico con essi, trova in questo concetto di Merleau-Ponty la sua espressione filosofica più coerente e adeguata (Iofrida, 2010).

Per Morin il vivente è un soggetto fino dalle sue forme più elementari, un soggetto-nel-suo-mondo, che organizza se stesso organizzando il mondo in una forma di circolarità ricorsiva o di “autoriflessione arcaica”, che chiama il “computo”.

«Il nostro essere soggetti – o meglio il nostro divenire soggetti – non si produce attraverso l’anello ricorsivo del cogito, ma anzitutto attraverso l’anello ricorsivo del computo. Attraverso computazioni viventi che rimangono per loro natura largamente inaccessibili alle ragioni dell’io cosciente. Il cogito cartesiano produce la coscienza del “sono”. Il computo, per parte sua produce il sono, cioè simultaneamente l’essere, l’esistenza e la qualità del soggetto» (Manghi 2009, pp. 79-80).

Viene assolutamente spontaneo collegare queste riflessioni con i risultati recentemente conseguiti dall’infant research e dalla video-microanalisi, che ci hanno presentato l’evidenza scientifica del “soggetto che si auto-eco-organizza”. Bisogna anche aggiungere che questa evidenza comprende un’altra evidenza, quella dell’“oggetto che si auto-eco-organizza”, a comporre la complessa eleganza della “danza relazionale” di cui parlava Bateson (1977; 1984).
Alcuni anni fa, a Milano, sono rimasto molto impressionato dall’incontro con George Downing. Ci mostrò alcuni filmati di video-micro-analisi, di quelli che egli utilizza nella terapia della coppia madre-bambino, dove lo scambio non verbale appare in tutta la sua rilevanza, non appena siamo in grado di focalizzare e confrontare le immagini della loro interazione mimica e gestuale con una scansione temporale inferiore al decimo di secondo (Downing, 2010). Un’idea mi s’impose con evidenza immediata alla mente: ecco il punto di contatto, dove psiche e nervi sono la stessa cosa. Non la ghiandola pineale ipotizzata da Cartesio, ma l’inces-sante flusso interattivo d’interconnessione e di scambio non consci e non verbali. La cosa più importante è che il non verbale non coincide affatto con il preverbale e non riguarda soltanto il rapporto del caregiver con l’infante: si tratta in verità di una dimensione psichica sempre attiva e operativa, alla quale, dopo i due anni, si accompagna, ovviamente, la dimensione verbale, ma senza sostituirsi, senza mai diminuirne l’importanza per tutto il corso della vita.

