Psicoanalisi e religione




Il peccato originale

Il peccato originale costituisce una spiegazione stupefacente della nascita della “coscienza superiore” (Edelman) dell’essere umano[1].
Nell’avvicinarmi a questo argomento sento il bisogno di riandare con le mente a un aneddoto occorsomi ormai tanti anni fa. Infatti, in un periodo in cui viaggiavo spesso in treno, feci un incontro singolare che è rimasto impresso nella mia memoria. Partivo presto il mattino e le levatacce non sono mai state il mio forte. Sul treno, se potevo, mi appisolavo di nuovo, ma quel giorno non c’era verso di trovare uno scomparto sufficientemente vuoto e silenzioso, adatto allo scopo. Per di più, alla prima fermata salì altra gente e presto mi ritrovai nel bel mezzo di un improvvisato comizio. Di fronte a me sedeva una grossa suora dall’aspetto carismatico che io cominciai a osservare di sottecchi, un po’ incuriosito e un po’ intimidito. In meno che non si dica lo scomparto si trasformò in aula di scuola e la suora ci arruolò tutti come suoi allievi. Si venne a sapere che non si trattava di una semplice suora, ma di una madre superiora (non ne avevo dubitato nemmeno per un istante, dal momento in cui l’avevo inquadrata) e di un’insegnante di teologia. Non avevo molta voglia di ascoltare la sua lezione, ma ne fui catturato anch’io, mio malgrado. La suora ci stava spiegando con inaudito fervore che la causa prima di tutti i nostri mali risiede nel peccato originale. Non era l’argomento a colpirmi, ma l’accanimento, la convinzione così forte che sentivo venire direttamente dal suo cuore. La mia mente razionale era indignata: come può un’insegnante di teologia prodigarsi in un argomento così banale? Faceva tanti esempi che non ricordo più, e spiegava tutte le specie di peccati, sempre ricollegandoli alla loro radice unica, il peccato compiuto da Adamo su istigazione di quella peste di compagna obbligata che gli era stata confezionata e affibbiata dal padreterno: Eva. Un’altra parte di me era rimasta affascinata da quell’arringa e solo a distanza di trent’anni credo di cominciare a farmene una ragione.
Quello strano incontro sul treno mi fece riflettere sull’importanza del peccato originale. Fino a quel momento non avevo considerato l’enorme valore che la questione deve per forza mantenere ancora oggi per la coscienza di un credente, eppure è talmente ovvio che sia così. Rappresenta la prima pietra sulla quale poggia tutto l’edificio della nostra religione. Il significato centrale della religione cristiana è quello dell’incarnazione di dio in Cristo, allo scopo di venire a indicarci una via di salvezza da quella tragedia cosmica che aveva segnato l’inizio della carriera propriamente umana dell’essere umano. L’acquisto del libero arbitrio era avvenuto sulla base di una trasgressione disastrosa, con la conseguenza che Adamo ed Eva persero forse molto più di ciò che avevano guadagnato, diventando capaci di distinguere il bene dal male, perché improvvisamente si sentirono smarriti e vergognosi di sé, estromessi dall’incanto nel quale erano nati e cresciuti, stranieri nel rapporto con quel mondo naturale che era stato fino a quel momento la loro culla e la loro casa.
Il discorso uscito dalla bocca della suora rappresentava la voce dell’ortodossia cattolica e probabilmente mi colpì così tanto anche per via del contesto personale nel quale si era improvvisamente inserito. Stavo, infatti, viaggiando sul treno diretto a Milano, per incontrare Silvia Montefoschi, la mia maestra di allora, un personaggio straordinario che aveva il dono di capovolgere immancabilmente ogni idea preconcetta, cosa che io trovavo assolutamente affascinante in quel precoce periodo della mia vita professionale. La posizione di Silvia sul peccato originale era identica a quella che avevano preso gli antichi gnostici, una setta d’intellettuali eretici della prim’ora. È incredibile come la storia si ripeta e quante volte sia già successo ciò che a noi sembra ogni volta così originale e nuovo! Io ero diventato l’allievo convinto di una maestra gnostica che mi seduceva con l’arma dell’intellettualità dissacrante e mi dava il senso di essere fra i pochi capaci di comprendere il significato vero delle cose.
Per gli gnostici e per Silvia Montefoschi il significato del mito delle origini doveva essere completamente rovesciato. C’erano due spiegazioni possibili che rendevano plausibile l’accaduto. La prima era che Dio avesse proibito ai primi esseri umani di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, allo scopo d’incuriosirli e di indurli appositamente in tentazione. Anche nell’ortodossia si è insinuato un germoglio di questa riflessione, mai apertamente dichiarata, ma garbatamente adombrata nel concetto di felix culpa, riferito al peccato originale. La seconda, quella preferita dagli gnostici, era che il dio onnipotente (da loro chiamato Samuele) fosse soltanto un dio esecutore di basso livello e un usurpatore del trono della divinità e volesse impedire per invidia l’ulteriore sviluppo della mente umana, il salto evolutivo che avrebbe destinato l’essere umano a occupare una posizione di assoluto privilegio, forse anche più importante della sua, al centro dell’universo.
Perfino le terribili conseguenze della cacciata dal paradiso erano esaltate da Silvia. L’improvviso stato d’angoscia nel quale il genere umano fu sprofondato era da considerarsi come il segno della distanza riflessiva e della libertà di scegliere. Se questo privilegio era vissuto soggettivamente in un modo così sgradevole (sudore della fronte, partorire con dolore, ecc.), era solo perché una parte di noi stessi ancora si attardava nella nostalgia della perduta condizione animale e rimpiangeva qualcosa che non era assolutamente da rimpiangere, la vita degli esseri bruti, o, meglio ancora, qualcosa che non era mai esistito per davvero, come l’armonia fra tutti gli esseri, o l’immortalità di ogni creatura. Ciò che l’essere umano, diventato finalmente tale, malinconicamente rimpiangeva era soltanto l’illusione causata dal suo precedente stato d’ignoranza ed era compito della psicoanalisi montefoschiana informarlo della sua fortuna e della possibilità di riconoscersi definitivamente nella parte nuova di sé: quell’essere destinato a evolvere gloriosamente sempre di più, creatura spirituale che, una volta per tutte, aveva trovato il coraggio di rompere i vincoli della propria antecedente condizione animale e che mai più si sarebbe girata indietro per rivoltolarsi ancora una volta nel fango. Del resto, anche i filosofi esistenzialisti avevano capito che l’angoscia esistenziale segna la condizione dell’uomo libero e artefice di sé, una condizione di cui andare fieri, da riconoscere come privilegio di acquisita libertà della coscienza e non come deragliamento e malattia. Per Sartre, mentre tutte le cose e tutti gli animali in quanto bruti hanno una natura “in sé” che li definisce e li condiziona, la coscienza umana costituisce invece la novità assoluta di un “per sé”, dal momento che sceglie e si dà la propria natura da sé. Il senso di estraniamento che ne deriva è un buon segno, è segno di autenticità della coscienza e, in questa prospettiva, il peccato originale può essere soltanto qualcosa di cui andare orgogliosi.