Psicoanalisi

Torniamo al secolo scorso e proviamo adesso a ripercorrere velocemente la storia del rapporto soggetto-oggetto nello sviluppo del pensiero psicoanalitico.
La pretesa materialistica iniziale di Freud era di ridurre il soggetto ai termini dell’oggetto, di riportare la mente al cervello, secondo il programma riduzionistico (faustiano) delle scienze naturali dell’epoca (e ancora oggi di molta parte della neuropsicologia e soprattutto della psichiatria), e di risolvere molto a buon mercato l’antinomia del nodo cosmico. Molto si è discusso della contraddizione fra teoria e prassi terapeutica in Freud, o fra metapsicologia e teoria della tecnica. Fatto sta che, strada facendo, la psicoanalisi si è complicata a tal punto, già nelle mani del suo creatore, che tale programma è rimasto per sempre in sospeso.
Jung ha provato il percorso inverso, quello di riportare la materia allo spirito, attraverso le teorie della sincronicità e dell’inconscio collettivo, e per questo motivo si può tranquillamente dire che anche l’intenzione di Jung era riduttiva, tanto quanto quella di Freud: unificare comunque i due poli riducendoli a uno solo! In questo caso, privilegiando il soggetto, o l’anima, o la mente, o lo spirito, comunque vogliamo chiamarlo.
In realtà, Freud era meno riduttivo di Jung, perché la sua inclinazione era quella di spiegare l’universale a partire dal particolare, mentre Jung, all’opposto, conservava la pretesa medioevale di spiegare il particolare a partire dall’universale e le complicazioni del caso singolo a partire dagli archetipi che abitano in una dimensione trascendente. Per questo motivo, è stato a partire da Freud e non da Jung che si sono sviluppati i primi costrutti teorici della psicoanalisi relazionale, nella forma della cosiddetta “psicoanalisi delle relazioni oggettuali” in Europa e dell’interpersonalismo di Sullivan, Thompson e Horney negli Stati Uniti.
Il pensiero di Winnicott occupa un posto di primo piano in questo cambiamento di prospettiva e la sua nozione di “dimensione transizionale” (1953) meriterebbe da sola un premio Nobel per la psicologia – che sfortunatamente non esiste. La dimensione transizionale è quell’area dell’espe-rienza a livello della quale non si può distinguere ciò che è soggettivo da ciò che è oggettivo. Quello spazio di crescita, dove l’uno non prevale sull’altro ed entrambi i partner possono avventurarsi nella relazione reciproca mantenendo la fiducia nei propri significati personali[4]. In realtà, lo spazio transizionale contiene qualcosa di più di un’indispensabile forma di rispetto fra due mondi diversi: ce lo fa capire la principale caratteristica, tipica di questa dimensione, che Winnicott stesso individuò come creatività (1971). Oggi possiamo documentare, in maniera più articolata e precisa, come l’incontro con l’altro metta in crisi il sistema psichico, ma contemporaneamente gli offra l’opportunità di una riorganizzazione a livello diverso e più avanzato, attraverso la complessificazione e l’ampliamento dei propri significati. Ed Tronick (2008), un ricercatore impegnato nell’infant research, ha coniato il concetto di “espansione diadica della coscienza”, per descrivere il fenomeno della crisi “creativa” che il sistema psichico incontra nella relazione con un altro sistema psichico.
Kohut (1971), indipendentemente da Winnicott, ha introdotto vent’anni più tardi di lui il proprio concetto di oggetto soggettivo, l’“oggettosé”. L’oggettosé è il modo in cui il sé vive l’altro significativo al quale si appoggia con i propri bisogni di base. Il termine vuole significare che l’altro è una parte inseparabile di sé: lo specchio di cui non possiamo fare a meno per mantenere l’autostima, o la persona idealizzata con la quale ci identifichiamo per dare un valore ai significati che sostengono la nostra vita. Senza l’aiuto dell’oggettosé, drammaticamente necessario all’inizio della vita, ma di cui non si potrà mai realmente fare a meno, sebbene in forme sempre più sfumate, per tutto l’arco della vita, il sé non potrebbe stare in piedi. Per Kohut, la risposta empatica da parte dell’oggettosé è paragonabile all’ossigeno che la nostra soggettività ha bisogno di respirare, per mantenersi in vita. Atwood e Stolorow (1984) hanno spiegato gli agiti psicologici che caratterizzano la patologia grave attraverso il concetto di “concretizzazione del bisogno d’oggettosé”[5]. Nella prospettiva della normalità,  il bisogno d’oggettosé non viene concretizzato, perché si accontenta del livello di realizzazione simbolica, offerto dalla cosiddetta “risonanza empatica”, una rassicurazione che garantisce che al momento di un bisogno maggiore l’aiuto concreto ci sarebbe senz’altro… un’occhiata della mamma da lontano, senza bisogno di correre da lei.


Le due coscienze dell’essere umano

La rilevanza dell’inconscio procedurale, messa in piena evidenza dall’infant research, mi ha portato a interrogarmi più a fondo sul rapporto fra la coscienza riflessiva, con le sue lucidità e le sue rimozioni, e la coscienza preriflessiva o primaria che è centrata sulle percezioni. Osservando quest’ultima negli animali, possiamo concepirla come l’ultimo anello ricorsivo della vita relazionale, un’espressione alta di quella “danza relazionale” di cui parla Bateson, la stessa «danza che l’ape esegue con il fiore e con il sole e il predatore con la sua preda e viceversa la preda con il suo predatore» (Bateson, 1977).
Per Morin la coscienza esiste già molto presto e coincide con la soggettività dell’organismo vivente, fino dalle sue forme più elementari. Infatti, per lui la cellula è già un soggetto-nel-suo-mondo, che organizza se stesso (concetto di autos), interagendo in una forma di circolarità ricorsiva con il suo ambiente di vita, che chiama il “computo”.