Ora viene la parte difficile del discorso e il tentativo di spiegare perché, nel frattempo, il mio pensiero è cambiato e oggi ritengo che l’interpreta-zione canonica del mito sia quella giusta, mentre la posizione gnostica sia completamente sbagliata.
Comincerò aiutandomi ancora un po’ per mezzo del mito. La prima riflessione che posso fare è che quel primo peccato avvenne in un contesto interpersonale: Adamo non prese la mela dall’albero, ma dalle mani della sua compagna. Nella mano di Eva la mela, pur essendo un frutto di natura, non è più tale ed è già un artificio. Mettiamoci nella giusta prospettiva: siamo ancora in un contesto originario, circondati quasi unicamente di forme naturali. La mela però non è più una mela, esattamente come la pipa di Magritte, sotto la quale sta scritto: “questa non è una pipa”. Il colore di quella mela non è rosso e nemmeno verde, ma infinitamente cangiante, come quello di una sfera iridescente, simbolo di una totalità perfetta, nella quale tutti i colori e tutte le forme viventi si integrano e si scambiano, trapassando incessantemente l’una nell’altra, in un gioco senza fine. Come la vita della preda, che diventa vita del predatore, che diventa vita dei vermi, che diventa terra fertile, e così via all’infinito. È la rappresentazione di quell’antica totalità perfetta in se stessa, di quell’armonia del creato e di quell’immortalità di ogni creatura, che non dovrebbe essere mai esistita secondo la visione gnostica della realtà: quella che diversi millenni più tardi il genio di Bateson ha definito come “danza relazionale”, intuendo per primo il rovesciamento di senso della comune interpretazione tragica e moralistica della lotta per la vita (ma di questo parlerò in seguito, spiegando meglio da dove essa proviene, e cioè, circolarmente, dal peccato stesso che si è rinnovato nella dissociazione cartesiana corpo-mente e nella visione scientifica delle cose). La mela-sfera dal mio punto di vista è la rappresentazione del mondo dinamico e perfetto della vita, com’è stato fino a quel momento, cioè di quel tutto vivente che circola entro se stesso, complessificandosi in forme di vita sempre nuove, senza disgregarsi, senza perdere mai nulla di sé. Com’è possibile che quel tutto trovi posto in una mano?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo interrogare un altro protagonista ancora innominato di quella scena primordiale: il serpente. Nemmeno il serpente, per la verità, era un serpente: era stato scelto come simbolo di doppiezza solo per via della lingua biforcuta… come simbolo della capacità di significare, bisognerebbe dire. Il diavolo, in quanto simia dei, è lo sdoppiamento “artificiale” della natura, causato dalla capacità rappresentativa e metaforizzante della mente umana.
Io penso che non ci fosse nessun bisogno di mordere quella mela: bastava averla colta, ma forse il morso vuole rappresentare nel modo più evidente l’effrazione della forma perfetta. Adamo con il suo morso, in realtà, è soltanto uno sciocco, un illuso, un consumatore che non ha la più pallida idea di ciò che sta mangiando. Non è lui che ha compiuto il peccato, ma senza dubbio Eva, nell’atto stesso di dare forma al tutto nella propria mano, creando, antesignana di Magritte, la prima rappresentazione metaforica della storia umana: la rotondità della mela come simbolo della perfezione del creato[2]. In quell’attimo la coscienza si è capovolta, perché dall’essere contenuta come tutte le cose dentro a quella sfera, ne è emersa diventandone il contenitore. La danza relazionale si è spezzata. L’essere umano si è identificato con dio.
Manipolare simboli significa interferire dissennatamente con la creazione. Dalla mela che non è una mela, contenuta nella mano di Eva, alla formula della bomba atomica, il passo in realtà è assai breve. Attraverso la parola abbiamo inaugurato la possibilità di avvalerci d’infinite esperienze mai fatte in prima persona, rubando e moltiplicando infinite volte le competenze altrui, imparando trucchi e funzionamenti d’ogni genere[3], che tutti hanno questo in comune: di non essere farina del nostro sacco, di non essere frutto d’esperienza in prima persona. La percezione di noi stessi, collocati in un mondo di specchi, bottega d’eterni apprendisti stregoni, dove le cose valgono e funzionano per ragioni assolutamente ignote a noi che ce ne serviamo, ci rende spaventosamente estraniati da noi stessi, dall’animale che eravamo e che continuiamo a essere in termini di coscienza primaria, per quel poco che ci resta di vita autenticamente vissuta.
Ciò che oggi sono in grado di riconoscere con grande stupore è proprio il fatto che la madre superiora seduta trent’anni fa di fronte a me in quello scomparto di treno aveva perfettamente ragione, o meglio che il mito dice la pura e semplice verità e per questo motivo non deve essere ribaltato affatto. Cogliendo quel frutto proibito abbiamo dato retta al serpente, cioè al principio di sdoppiamento della realtà e ci siamo malauguratamente identificati con dio: abbiamo imparato a imbastire storie affascinanti ma totalmente assurde e siamo impazziti di una forma di megalomania psicotica le cui conseguenze sono ancora oggi una pericolosa ipoteca per il futuro della vita su questo pianeta. Prendendo sul serio le mille storie, ci siamo persi in una babele di deliri incrociati.
Per la prima volta, ascoltando l’intervista a papa Francesco e la sua risposta alla prima domanda che gli è stata fatta: “Chi è Bergoglio?”, ho capito il senso di un’affermazione assolutamente canonica che in passato avrei giudicato con sufficienza. La risposta è stata: “Bergoglio è un peccatore sul quale Dio ha posato il suo sguardo”. Ho sempre pensato (montefoschianamente) che la “morale dell’umiltà” ostentata dai credenti fosse una forma di snobismo da parte di chi, in realtà, si sente superiore. E forse spesso è davvero così, ma finalmente ho intuito la portata cosmica e la verità possibile contenuta in una posizione di umiltà. Noialtri esseri umani siamo davvero dei peccatori e il senso della nostra vita è di cercare un rimedio per quel peccato che ci ha fatti nascere. Altro che orgoglio esistenzialistico di sentirci smarriti!
Come ho detto all’inizio, il mito si sviluppa nel cristianesimo con la prospettiva di una possibile guarigione della mente umana, attraverso un processo d’incarnazione veicolato dall’amore. Con l’arrivo di Cristo la religione propone una re-incarnazione della coscienza che si era disincarnata nel peccato.
Collocati al di fuori dall’esperienza vissuta e identificati con dio, abbiamo senz’altro bisogno urgente di salvezza, ma di tutto ciò preferisco continuare a parlare abbandonando la metafora mitologica, e facendomi piuttosto portavoce dei rivoluzionari sviluppi scientifici che stanno aprendo la strada a un modo completamente nuovo di pensare la coscienza e la vita.