«Il nostro essere soggetti – o meglio il nostro divenire soggetti – non si produce attraverso l’anello ricorsivo del cogito, ma anzitutto attraverso l’anello ricorsivo del computo. Attraverso computazioni viventi che rimangono per loro natura largamente inaccessibili alle ragioni dell’io cosciente. Il cogito cartesiano produce la coscienza del “sono”. Il computo, per parte sua produce il sono, cioè simultaneamente l’essere, l’esistenza e la qualità del soggetto» (Manghi, 2009: 79-80).

Per Edelman, invece, avviene un passaggio decisivo quando, negli animali vertebrati, l’evoluzione del cervello arriva a disporre di un repertorio di scene e il presente viene anticipato nel suo accadere: per lui la coscienza preriflessiva è il “presente ricordato”.

«l’importanza relativa di un evento è determinata non solo dalla sua posizione e dalla sua energia nel mondo reale, ma anche dal valore relativo che gli è stato assegnato nella storia passata dell’individuo, in conseguenza dell’apprendimento. È stato lo sviluppo emotivo della capacità di creare scene a portare alla comparsa della coscienza primaria» (Edelman, 1992, p. 185 della trad. it.).

Per come la vedo io, nell’essere umano adulto la “coscienza primaria” di Edelman costituisce una specie di allucinazione continuativa di sottofondo, che ci dà il senso di conoscere gli eventi, via, via che accadono. Questo potrebbe spiegare il carattere “vivido” delle percezioni della prima infanzia, quando la coscienza primaria ancora domina la psiche, nei pochi ricordi che ne conserviamo, così come la generale identificazione della coscienza con la luce: la luce dei nostri occhi, indistinguibile dalla luce della nostra mente, in realtà sarebbe, nell’esperienza originaria che ne facciamo, la luce vivida di una forma di allucinazione continuativa. Un’eterna dimensione transizionale della coscienza primaria, dove continuamente noi stessi creiamo ciò che progressivamente scopriamo.
La coscienza riflessiva si oppone alla coscienza preriflessiva e spesso la invalida, ma raggiunge il suo massimo, anzi vorrei dire la sua apoteosi, quanto entra in dialettica con essa e la prende a oggetto della propria riflessione. Questo concetto alto di salute mentale, questo dialogo creativo fra le due coscienze di cui disponiamo, quella procedurale preriflessiva e quella riflessiva autocosciente costituisce l’espressione più vera della presenza a se stessi e al mondo e il prerequisito essenziale per approdare al senso di vivere una vita piena.
Le argomentazioni di Edelman sono particolarmente impressionanti perché, non trattandosi di un filosofo ma di un neuroscienziato, egli non le ha tratte da deduzioni di tipo introspettivo, ma da osservazioni di carattere neuro-anatomico. Rimanendo nel campo della biologia, ci sono però delle altre osservazioni, forse ancora più illuminanti, benché meno note e meno valorizzate, che provengono da un settore completamente diverso della ricerca.
Roger Fouts, biologo dell’università dello stato di Washington, ha dedicato una vita intera all’esperimento d’insegnare il linguaggio dei sordomuti agli scimpanzé (Fouts, 1997). La genialità di Fouts (a dire il vero del suo maestro Allen Gardner che lo iniziò e quasi lo costrinse al lavoro) fu quella di lasciare perdere il linguaggio verbale, con il quale si ottenevano solo poche inutili parole dal timbro cavernoso, e di passare a quello dei gesti, il linguaggio americano dei sordomuti (LSA). Questo risulta piuttosto congeniale agli scimpanzé che, nel corso di un lungo allenamento, arrivano a usare disinvoltamente fino a 130 parole e a comprenderne più di 400. La cosa più sorprendente è che sono presto capaci di fare un uso creativo del linguaggio, associando le parole in maniera assolutamente personale[6] e ancora più sorprendenti sono i cambiamenti psicologici di personalità che progressivamente si verificano in loro.
Una riflessione cruciale di Felice Cimatti (2002), perfettamente in linea con Edelman, è che il linguaggio non serve tanto per comunicare con gli altri, come siamo spesso portati a credere – gli animali non umani comunicano benissimo anche senza linguaggio e altrettanto fanno gli esseri umani, come ha dimostrato l’infant reserch – ma serve per creare narrazioni e storie da raccontare agli altri e in primo luogo a se stessi. Ed è proprio questa nuova capacità, la capacità narrativa, che determina una completa riorganizzazione del funzionamento mentale, cioè l’emergere della coscienza riflessiva, una forma di coscienza che non è più centrata sulle percezioni, ma sul dialogo con se stessi. Tutto ciò si può dimostrare sperimentalmente, insegnando a parlare agli scimpanzé.
Lo scimpanzé in natura è capace di usare utensili, per esempio una pertica per accedere a un casco di banane troppo alto per essere raggiunto diversamente; è necessario però che banane e pertica siano presenti nello stesso campo visivo. Lo scimpanzé parlante, invece, non presenta più questa limitazione. La pertica può trovarsi anche nella stanza accanto, ma siccome il collegamento avviene, a questo punto, sulla base del dialogo con se stesso, egli riesce a collegare creativamente le due scene raccontandosi una storia. Possiamo immaginare che parli con se stesso con se stesso e si dica pressappoco così: «Qui banane troppo alte, altra stanza pertica, vado a prendere!» Esattamente come faremmo noi sapiens.
Cosa può essere intervenuto, a questo punto, a livello di organizzazione mentale, per creare la differenza? Come sostiene Cimatti (2002), si è organizzata una storia di sé e una storia del mondo intorno a sé, e in questo racconto continuamente raccontato consiste la nascita del sé e degli oggetti e il senso della continuità del sé e del mondo oggettuale, che crea la memoria di un passato e si estende progettualmente verso il futuro.[7]
A perfetta dimostrazione di ciò, troviamo il racconto straziante della morte del cucciolo di Washoe, il primo e il più famoso degli scimpanzé parlanti di Fouts (Fouts, 1997). In natura, se uno scimpanzé vede morire un amico o un parente si dispera intensamente, ma solo fin tanto che ne percepisce la disgrazia. Girato l’angolo, viene distratto da nuove percezioni e si allontana dal suo dolore. Non così per la povera Washoe che, avendo inserito l’esperienza di quella perdita nella narrazione di sé, cioè nel proprio sé, era perfettamente in grado, anzi non poteva fare a meno di ritrovarne il ricordo, ogni volta che il discorso cadeva su argomenti analoghi (madri, bambini, persone morte…) e ogni volta era riafferrata dal proprio dolore.
Con l’accesso al linguaggio verbale cominciamo ad annodare le scene in storie e a filtrare, ad anticipare e a vivere le nostre esperienze sulla base di questi nessi di più ampio respiro. Per il bene e per il male, non diamo più lo stesso credito alle nostre “percezioni immediate” (in realtà mediate dalla memoria molto veloce delle scene ricordate, elaborate dall’inconscio procedurale). Alla percezione allucinatoria del presente ricordato si sostituisce il delirio affabulatorio di un mondo immaginario, nel quale il processo di acculturazione ci introduce senza via di scampo, alienandoci ogni giorno di più da quel valido animale mammifero che non riusciremo mai più a essere.
Molto si è detto, in termini filosofici, della “tragedia” di esistere (ex-sistere), dovuta all’angoscia di scegliere, sospesi sull’incolmabile mancanza dei presupposti esperienziali necessari per poterlo fare con sufficiente cognizione di causa. Infatti, impariamo soltanto dai nostri sbagli e questa è, in un certo senso, la beffa della nostra vita. Dagli altri siamo solo indottrinati. Le storie apprese, per mezzo delle quali tentiamo di orientarci nel mondo, hanno sempre bisogno di essere rivissute e reinterpretate sulla base di un’esperienza in prima persona, per poterci illuminare sulla vita. Hanno bisogno di diventare, a loro volta, la nostra nuova danza relazionale con il mondo intorno, un raggiungimento assolutamente raro.
Il punto cruciale è costituito dalla nostra doppia natura, l’innesto della coscienza riflessiva sulla base vitale della coscienza preriflessiva. Il cogito che s’innesta sul computo, per usare le parole di Morin. È questa, secondo me, una sorta d’inevitabile dissociazione di base, che abbiamo scambiato per “la realtà delle cose”, diventando dualisti e separando l’anima dal corpo o la mente dal cervello.
Sappiamo dagli studi sui neuroni specchio che la mente funziona attraverso un incessante processo di “simulazione incarnata”, che ha sempre come base neurologica il sistema motorio.