La coscienza primaria

Il peccato originale rappresentò l’atto di nascita della “coscienza superiore”, secondo la terminologia di Edelman, e avvenne sulla base dell’e-sercizio ormai lungamente consolidato della coscienza primaria, quella forma di coscienza procedurale senza parole che condividiamo con tutti gli altri animali vertebrati e che a sua volta rappresentò, molti milioni di anni fa, l’emergere di una novità assoluta nel regno della vita.
Negli ultimi decenni si è aperto uno squarcio di conoscenza sulla psicologia dello sviluppo e sullo scambio non verbale genitore-bambino per merito dell’infant research. È stato un mio privilegio poter incontrare personalmente tramite la SIPRe (Società Italiana di Psicoanalisi Relazionale), di cui ero socio, alcuni protagonisti di queste straordinarie scoperte: Tronick, Harrison e Downing sono stati infatti a più riprese ospiti nostri, in occasione degli incontri/confronti che furono organizzati nel corso degli anni.
Quando osservai per la prima volta i filmati di Downing sull’interazione madre-bambino, nella loro scansione di attimi, decimo di secondo per decimo di secondo, provai la stessa emozione come se avessi per la prima volta messo il mio occhio all’oculare di un potente microscopio dove l’invisibile diventava improvvisamente visibile! Diventava visibile la danza relazionale di mimica e di gesti che si svolgeva in quelle immagini, la fitta trama della comunicazione procedurale, attraverso il quale si costruisce continuamente la base del proprio essere e si rappresenta ciò che si è e ciò che progressivamente si diventa.
Anni più tardi provai di nuovo la stessa emozione di fronte ai filmati di video-micro-analisi di Alexandra Harrison, dove lei stessa compariva sulla scena, nell’interazione terapeutica con i suoi piccoli pazienti. Quando scrissi il mio commento alla relazione che Alexandra ci presentò in quell’occasione, provocatoriamente parlai della mia esperienza di rapporto con una gazza ladra, ma non intendevo affatto sminuire la portata del suo lavoro e, in generale, dell’infant research. Intendevo, anzi, allargarla ulteriormente in senso etologico, trans-specie, per significare come quella dimensione basilare della nostra psiche ci imparentasse molto profondamente con tutto il regno animale, per lo meno con tutti i vertebrati, come sostiene Edelman. Lo penso veramente e sono emozionato da questo pensiero.
Anni fa ebbi, effettivamente, la fortuna di compiere una straordinaria esperienza di comunicazione e scambio con una creatura di specie piuttosto diversa dalla nostra: una gazza ladra, per l’appunto. Quando mi trasferii ad abitare nella casa di campagna dove tuttora vivo, trovai ad attendermi questa simpatica creatura che si offrì fin da principio come assistente nei lavori di giardinaggio. Era molto curiosa di guardare dentro alle buche che scavavo per interrare le piante ed è così che cominciammo a prendere confidenza: io scavavo e poi mi fermavo, rispettando scrupolosamente quella che adesso, grazie ad Alexandra, so chiamarsi una switching pause, per lasciare all’animale la possibilità di esplorare il fondo della buca. Dopo 30 secondi, la gazza usciva dalla buca e mi lasciava il turno, così potevo interrare la pianta. Al termine della trentacinquesima buca (siepe di gelsomino) eravamo perfettamente sincronizzati. Con il crescere della confidenza, nei giorni e nei mesi, la bestiola si fece più coraggiosa e alla fine divenne ospite fissa a pranzo e a cena. Ero molto ammirato dalla sua destrezza, peraltro leggendaria: era impossibile, nonostante la confidenza raggiunta, riprendere dal suo becco qualsiasi cosa avesse rubato. Per quanto veloce fosse il gesto della mia mano, a lei bastava un colpo d’ali per porsi beffardamente un palmo più su, sospesa nell’aria. Non so come, ma a un certo punto questa sfida divenne un gioco: il “gioco della povera gazza perseguitata”. Entrambi prendemmo gusto alla cosa, ma la gazza divenne una vera fanatica del gioco. In qualsiasi momento del giorno era capace di presentarsi con una foglia o un rametto nel becco. Io cercavo di portarglielo via, ma non ci riuscivo mai. Progressivamente, il gioco si fece più complesso: la inseguivo in giro per il giardino, mentre lei faceva versi (presumo) di finta disperazione. Signorilmente e per puro gusto del gioco, la gazza aveva rinunciato a volare durante le nostre partite, limitandosi a correre comicamente sulle sue zampette, esprimendo così una particolare forma di empatia (o di caricatura) nei confronti di me che la inseguivo, avvantaggiandosi soltanto delle sue piccole dimensioni, per infilarsi nei pertugi dove comunque non potevo raggiungerla. Memore di una fiaba di Fedro, antica rimembranza di scuola, riuscii un giorno a batterla in maniera sleale. Era assolutamente golosa di pinoli e così gliene presentai un mucchietto sul palmo di una mano. Subito, per bramosia del cibo, lasciò cadere il trofeo particolarmente interessante che teneva nel becco, una piccola palla di gommapiuma colorata, che mi era servita per la riabilitazione della mano dopo la rottura di un gomito, e io ne approfittai per portargliela via. Non mi sarei mai immaginato che un uccelletto di quelle modeste dimensioni fosse capace di reagire in maniera così violenta e rabbiosa. Divenne una furia. Strepitando come un’ossessa, si avventò su di me e non si calmò finché non mi ebbe ripetutamente beccato sulla testa[4].
Qualcuno mi ha detto che una gazza non può avere le emozioni che io le ho attribuito e che tutto il racconto rivela soltanto la proiezione delle mie. Si tratta di una convinzione tradizionale, espressione diretta di quella dissociazione corpo-mente che identifica la coscienza con le parole e ci riporta all’inizio del discorso sul peccato originale. Io so benissimo che una gazza in natura non si comporta così. Ma devo anche testimoniare che nella relazione con me una gazza si è comportata proprio in quel modo! Cosa significa questo? Significa che la mente di una gazza è in grado di condividere con quella di un essere umano uno spazio transizionale di gioco, nel quale è possibile creare comportamenti condivisi e trarre da essi divertimento e gioia. Tutto questo non ha niente a che fare con l’ammaestramento di un animale secondo un metodo di premio e punizione: si tratta di una cosa completamente diversa, una creazione condivisa e non una sottomissione dell’animale all’uomo.
Secondo Edelman vi sono quattro requisiti neurologici che nel corso dell’evoluzione si realizzano per la prima volta tutti insieme negli animali vertebrati e stanno alla base dell’insorgere della coscienza primaria. Il primo è una proprietà condivisa da tutti gli animali, la categorizzazione percettiva, cioè la capacità di suddividere il mondo dei segnali in categorie utili per una determinata specie. Il secondo è lo sviluppo dei concetti. Per “concetto” Edelman non intende qualcosa come una sintesi mentale di ordine superiore, ma la capacità di astrarre un carattere comune, combinando differenti categorizzazioni percettive: anche il piccione possiede la capacità di sviluppare concetti. Egli suggerisce che questa capacità derivi «dal mappaggio, operato dal cervello, dell’attività delle sue stesse regioni ed aree» (Edelman e Tononi, 2000). Il terzo requisito è la memoria legata al “valore”, il che vuol dire influenzata da ciò che l’organismo cerca o rifugge sulla base delle proprie necessità del momento, e il quarto è costituito dalla caratteristica anatomica più affascinante del cervello, che si è progressivamente sviluppata e complicata sempre di più nel corso dell’evoluzione: il rientro. Il rientro consiste nel collegamento retrogrado che connette costantemente in senso contrario tutte le aree del cervello che sono collegate fra loro in un certo senso e che consente la ricorsività, la risonanza e la selezione dei diversi circuiti neurali e sta alla base del legame fra diverse mappe, senza che ci sia il bisogno di una mappa di ordine superiore (il famoso homunculus).
A questo punto, nell’interazione dell’animale con il suo ambiente si manifestano le entità psicologiche più elementari che possiamo immaginare: le scene della coscienza primaria.
Da un punto di vista neurologico, una “scena” costituisce l’irruzione di una particolare configurazione di memoria che, sollecitata nel momento presente da una determinata gestalt percettiva, va retroattivamente (rientro!) a ricostruire una corrispondente configurazione di attivazione dell’area percettiva, determinando una sorta di sovrapposizione allucinatoria sulle percezioni in corso di svolgimento. Ciò che l’animale “vede” è ciò che sta per accadere sulla base dell’esperienza fatta, il che giustifica il termine molto suggestivo di “presente ricordato” (Edelman, 1989) – anche se mi sembrerebbe più appropriato dire: “presente allucinato”.

Consideriamo allora un animale nella giungla che percepisce un cambiamento nel vento e dei rumori insoliti sul far del crepuscolo. L’animale potrebbe fuggire pur non esistendo evidenti pericoli. Cambiamenti del vento e rumori si sono già presentati indipendentemente in passato, ma l’ultima volta che si sono manifestati insieme è comparso un giaguaro: nella memoria di quell’individuo cosciente esiste una connessione, anche se non si può dimostrare che sia causale. [… l’animale in questione sta collegando] eventi o segnali in un scena complessa, costruendo relazioni basate sulla propria e unica storia di risposte dipendenti-dal-valore. (Edelman e Tononi, 2000, p. 129).