Losservazione di un oggetto, pur in un contesto che con esso non prevede alcuna interazione attiva, determina lattiva­zione del programma motorio che impiegheremmo se volessimo interagire con loggetto. Vedere loggetto significa evocare automaticamente cosa faremmo con quelloggetto. Significa immaginare una­zio­ne potenziale: loggetto è lazione potenziale. Le cose, gli oggetti acquisiscono la piena significazione solo in quanto costituiscono uno dei due poli di una diadica relazione dinamica con il soggetto agente, che di questa relazione costituisce il secondo polo (Gallese, 2000).

Sulla base delle considerazioni fin qui sviluppate, si può avanzare l’ipotesi che proprio con la simulazione incarnata avvenga il raccordo fra le due parti, perché, a quel punto, ciò che è pensato è anche sentito. Se vogliamo tirare in ballo il tradizionale argomento (vexata quaestio) dell’accesso al simbolico, dobbiamo dire che tale accesso non si realizza davvero per il fatto di possedere un lessico forbito, ma soltanto quando i racconti evocano scene vissute e, attraverso la loro ri-creazione interiore, l’attivazione del sistema cerebrale motorio alla base della simulazione incarnata.

Il nodo cosmico

L’atto di nascita della coscienza riflessiva è conosciuto intuitivamente da sempre e ben descritto nel mito: nella Genesi esso consiste nella capacità di separare il bene dal male, ovvero nell’instaurarsi della libera scelta, un talento che ci appesantisce a tal punto di responsabilità e di colpa, da essere rappresentato come punizione e condanna, piuttosto che premio e felicità per l’eccezionale traguardo evolutivo raggiunto.
Le macchine, essendo “cose”, non sono in grado di separare il bene dal male, a meno che non le programmiamo noi stessi e non diciamo ad esse come fare. Ma nemmeno gli animali dotati di coscienza primaria sono in grado di compiere una libera scelta. Domandiamoci perché.
Non esiste possibilità di scelta, senza cognizione-immaginazione delle conseguenze di una posizione presa. Sono le nostre teorie, cioè le storie che ci raccontiamo, che ci fanno “vedere” con l’occhio della mente, cioè immaginare e prevedere le conseguenze di un atto. Scegliere significa trovarsi di fronte a un bivio. La storia che ci ha portati fino a qui si biforca in due storie diverse e sta a noi valutare in quale delle due riconosciamo i nostri significati e i nostri valori, perché quella è la via dell’autoaffermazione, dei valori ideali, del mantenimento e del rafforzamento di quella narrazione che sta alla base della coesione del sé; in altri termini, la via del bene, mentre l’altra è la via della crisi e del male.
Seguire la via lungo la quale il nostro sé, cioè la storia che ci raccontiamo a proposito di noi stessi, si sviluppa e si arricchisce è possibile, alla lunga, solo quando tale storia mantiene e sviluppa una validità interattiva e intersoggettiva e si articola costruttivamente con il mondo umano e non umano intorno a noi. In questo caso, l’altro e il mondo ci restituiscono la battuta e collaborano alla prosecuzione della storia, cioè, ancora una volta, alla costruzione del nostro sé.
Maturana e Varela sono due biologi e filosofi della mente che propongono soluzioni di tipo ecologico, molto interessanti e innovative. Due sono i concetti chiave, intrinsecamente collegati tra loro, che essi propongono per venire a capo della questione corpo-mente: chiusura operativa e accoppiamento strutturale (Maturana e Varela, 1987; Varela, Thompson, Rosch, 1991).
L’organismo vivente, nella sua forma elementare, la cellula, è un sistema complesso, caratterizzato da una chiusura operativa che s’identifica, per molti aspetti, con la membrana cellulare. Da un punto di vista fisico e non informazionale la cellula è, ovviamente, un sistema aperto, nella misura in cui vive grazie a uno scambio continuo di energia e sostanze con il suo ambiente, ma è chiuso dal punto di vista della sua organizzazione interna. Infatti, il sistema vivente, è, per definizione, quel sistema che produce continuamente se stesso: è un’organizzazione funzionale, volta al mantenimento attivo dell’organizzazione stessa in cui essa consiste, motivo per cui si parla di auto-organizzazione. Chiusura operativa vuol dire che gli scambi con l’esterno non servono all’organismo per modellarsi in funzione dell’am-biente esterno, secondo l’interpretazione tradizionale della teoria darwiniana, ma unicamente per mantenere in funzione la propria attività auto-organizzativa. Il suo scopo non è l’adattamento, ma l’auto-organizzazione e ciò che accade attraverso l’accoppiamento strutturale con l’ambiente è una progressiva complessificazione della propria organizzazione interna. Per spiegare in cosa consiste l’accoppiamento strutturale farò l’esempio di un uccellino che costruisce il proprio nido: gli importa ben poco se trova pagliuzze o fili di plastica, perché tutto è da lui ritradotto nei termini della sua organizzazione interna, cioè in termini di “cosa serve per costruire il nido”. I fili di plastica, prodotto di scarto dell’attività umana, improbabili polimeri creati dalla lavorazione dei derivati