Abbiamo improvvisamente a che fare con un vero e proprio sdoppiamento della percezione. La cosa più importante da considerare è che questo sdoppiamento, ovvero riflessione avviene totalmente a livello procedurale. La riflessione che si realizza nel rapporto dell’animale vertebrato con il suo ambiente crea, da una parte, un nuovo anello che s’inserisce nella ricorsività della danza relazionale, ma d’altra parte costituisce anche l’emergere di un livello di complessità assolutamente nuovo, caratterizzato dal fatto che, a questo punto, gli eventi valgono non tanto per quello che sono, ma soprattutto per quello che potrebbero diventare. Per questo motivo sarebbe ancora più appropriato parlare di “futuro ricordato”, piuttosto che di presente ricordato e dire che il presente si costituisce come presentificazione di un futuro possibile – un futuro costruito come una copia dell’esperienza passata. Dal passato si attinge un futuro possibile ed è questo il passaggio cruciale che, a partire dal primo animale vertebrato che per la prima volta si è spaventato allucinando una scena del proprio futuro imminente ci ha resi improvvisamente presenti al mondo. Psiche e tempo nascono insieme, perché la psiche, nella sua organizzazione primaria, non è altro che la presenza-fantasma di un futuro possibile che nasce dal passato.
A questo punto la danza relazionale si complica, perché da questo momento in poi dovrà accogliere tanti nuovi personaggi nelle proprie coreografie, che sono tutte immagini allo specchio e tuttavia capaci di interagire e d’inserirsi prepotentemente nel corso degli eventi. All’inizio non c’è un soggetto che vede il giaguaro, ma solo questo fenomeno emergente: una “visione” del giaguaro, o meglio un fantasma che si riflette nella luce dello specchio del neonato spazio mentale. Solo in seguito, esplorando progressivamente il mondo e popolandolo delle proprie visioni, l’animale vertebrato raccoglie un patrimonio crescente di memoria e di competenza e arriva a cogliere l’elemento comune a tutte le scene: il “se stesso” che arriva sulla scena[5].

Dalla dimensione allucinatoria della coscienza primaria a quella delirante della coscienza superiore.

Torniamo all’inizio e a ciò che il peccato originale sta a significare. L’acquisizione del linguaggio fa sì che la coscienza si allontani dal gioco delle percezioni-allucinazioni del presente ricordato e si riorganizzi attorno al dialogo interno, il dialogo sostenuto dalle narrazioni che annodiamo senza interruzione, raccontandole al tu con il quale interiormente sempre dialoghiamo, collegando le cifre verbali in complesse costruzioni narrative. È così che realizziamo un’incredibile presa sul mondo[6] e riusciamo a creare “le cose”, fisicamente e mentalmente, conquistando quella rassicurante convinzione che sperimentiamo come costanza d’oggetto. Inoltre creiamo un personaggio protagonista, il manipolatore delle cose, “il soggetto”, e ne organizziamo la storia.
È molto interessante, anzi è straordinario, che si sia potuto osservare in diretta e dal vivo l’innesto della coscienza narrativa sulla coscienza primaria: un’impresa grandiosa che ha destato ben poco scalpore.
Come ho spiegato nel mio articolo online “Il nodo cosmico: mente e cervello sono una cosa sola?” (SCRIPT, n. 21), Roger Fouts, biologo dell’università dello stato di Washington, ha dedicato una vita intera all’esperimento defatigante e per certi versi anche crudele d’insegnare il linguaggio dei sordomuti agli scimpanzé (Fouts, 1997). La genialità di Fouts (a dire il vero del suo maestro Allen Gardner che lo iniziò e quasi lo costrinse al lavoro) fu quella di lasciare perdere il linguaggio verbale, con il quale si ottenevano solo poche inutili parole dal timbro cavernoso, e di passare a quello dei gesti, il linguaggio americano dei sordomuti (LSA). Questo risulta piuttosto congeniale agli scimpanzé che, nel corso di un lungo allenamento, arrivano a usare disinvoltamente fino a 130 parole e a comprenderne più di 400. La cosa più sorprendente è che sono presto capaci di fare un uso creativo del linguaggio, associando le parole in maniera assolutamente originale[7] e ancora più sorprendenti sono i cambiamenti psicologici di personalità che progressivamente si verificano in loro.
Lo scimpanzé in natura è capace di usare utensili, per esempio una pertica per accedere a un casco di banane troppo alto per essere raggiunto diversamente; è necessario però che banane e pertica siano presenti nello stesso campo visivo. La coscienza primaria, infatti, presenta il limite ferreo di essere governata dalle percezioni: anche le associazioni d’idee, le illuminazioni di cui abbiamo parlato (in questo caso, il richiamo della scena “pertica-banane” e l’illuminazione che ne consegue) sono un presente ricordato, richiamato alla mente dallo stimolo delle percezioni. Non presenta più questa limitazione lo scimpanzé parlante. La pertica può trovarsi anche nella stanza accanto, ma siccome il collegamento avviene, a questo punto, sulla base del dialogo con se stesso, egli riesce a collegare creativamente le due scene raccontandosi una storia. Cosa può essere intervenuto, a questo punto, a livello di organizzazione mentale, per creare la differenza? Come sostiene Cimatti (2002), si è organizzata una storia di sé e una storia del mondo intorno a sé, e in questo racconto continuamente raccontato consiste la nascita del sé e degli oggetti e il senso della continuità del sé e del mondo oggettuale, che crea la memoria di un passato e si estende progettualmente verso il futuro.
A perfetta dimostrazione di ciò, troviamo il racconto straziante della morte del cucciolo di Washoe, il primo e il più famoso degli scimpanzé parlanti di Fouts (Fouts, 1997). In natura, se uno scimpanzé vede morire un amico o un parente si dispera intensamente, ma solo fin tanto che ne percepisce la disgrazia. Girato l’angolo, viene distratto da nuove percezioni e si allontana dal suo dolore. Non così per la povera Washoe che, avendo inserito l’esperienza di quella perdita nella narrazione di sé, cioè nel proprio sé, era perfettamente in grado di ritrovarne il ricordo, ogni volta che il discorso cadeva su argomenti analoghi (madri, bambini, persone morte…) e ogni volta era riafferrata dal proprio dolore.
Spostandoci dall’immediatezza del presente ricordato al piano più alto al quale il linguaggio inevitabilmente ci conduce, cominciamo ad annodare le scene in storie e a filtrare, ad anticipare e a vivere le nostre esperienze sulla base di questi nessi di più ampio respiro. Per il bene e per il male, non diamo più lo stesso credito alle nostre “percezioni immediate” (in realtà mediate dalla memoria molto veloce delle scene ricordate, elaborate dall’inconscio procedurale). Provocatoriamente, si potrebbe affermare che alla percezione allucinatoria del presente ricordato si sostituisce il delirio affabulatorio di un mondo immaginario, nel quale il processo di acculturazione ci introduce senza via di scampo, alienandoci ogni giorno di più da quel valido animale mammifero che eravamo.
Da questo punto di vista, avevano proprio ragione gli esistenzialisti nelle loro riflessioni sulla “tragedia” di esistere (ex-sistere), dovuta all’angoscia di dover scegliere, beffardamente sospesi sull’incolmabile mancanza dei presupposti esperienziali necessari per poterlo fare con sufficiente cognizione di causa: sappiamo sempre soltanto dopo quale sarebbe stata la scelta migliore. Il fatto è che impariamo soltanto dai nostri sbagli e questa è, in un certo senso, la beffa della nostra vita. Dagli altri siamo solo indottrinati. Le storie apprese, per mezzo delle quali tentiamo di orientarci nel mondo, hanno sempre bisogno di essere rivissute e reinterpretate sulla base di un’esperienza in prima persona, per poterci illuminare sulla vita. Hanno bisogno di ricollegarsi in qualche modo, almeno un po’, alla nostra danza relazionale con il mondo intorno.
Le narrazioni della nostra cosiddetta coscienza superiore interferiscono inevitabilmente con la coscienza primaria, la interrompono in continuazione e si collocano come percorsi ipotetici di fronte a noi, spesso ingannevoli, a volte preziosi, o addirittura salvifici (deus ex machina). Le due coscienze possono integrarsi e collaborare, creando in noi il senso della vita piena, oppure intralciarsi, divergere e confliggere, dando luogo a tutte le forme della psicopatologia.
A livello di coscienza primaria, ogni scena allucinata che si presenta nella nostra mente come immediata risposta a una determinata percezione è puntualmente e velocemente corretta (cioè confermata o smentita) dalla percezione successiva e tutto funziona bene. Il guaio si verifica a livello di coscienza superiore, dove questo anello retroattivo manca quasi completamente. Il motivo per cui è tanto difficile capirsi quando si appartiene a etnie, religioni, nazioni diverse o anche semplicemente si è passati attraverso formazioni diverse, è che le nostre narrazioni portanti, le convinzioni che abbiamo assimilato, condizionano pesantemente le spiegazioni che ci diamo riguardo alle esperienze che facciamo. Nei confronti della realtà nella quale siamo tutti immersi, ci troviamo spesso con i nostri simili nella condizione descritta in quella famosa storiella, dove un gruppo di ciechi cerca di capire com’è fatto un elefante. Chi palpa la proboscide si fa un’idea completamente diversa da chi palpa la coda, e così via. Nel dialogo interpersonale