del petrolio, svolgono la stessa funzione, nella complessa organizzazione di vita di un passero, di qualsiasi altro materiale adatto allo scopo. Ma i colori, la resistenza e tutte le altre qualità della plastica possono aprire nuove strade per la costruzione dei nidi o per i cerimoniali amorosi ed essere acquisiti dal passero nella sua evoluzione naturale, come elementi per ulteriore creazione e complessificazione del proprio mondo. La tradizionale visione meccanicistica dell’evoluzione non è sbagliata, ma è semplicemente una visione dall’esterno che serve per modellizzare i fenomeni della natura a partire dal solito punto di vista “divino”, super partes, basato sulla convinzione newtoniana che spazio e tempo siano delle realtà assolute e che la mente dell’osservatore possa collocarsene al di fuori di esse.
A partire dai due concetti base di chiusura operativa e accoppiamento strutturale, si può adeguare la visione del mondo vivente alla rivoluzione einsteiniana, per cui non esiste più un sistema di riferimento assoluto, in questo caso l’ambiente, ma soltanto sistemi in relazione fra loro. Si adegua anche alla rivoluzione quantica operata dal principio d’indeterminazione, perché mette seriamente in questione l’esistenza di soggetto e oggetto come entità distinte. L’organismo vivente non riceve istruzioni e non capta immagini dal mondo esterno, come potrebbero suggerirci gli occhi, le orecchie e tutte le straordinarie capacità percettive degli animali superiori che ci appaiono come “aperte” sul mondo. Nel suo raffinatissimo e super-complesso accoppiamento strutturale, l’organismo vivente crea un mondo dentro a se stesso, cioè un ordine che “danza” con l’ordine dell’altro organismo vivente, o del mondo in rapporto al quale vive. La danza relazionale che incessantemente si svolge fra preda, predatore e ambiente non è più concepita come la tragedia della lotta per la sopravvivenza (mors tua, vita mea), ma la palestra dove danzando si sviluppano organi di senso, muscoli, abilità straordinarie, competenza e conoscenza, in un concerto iper-complesso di relazioni, impegnandosi nel quale ogni strumentista perfeziona sempre più la propria partitura (vita tua, vita mea)[8].
In questa straordinaria visione d’insieme, la vita è un unicum e il fatto che tutti noi viventi condividiamo lo stesso DNA, le stesse proteine, ecc. e che ci differenziamo gli uni dagli altri attraverso un processo di trasformazione continua, basato sui rispettivi accoppiamenti strutturali, ci conferma l’intima connessione nella quale tutti ci troviamo. Mangiamo esseri viventi che mangiano altri esseri viventi, che a loro volta mangiano i raggi del sole… di conseguenza la connessione che tutti ci coinvolge in una rete che non ha confini non è terrestre ma addirittura cosmica, e non a caso il libro di Maturana e Varela (1987) comincia con un excursus cosmologico, spiegando come si sono formati gli elementi chimici della vita, nel corso della vita delle stelle e della loro esplosione finale. Pur restando all’interno della scienza, essi aprono una visione di grande respiro, che collega il funzionamento biochimico alla danza, alla conoscenza e all’universo intero.
Anche il rapporto psicologico interpersonale va inteso, secondo Maturana e Varela, a partire dai concetti di chiusura operativa e accoppiamento strutturale e non come interiorizzazione di prescrizioni o ingresso di input: quest’ultima possibilità ovviamente esiste, ma porta al robot e non all’essere umano che, invece, nell’impresa di mantenersi tale e di evolvere in quanto tale, impara solo da se stesso e dalle esperienze che fa[9]. Ovviamente, homo sapiens fa esperienze umanizzanti soltanto se cresce in un contesto umano: non si umanizza per istruzione o imposizione esterna, ma soltanto attraverso lo straordinario percorso personale e interpersonale della creazione di un mondo all’interno di sé.
A proposito della nostra ascendenza cosmica, possiamo fare lo stesso ragionamento che vale per la vita. Come questa appare tutta così strettamente imparentata e interconnessa, tanto che risalendo nel corso del tempo ci aspettiamo di arrivare a un’unica cellula progenitrice, si pensi, in analogia, all’ipotesi cosmologica più accreditata, il big bang: secondo questa spiegazione dell’universo, tutti gli innumerevoli miliardi di miliardi di particelle di cui l’universo è costituito erano all’inizio una particella sola. Già ogni atomo è una complessa struttura, mentre ogni stella è un vortice di forze in equilibrio. Ogni essere vivente, d’altra parte, crea un mondo, un microcosmo, in relazione con altri microcosmi in reciproco accoppiamento strutturale, fino a costituire, su questo pianeta, un unico mondo della vita nel quale le specie si generano e si estinguono senza sosta. In questa prospettiva, la realtà non può essere più concepita come sostanza e forma, o materia ed energia, o corpo e spirito: la realtà è relazione, interdipendenza universale che si estende fino all’estremo limite.
Susan Oyama, un’autorevole studiosa contemporanea dell’evoluzione naturale, riferendosi alla relazione organismo-ambiente, dice che