ogni comprensione è un processo attraverso cui, in prima istanza, proiettiamo significati totali sulla base di significati parziali per poi, in seguito, modificare tali proiezioni sulla base del contatto che avviene nella conversazione con l’altra persona. In altre parole, quando noi comprendiamo qualcosa, significa che siamo stati in grado di trattare le nostre proiezioni come ipotesi; quando invece non comprendiamo, significa che non siamo stati capaci di adottare questo grado d’incertezza (Donnel Stern, 2007, p. 295).

Tutti sappiamo quanto sia faticoso questo processo di negoziazione e di reciproca comprensione: esso dipende non solo dalla motivazione personale, dalla disponibilità, dalla tolleranza e dall’empatia vicendevole, ma ancora di più dal grado di elasticità mentale dei partner.

La coscienza superiore

La definizione di “coscienza superiore” è utilizzata da Edelman per riferirsi a quella che tradizionalmente è stata denominata come coscienza riflessiva o coscienza consapevole di sé. Queste ultime definizioni non mi corrispondono affatto. Se da un lato, come ho già spiegato, io credo che la riflessione caratterizzi la coscienza tout court e, in primo luogo, la coscienza primaria, d’altra parte mi sembra che tutte queste espressioni vogliano significare lo stesso concetto: la coscienza superiore sarebbe capace di avere come oggetto di coscienza anche se stessa e la relazione di coscienza fra se stessa e il proprio oggetto altro da sé. Ma tutto il mio discorso introduttivo sul peccato originale intende proprio dimostrare che le cose non stanno così! La coscienza superiore non ha affatto a disposizione questa super-capacità riflessiva, per mezzo della quale sarebbe in grado di porre come oggetto di coscienza se stessa. Questa convinzione diffusa rappresenta l’esempio perfetto del delirio d’onnipotenza che pesa come una disastrosa ipoteca sull’affidabilità della coscienza superiore. Ciò che essa è in grado di porre come oggetto di coscienza non è se stessa, ma unicamente la rappresentazione di se stessa, o meglio quella di un personaggio appositamente creato per recitare il ruolo di protagonista nelle proprie storie. Proprio questa costante identificazione con i personaggi delle nostre storie è ciò che rende disincarnata la coscienza superiore.
Mi sembra molto più appropriato affermare che la coscienza superiore è la coscienza narrativa: la coscienza che non riflette sulle percezioni con l’immediatezza allucinatoria del presente ricordato, ma sulle metafore verbali, alla luce delle quali esamina l’esperienza in corso, inserendola nella rete di connessioni delle storie che si racconta. Nelle nostre narrazioni c’è ampio spazio per ogni sorta di personaggi e di vicissitudini, compreso il nostro Sé e tutte le relazioni che esso stabilisce con i propri amici e i propri nemici.
Mi ha sempre molto colpito la teoria di Fairbairn sul sogno. Egli intendeva i sogni come “cortometraggi” nei quali il nostro mondo interno presenta se stesso, così com’è. I diversi personaggi in gioco rappresentano, secondo lui, tanti diversi modi di essere del soggetto e dell’oggetto e i diversi generi di relazione fra loro. Quell’approccio al sogno è stato poi reinventato da Kohut per definire e interpretare i cosiddetti “sogni sullo stato del Sé”.
Ciò che accade, secondo me, è che nel sogno le due coscienze s’incontrano. La narrazione della coscienza superiore è continuamente interrotta dal processo primario che concretizza la metafora prodotta dalla narrazione in corso e reagisce ad essa nel proprio modo, cioè con un’allucinazione che proviene dall’attivazione retrograda dei sensi. Sull’allucinazione riflette poi a suo modo la coscienza superiore, imbastendo una sua nuova narrazione che, sul più bello, di nuovo viene concretizzata, percepita e riflessa a livello primario… per cui si può dire che il sogno nasce dal buffo, continuativo, contendersi il campo tra le due coscienze. In questa sorta di negoziazione fra le due coscienze si inserisce il contributo della coscienza primaria con l’intuito selvaggio che la caratterizza, motivo per cui le nostre narrazioni, da essa interrotte e deviate, prendono strade a noi assolutamente precluse nella vita da svegli.
L’artista è capace di sognare da sveglio, come anche lo scienziato creativo e, in generale, il pensatore creativo. Nel mio tentativo di presentare un esempio di come possano collaborare le due coscienze, cito spesso un brano tratto dal Martin Eden di Jack London:

«Mentre il professore parlava, Martin si rese conto che gli venivano alle labbra i versi del Canto degli Alisei […] Stava quasi per sussurrarli, quando si rese conto all’improvviso che l’altro gli ricordava gli Alisei, quelli di nord-est in particolare, che soffiavano costanti, freddi e forti. Era sincero, quel professore, e si poteva contare su di lui, eppure c’era in lui qualcosa d’inafferrabile. Martin avvertiva che non diceva mai tutto quello che pensava, proprio come gli Alisei, che non soffiano mai con tutta la loro forza, ma sempre ne conservano da parte un poco. L’immaginazione di Martin era viva come sempre e la sua mente un archivio di ricordi e fantasie, dove si entrava con facilità e dove tutto era sempre messo in ordine, pronto per venir ispezionato. Qualsiasi cosa gli accadesse a un dato momento, la mente di Martin immediatamente gli presentava associazioni con antitesi e similitudini che, di solito, prendevano forma di visioni. Era una cosa praticamente automatica e la sua forza visionaria lo accompagnava, senza cedimenti, attraverso la vita presente» (London, 1909; p. 272 della trad. it.).

Già Freud con la tecnica delle libere associazioni si era inserito su questa via:

La cornice psicoanalitica (ad esempio, l’uso del lettino) e la tecnica psicoanalitica (ad esempio, il metodo delle libere associazioni usato da paziente e analista) servono per accrescere in entrambi i partecipanti la capacità di raggiungere una condizione mentale che permetta l’accesso a quella continua conversazione interna con se stessi che si presenta come sogno durante il sonno e come reverie durante la veglia (Ogden, 2001).

Antonino Ferro (2010) suggerisce apertamente di ascoltare le narrazioni dei pazienti come se fossero sogni, soprattutto quando il processo analitico ristagna e non sappiamo come restituirgli un respiro:

Un collega mi telefonò, perché un paziente era tornato da lui dopo molti anni e diceva di volerlo uccidere. Secondo il paziente, in seguito all’analisi si era sposato, aveva avuto dei figli e aveva continuato il suo lavoro, ma era poi giunto a sentirsi imprigionato e non realizzato: si era reso conto che avrebbe desiderato fare qualcosa di più creativo e la sua vita ora gli sembrava sprecata. L’analista era così spaventato che era ricorso alle guardie del corpo. (…) Il paziente sosteneva di non voler pagare a causa di un arrossamento della pelle che necessitava, per guarire, di una pomata molto cara reperibile solo in Svizzera. 
(…) Provai a pensare a tutto questo come se fosse un sogno. Come se l’analista mi avesse detto: ho fatto un sogno in cui c’era un paziente che tornava da me dopo tanti anni, non mi voleva pagare e aveva la pelle rossa. Così mi si accese una lampadina ed improvvisamente compresi che il vero problema era il pellerossa, cioè l’indiano. C’era bisogno di qualcosa che “svizzerasse” il pellerossa. È probabile che anche il Cheyenne dell’analista si sentisse un po’ stretto in quel periodo e che si fosse alleato con l’Apache del paziente; l’alleanza dei due indiani aveva fatto venire una paura blu al mio Collega che temeva di non essere più capace di contenerli. Fu sufficiente aiutarlo a ricontattare il suo “pellerossa” interiore per dare un po’ più di spazio ai bisonti nelle proprie praterie, perché il terapeuta riuscisse ad arginare il “pellerossa” del paziente, che calmato riuscì a riprendere regolarmente la propria analisi (Ferro, 2010, p. 48).