«L’ambiente deve essere considerato non solo una fonte di variazione fenotipica… ma come un partner equivalente ai geni nel dare origine agli esseri viventi.
Quello che viene trasmesso tra generazioni non sono i tratti, ma i mezzi (o risorse, o interagenti) per lo sviluppo. Mezzi che includono i geni, la macchina cellulare necessaria al loro funzionamento e il più ampio contesto di sviluppo…
I corpi e le menti sono costruiti, non trasmessi» (Oyama, 1998, p. 30 dell’ed. it.).

Seguendo la stessa logica interazionista e costruttivista, possiamo pensare che le connessioni cerebrali non sono il nostro sé, cioè non sono il soggetto che noi siamo, ma, come i geni, sono dei «mezzi (o risorse, o interagenti)» che, uniti ad altri mezzi che includono tutte le strutture cerebrali, tutta la fisiologia e l’anatomia dell’organismo e il più ampio contesto naturale, storico, affettivo, psicologico e sociale, danno luogo a una straordinaria forma di danza relazionale. Per questo concludo affermando la mia convinzione che il rapporto fra la mente e il cervello è lo stesso rapporto che esiste, nella prospettiva di Oyama, fra essere vivente e gene. Secondo questa prospettiva l’essere vivente non è l’espressione del gene, come la biologia meccanicistica vorrebbe farci credere, ma un complesso sistema evolutivo che si crea nell’interazione costruttiva fra geni, strutture biologiche, contesto di sviluppo inteso nel senso più ampio e ambiente, senza che nessuno di questi termini abbia nessun genere di primato in relazione a tutti gli altri.
Sia la coscienza primaria, sia la coscienza superiore, cioè il soggetto umano nella sua duplice relazione corporea e verbale con se stesso, sono espressione, a livelli sempre più ampi e inclusivi, di relazioni di relazioni, motivo per cui, se ancora vogliamo porre la domanda in termini oggettivi e chiederci dove risieda in definitiva il nostro sé, se abiti dentro, fuori , o in quale punto del cervello, dobbiamo rispondere che esso esiste molto al di là dei suoi pretesi confini, tanto fuori, quanto “dentro” al suo cervello, perché la sua sostanza non si identifica soltanto con l’intreccio dei neuroni, ma anche con tante altre cose che sono “là fuori”, in piena condivisione con altri esseri, umani e non umani, con la natura e con l’universo intero…