Lo zen, a sua volta è una forma di meditazione che ha lo scopo di portare la coscienza a livelli più profondi della combinazione di parole. Ciò appare evidente soprattutto nelle tecniche applicative di cui si avvale:

(…) quanto meglio un organismo “conosce” qualcosa, tanto meno esso diviene conscio di questa conoscenza; esiste cioè un processo per cui la conoscenza (o “abitudine”, non importa se di azione, di percezione o di pensiero) scende nella mente a livelli sempre più profondi. Questo fenomeno, che è fondamentale per la disciplina Zen (si veda in Herrigel, Lo Zen e il tiro con l’arco, Adelphi, Milano, 1975), è altresì importante per ogni arte e per ogni abilità tecnica (Bateson, 1972).

La coscienza incarnata

La mela in mano a Eva è una rappresentazione della totalità, ma non è la totalità che ci comprende. È il dito che indica la luna, ma non è la luna. Si tratta di realizzare una disillusione profonda e riconoscere come pura illusione e gioco di specchi la sensazione inebriante di essere usciti da quella sfera, di poterla guardare da fuori e dominare, tenendola nel palmo della mano. La verità è che, divisi fra occhio che guarda da fuori (dove non è!) e reificazione di noi stessi in un corpo-macchina che cammina, ci muoviamo costantemente sull’orlo dell’insostenibilità. Ma disilluderci non è per niente facile. L’altra faccia del realismo prodotto dalla dissociazione cartesiana è il nichilismo, cioè la perdita di ogni significato ed è in quell’alternativa che rischiamo di cadere.
Secondo Raimon Panikkar (2006), monaco contemporaneamente cristiano e buddhista, nemmeno il divino può consistere in un punto di riferimento super partes (un essere al di sopra di tutti gli esseri) ma piuttosto nella matrice relazionale che plasma e tiene in vita ogni essere particolare. Facendosi interprete cristiano della tradizione buddhista, egli ribadisce che ogni domanda e ogni tentativo di spiegazione dei fenomeni basato sulla ricerca delle cause e degli effetti ci fa inevitabilmente cadere nell’equivoco di una circolarità senza fine. È solo nell’estinzione di ogni domanda e nell’accettazione consapevole e incondizionata del gioco di cui siamo parte integrante con la nostra coscienza primaria e con la nostra coscienza superiore che possiamo trovare pace. Secondo questa impostazione, l’illuminazione buddhista consiste in un inevitabile allargamento dei confini che delimitano il proprio sé.

(…) la visione di tutto il cosmo in un’intuizione unitaria che mostra la concatenazione di tutto con tutto, la mutua responsabilità di tutti gli esseri, la caducità di tutto e la nullità dell’intero cosmo. Il Buddha non vede l’aldilà, ma la totalità e l’interdipendenza dell’al di qua. Anzi, l’origine di una cosa dall’altra è la chiave per comprendere l’impressione di sostanzialità che possono dare le cose se viste isolatamente. Quando si scopre che ogni cosa non è che il risultato, la modificazione, il conseguimento, l’effetto, la condizione di un’altra, e questa a sua volta di un’altra ancora e così via senza che sia necessario alcun fondamento a questa reazione; quando si scopre la circolarità di tutto ciò che esiste (il che è come intuirne la contingenza); quando si riconosce la concatenazione universale senza possibilità di uscita né in avanti, né indietro (cioè nel tempo), né sopra, né sotto (cioè nello spazio), né dentro, né fuori (ossia, né per l’immanenza, né per la trascendenza); quando l’accerchiamento è totale, è allora che può scaturire l’intuizione della radicale contingenza di tutto, compreso il soggetto che la scopre.
(…) Ma proprio il fatto di scoprire l’irrimediabile contingenza, la finitezza, l’impermanenza e la “nullità” ultima dell’uomo e del mondo che lo circonda, di accettarne l’inesorabilità, è la salvezza, la scoperta che conduce alla vacuità più completa, cioè al nirvana (Panikkar, 2006, pp. 110-111).

L’ultimo paragrafo citato contiene un’affermazione dall’apparenza piuttosto indigesta. Finché si tratta d’immaginare il nostro modo di essere nel mondo come quello di una parte che interagisce con tutte le altre, in uno scambio necessario per garantirne la sopravvivenza, va tutto bene. Rientra nella forma più comune del pensiero ecologico, un percorso mentale che si può tranquillamente sviluppare senza sconvolgere le normali categorie di pensiero. Quando invece entrano in ballo l’impermanenza e la nullità, allora si capisce che la relazione di appartenenza al tutto di cui stiamo parlando non ha più niente a che vedere con quella di un ingranaggio che s’inserisce in un meccanismo più grande di sé. In effetti, la scoperta buddhista relativa all’impermanenza e alla “nullità” dell’uomo e del mondo che lo circonda va intesa, piuttosto, come l’abbandono di ogni identificazione con le tante concretizzazioni prodotte dalla coscienza disincarnata, da quella coscienza che ha sostituito la realtà con la rappresentazione della realtà[8].
Riprendendo ancora una volta al nostro punto di partenza costituito dal peccato originale, è affascinante considerare l’asse portante del grande ciclo mitologico costituito da: coscienza narrativa che metaforizza la realtà, disincarnazione, presunzione, angoscia esistenziale, smascheramento dell’inganno, reincarnazione della coscienza significata dal messaggio cristiano. Quest’ultimo dice: “ama anche chi è diverso da te (il tuo nemico)” ed è un po’ come se dicesse: “riconosciti anche in ciò che credi di non essere e smetti di separare e contrapporre con tanta presunzione il bene e il male (dato che cambiano continuamente di posto)”. Si tratta di una raccomandazione piuttosto pericolosa per la stabilità di tutte le nostre convenzioni istituzionali!
Ma torniamo con Edelman nella savana, a contemplare quel miracolo che fu l’atto di nascita della coscienza primaria, il vero principio di tutto. Il fantasma del futuro prossimo è già in agguato, come uno spirito che aleggia invisibile e silenzioso attorno alle tante ignare creature senza tempo e senza storia ed è pronto per fare il suo ingresso nella danza relazione della loro vita. L’allucinazione del giaguaro improvvisamente irrompe nella mente dell’antilope[9], producendo in lei un’emozione violenta. Un animale vertebrato è chiamato per la prima volta a essere un individuo e non più il rappresentante generico di una specie. Da una parte c’è l’antilope con i sensi tesi a cogliere i segnali sottili provenienti dall’ambiente che la circonda, dall’altra non c’è nessun giaguaro, ma qualcosa che ne palesa la possibile presenza nascosta: qualcosa che lo rappresenta, come un suo doppio sottile. Possiamo forse dirci che a questo punto l’antilope ha ricevuto un’anima e che le frasche e tutto il mondo intorno a lei siano improvvisamente diventati gli angeli annunciatori? In un certo senso è proprio così! Ma allarghiamo lo sguardo: se nel cervello dell’animale si è attivato un circuito di rientro che consente alla memoria di sovrapporsi allucinatoriamente alla percezione, che dire della magistrale orchestrazione ambientale, degna dell’opera di un artista consumato, capace di mettere insieme colori, odori, rumori, umidità dell’aria e quant’altro, capace perfino di tirare fuori il giaguaro dalla memoria dell’antilope, come un coniglio dal cappello? Ciò che sto insinuando è che siamo di fronte a una circolarità perfetta e questa circolarità è la mente, a livello di coscienza primaria. Non esiste ancora un personaggio-antilope, perché nella mente di quell’animale non c’è nessuna coscienza narrativa. Però c’è una storia individuale che progressivamente si accresce, crea competenza e presto diventerà materia di scambio “culturale” nel rapporto sociale con i propri simili. A quel punto si determineranno dei ruoli, capaci di metaforizzare tali competenze, ma questi per ora non saranno ulteriormente metaforizzati, perché nessuno racconterà ai posteri le imprese di quel particolare capobranco, ecc.
Il punto è: insorge la coscienza e non c’è nessun soggetto che ne sia titolare. Possiamo dire che il comportamento dell’antilope è cambiato, che adesso l’animale è capace di esprimere con tutta la propria fisicità dei sentimenti di attesa, di paura, di speranza, di affetto e che è diventata capace di vivere in una dimensione relazionale, oltre che di avere delle relazioni, per quanto non sia capace di compiere nessuna scelta riguardo alle relazioni che mantiene, nemmeno quella di viverle oppure no. Possiamo anche chiamare “interiorità” questa nuova dimensione, se per interiorità intendiamo una dimensione nella quale si sviluppano le emozioni, motivando per mezzo di queste i propri comportamenti, al di là dei bisogni biologici di base.
Gli esperimenti d’insegnamento del linguaggio dei gesti agli scimpanzé condotti da Fouts dimostrano, senza ombra di dubbio, che lo strumento linguistico ha il potere di espandere drammaticamente la coscienza superiore. Ma, prima ancora, dimostrano un’altra cosa: gli scimpanzé, a differenza di altre specie di primati, sono disponibili a quell’apprendimento, perché già sono dotati di una rudimentale forma di coscienza superiore. In altri termini, posseggono già la capacità di metaforizzare le metafore primarie e l’apprendimento linguistico sfrutta ed espande tale capacità. In questo modo, la loro coscienza si sposta gradualmente (e a tratti anche bruscamente) dall’esperienza diretta dei sensi a quella delle narrazioni che, via via, sono in grado di sviluppare.
Quando ci riconosciamo in un nome, o quando utilizziamo un pronome personale per riferirci a noi stessi, smettiamo di “essere” una metafora primaria vivente (figlio, capobranco, gregario, ecc.) e metaforizziamo tale metafora vivente. “Io sono il capobranco” significa che potrei anche non esserlo o smettere di esserlo. Metaforizzando l’identificazione con una metafora primaria creiamo il famoso personaggio protagonista delle storie: il soggetto. È così che posso dire di me stesso chi sono, illudendomi, come Eva con la sua mela, di possedere una grande verità in palmo di mano.
A questo punto vorrei che fosse un po’ svanito il senso di sostanzialità del soggetto (si fa per dire… ci vuol ben altro che una dimostrazione dialettica per farlo sparire!), in modo da poter almeno chiederci di chi sia la coscienza superiore, visto che quella primaria non è di nessuno. Ebbene, la coscienza superiore non è altro che la coscienza primaria deviata nel suo percorso dalle metafore primarie alle metafore di metafore che hanno trovato il loro terreno di coltura e la loro massima accelerazione nel linguaggio.
Le allucinazioni della coscienza primaria sono elementi assolutamente nuovi che s’inseriscono nel gioco e rendono decisamente più complessa la danza relazionale, tuttavia non la spezzano. Per questo la coscienza primaria è una coscienza incarnata. I deliri della coscienza superiore, invece, creano un particolare genere di relazione con se stessi e con il mondo che ha un impatto totalmente diverso e dirompente.
Ricordo il titolo di un libro piuttosto bello di Freeman Dyson, un fisico importante che era diventato consigliere del governo americano e fu coinvolto in una serie di scelte di carattere strategico, non solo di politica della ricerca scientifica, ma anche di tipo militare, riguardanti gli armamenti nucleari, oltre a essere un conferenziere affascinante e un ottimo musicista. Il libro si chiama Turbare l’universo e già il titolo è tutto un programma. Gli Stati Uniti erano all’apice della loro potenza mondiale, Dyson era un personaggio di grande successo in tutti i campi e il suo libro esprimeva pienamente l’orgoglio di rappresentare l’unica specie apparsa sulla Terra capace di sconvolgere non solo il proprio pianeta, ma nella sua immaginazione, dandole il tempo necessario, l’universo intero! A distanza di pochi decenni, oggi sono più propenso a rabbrividire, piuttosto che a entusiasmarmi per quel genere d’incauto ottimismo.
Per tirare momentaneamente le fila, credo che quando diciamo “io” o pronunciamo il nostro nome viviamo l’illusione di sapere chi siamo, ma siamo nella stessa condizione di Eva, la quale, avendo in mano il globo dell’universo, dimenticò trattarsi di un semplice modello, una mappa, e credette di poter vedere ogni cosa da fuori, come dio. In definitiva, non possiamo sapere chi siamo, possiamo solo “essere” chi siamo. Disperarsi o ridere di questa condizione!
Se la coscienza primaria introduce fantasmi nella danza relazionale, la coscienza superiore è una danza di soli fantasmi! Ciò nonostante, essa costituisce un salto evolutivo di potenza incalcolabile: potrebbe davvero finire per turbare l’universo, come prevedeva quel folle di Dyson. La caratteristica fondamentale di questo genere di coscienza è quella di sapersi arrampicare sugli specchi. Accumula e utilizza competenze rubate (che provengono, come ho detto, da esperienze mai fatte in prima persona), per cui ci consente di manipolare la realtà senza che sia necessario avere la benché minima conoscenza diretta di ciò che, in effetti, stiamo facendo. In altri termini, la danza relazionale è danzata dai fantasmi, mentre gli esseri di carne che noi siamo restano esclusi dal gioco: per questo è legittimo parlare di alienazione e di coscienza non incarnata.
Altro che coscienza di essere coscienti! Semmai, tutto il contrario: totale incoscienza di essere incoscienti. Questo spiega un bel po’ di cose sulle quali non intendo dilungarmi in questa sede. Solo un breve accenno: spiega, per esempio, come mai i criminali di guerra processati a Norimberga, una volta sottoposti a perizia psichiatrica, risultarono in prevalenza persone normali. Meravigliò molto tutti sapere che gli sterminatori di innocenti, capaci di usare raffinati procedimenti per portare a compimento l’opera del male, fossero padri affettuosi e altrettanto affettuosi padroni di cani e di gatti. Si avvalevano della normale dissociazione fra competenza manipolativa del reale ed esperienza affettiva in prima persona. Eppure, da Adamo ed Eva in poi, la chiamiamo “coscienza superiore”.
La coscienza superiore rinsavisce solo quando viene interrotta e indirizzata dalla coscienza primaria, come avviene nel sogno, nell’arte e in tutte le forme della creatività umana. Questo rinsavimento corrisponde al concetto d’incarnazione. Per finire, tenterò di lanciarmi in un’ultima interpretazione di carattere teologico: la sacra immagine di Cristo in croce.
Quell’uomo si era incaricato di portare al genere umano la medicina per guarire dal peccato originale. Secondo lui non era la legge a guarire, ma l’amore. Si metteva nei panni dell’adultera e chiedeva ai moralisti che volevano lapidarla chi di loro fosse senza peccato: in quel modo li obbligava a fare uno sforzo empatico e a ritirare le proiezioni persecutorie che avrebbero fatto di quella un perfetto capro espiatorio. Alla fine si persuase che predicare non bastava e offrì volontariamente se stesso come capro espiatorio, o meglio non si oppose più alla scelta del branco, quando toccò a lui di esserne vittima. Perché? Perché impedì la lapidazione dell’adultera e consentì la propria crocifissione?
Mi sembra più facile provare simpatia per l’icona del Buddha che, nel momento della propria illuminazione, tace e sorride. Nel suo misterioso silenzio, egli ci rivela ciò che ha scoperto: l’inganno di ogni parola, la verità dell’essere.
Ma Cristo, perché si espone al macello? Stanco di predicare l’amore, ha forse voluto declinare il discorso nel suo rovescio, come se alla fine avesse voluto farci da specchio e appiopparci un micidiale schiaffo morale, mettendoci di fronte alle conseguenze dei nostri atti? Non riesco a credere che, a conclusione di tutti gli esempi che ha cercato di dare, il suo sacrificio abbia avuto alla fine un fondamentale significato intimidatorio di quel genere. Preferisco pensare che Gesù abbia accettato di morire perché la morte è il rovescio della vita e che, fidandosi della morte come della vita, egli si sia fatto tutt’uno con l’impegno che si era accollato fin dall’inizio: la rinuncia all’onnipotenza del peccato e la definitiva reincarnazione della coscienza nel gioco perenne della vita.