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[1] Popper ed Eccles tengono molto a precisare che la loro posizione è dualistica e non parallelistica. Con questo vogliono significare che per loro mente e cervello sono veramente «due realtà separate che interagiscono fra loro» e non due aspetti di un unicum trascendente. Cartesio era invece parallelista, quindi meno “dissociato”! «Secondo me», dice Popper, «l’io in un certo senso agisce sul cervello come un pianista sul piano o un automobilista sui controlli di un’automobile» (Popper e Eccles, 1981, p. 602).
[2] Nella tradizione filosofica occidentale, per “intenzionalità” s’intende il «riferimento di qualsiasi atto umano ad un oggetto altro da sé» (Abbagnano, 1971).
[3] Per dirla tutta, in Heidegger rimane forte l’antipsicologismo che gli deriva da Husserl; vale a dire, egli non si riferisce mai a un singolo, empirico soggetto psicologico, ma a un “Dasein”, che è struttura trascendentale non identificabile con nessun individuo empirico, cioè psicologico. Ma il Dasein non è nemmeno l’Io teoretico, logico e astratto con cui Husserl cerca di ricostruire anche gli stati emotivi; anzi, esso è attraversato dalla “situazione emotiva”, da sentimenti come angoscia e paura della morte, e soprattutto caratterizzato dalla “gettatezza” (Geworfenheit), che significa essere “esposti” a un groppo di determinazioni esistenziali mai intellettualmente riducibili.
[4] Secondo Winnicott (1953, 1971) l’oggetto transizionale è contemporaneamente inventato e scoperto dal bambino.
[5] Anna, una ragazza psicotica diciannovenne, in una prima impasse durante la sua terapia manifestò la pretesa, apparentemente assurda, di essere picchiata dall’analista. Voleva essere picchiata, perché questa le sembrava l’unica possibilità di essere raggiunta nel suo ritiro difensivo (nella “caverna isolata, dentro la mia mente”). Successivamente sviluppò la convinzione delirante che dei “raggi bloccanti” partissero dagli occhi dell’analista per costruire muri dentro al suo cervello, esprimendo in questo modo l’emozione sopraffacente di sentirsi bloccata ogni volta che l’empatia del terapeuta risultava insufficiente. Una terza impasse si manifestò come richiesta impellente di essere totalmente compresa: “Tu puoi comprendere tutta la mia vita, non è vero? Sbrigati! Fallo subito! Dai, forza, fai luce su tutta la mia vita!” (Stolorow, Brandchaft, Atwood, 1987).
[6] Washoe, lo scimpanzé femmina, principale protagonista delle ricerche di Fouts, battezzò “ragazza fiore” la moglie di questi e, riferendosi a lei, la chiamava sempre così. Fu un giovane assistente che, un giorno, comprese il significato del curioso appellativo, quando realizzò che la donna usava regolarmente profumi floreali. Questo precoce uso creativo del linguaggio dimostra già, di per sé, che la coscienza non s’identifica con il linguaggio parlato (con la voce o con i gesti), ma esiste già prima per essere poi riorganizzata attraverso il linguaggio. Da un altro punto di vista, si può dire che la danza relazionale della coscienza primaria, nel momento in cui coinvolge categorie di valore e di significato, costituisce già una forma di “linguaggio”, alla base del successivo apprendimento del linguaggio.
[7] A differenza di Cimatti, non intendo marcare la discontinuità della coscienza riflessiva rispetto a quella preriflessiva: in questo concordo più volentieri con Morin (il primato del “computo” sul “cogito”).
[8] Questa diversa interpretazione dell’evoluzione delle specie trova attualmente in Susan Oyama (1998) la sua più autorevole rappresentante.
[9] Ronald Fairbairn, altro esponente delle relazioni oggettuali, aveva già espresso questa identica convinzione: per lui, a differenza da Melanie Klein, non esistevano oggetti introiettati “buoni”, perché qualsiasi genere di introiezione non poteva altro che essere patologica (Fairbairn, 1952).