Bibliografia
Bateson G. (1977). Verso un’ecologia della mente. Milano, Adelphi.
Bateson G. (1984). Mente e natura, un’unità necessaria. Milano: Adelphi.
Downing G. (2010). La video-microanalisi nella terapia della coppia madre-bambino. Ricerca Psicoanalitica, n. 1/2010.
Dyson F. (1979). Trad. it.: Turbare l’universo. Torino: Boringhieri, 1981.
Edelman G. M. (1992). The Remembered Present. New York: Basic Books. Trad. it.: Il presente ricordato. Milano: Rizzoli, 1991.
Edelman G. M. (1992). Bright Air, Brilliant Fire. On the Matter of the Mind. Basic Book, Inc. Trad. it.: Sulla materia della mente. Milano: Adelphi, 1993.
Edelman G. M. and Tononi G. (2000). A Universe of Conscousness. How Matter Becomes Imagination. Trad. it.: Un universo di coscienza. Torino: Einaudi, 2000.
Einstein A. (2010). Fatti e opinioni. Roma: Newton Compton Editori.
Fouts R. (1997). Next of Kin. Trad. it.: La scuola delle scimmie. Milano: Mondadori, 1999.
Kohut H. (1971). The Analysis of the Self. London: Hogarth Press. Trad. it.: Narcisismo e analisi del Sé. Torino: Boringhieri, 1976.
Lakoff G. and Johnson M. (1999). Philosophy in the Flesh. The embolie Mind and its Challenge to Western Thought. New York: Basic Books.
London J. (1909). Martin Eden. Trad. it. della Biblioteca di Repubblica, Roma 2004.
Lorenzini A. (2006). La crisi necessaria. Ricerca Psicoanalitica, n. 1/2006: 89-112.
Lorenzini A. (2012). la teoria dell’azione terapeutica di Alexandra Harrison”, Ricerca Psicoanalitica, n. 3/2012.
Lorenzini A. (2015). Il nodo cosmico: mente e cervello sono una cosa sola?” (SCRIPT online, n. 21).
Ogden T. H. (2001). Trad. it.: Conversazioni al confine del sogno. Roma: Casa Editrice Astrolabio, 2003.
Panikkar R. (2005). La dimora della saggezza. Milano: Arnoldo Mondadori Editore.
Panikkar R. (2006). Il silenzio del Buddha. Milano: Arnoldo Mondadori Editore.
Stern D. B. (2003). Unformulated Experience. From Dissociation to Imagination in Psychoanalysis. Hillsdale, NJ: The Analytic Press. Trad. it.: L’esperienza non formulata. Pisa: Edizioni Del Cerro, 2007.
Varela F. J., Thompson E., Rosch E. (1991). The Embodied Mind. Massachusetts Institute of Technology.






[1] Dopo avere scritto queste pagine, ho scoperto di essere molto in sintonia con la lettura del peccato originale che Bateson presentò più o meno cinquanta anni fa nell’ambito della London Conference on the Dialectics of Liberation, agosto 1968 (segnalazione di Manlio Iofrida). Quel testo, intitolato Conscious Purpose versus Nature, fu pubblicato in traduzione italiana da Einaudi nel volume collettaneo Dialettica della liberazione e successivamente in Verso un’ecologia della mente (Adelphi). Siccome Bateson non aveva a disposizione i dati scientifici odierni, si può considerare la mia interpretazione come una conferma di ciò che egli aveva già allora intuito con intelligenza preveggente.
[2] Vale la pena notare che il cerchio è il primo organizzatore simbolico del disegno infantile.
[3] “Espedienti” li chiama Bateson nel saggio citato.
[4] L’episodio della gazza è più ampiamente descritto nel mio articolo “I livelli della coscienza in forma di panino: la teoria dell’azione terapeutica di Alexandra Harrison”, Ricerca Psicoanalitica, n. 3/2012.
[5] La descrizione della nascita della coscienza primaria secondo Edelman e le mie riflessioni a riguardo sono tratte dal mio articolo “Il primato della relazione”, Ricerca Psicoanalitica, n. 3/2013.
[6] Einstein ebbe l’onestà di riconoscere quanto segue in una sua celebre riflessione: «È un fatto che la totalità dell’esperienza sensoriale sia costituita in modo tale da permetterci di ordinarla attraverso il pensiero – un fatto che ci può solo lasciare stupiti, ma che non comprenderemo mai. Si può dire: la cosa eternamente incomprensibile del mondo è la sua comprensibilità» (Einstein, 2010).
[7] Washoe, lo scimpanzé femmina, principale protagonista delle ricerche di Fouts, battezzò “ragazza fiore” la moglie di questi e, riferendosi a lei, la chiamava sempre così. Fu un giovane assistente che, un giorno, comprese il significato del curioso appellativo, quando realizzò che la donna usava regolarmente profumi floreali. Questo precoce uso creativo del linguaggio dimostra già, di per sé, che la coscienza non s’identifica con il linguaggio parlato (con la voce o con i gesti), ma esiste già prima per essere poi riorganizzata attraverso il linguaggio. Si può dire che la danza relazionale della coscienza primaria, nel momento in cui coinvolge categorie di valore e di significato, costituisce già una forma di “linguaggio”, alla base del successivo apprendimento. La sintassi non è contenuta primariamente nel cervello, ma nei gesti (Fouts, 1997, p. 239).
[8] Dopotutto, la “densità” che attribuiamo alla materia, per cui la immaginiamo come inerte, stabile, affidabile e così facilmente ci rifugiamo nel materialismo per orientarci nella vita, è una forma di rappresentazione della realtà che non si regge più, essendo già stata smentita dalla fisica un centinaio d’anni or sono. La materia non è né densa, né stabile, né inerte. È una forma di energia, una risonanza, un vibrare di corde. Non è più stabile dell’immagine che a noi sembra ferma sul monitor del computer e che, invece, è ricreata identica a se stessa un centinaio di volte al secondo di fronte al nostro occhio incapace di decifrare l’inganno. Questo non vuol dire che per costruire ponti o case non si debba tenere conto dei calcoli riguardanti i materiali e le leggi della fisica, o che per fare un intervento chirurgico non si debba utilizzare il laser. Però, per guarire dal peccato originale e per smettere di delirare, è necessario ricordare in ogni momento che tutti questi calcoli e tutte queste tecniche sono soltanto espedienti, mentre il potere e il controllo che ci danno sulla nostra vita è momentaneo, precario e illusorio. Possiamo essere orgogliosi dei nostri espedienti che spesso sono anche più divertenti che utili, perché riflettono l’intelligenza di tutti coloro che si sono rotti il capo per escogitarli. Ma quando torniamo a noi stessi e al senso della vita, essi ci danno soltanto qualche possibilità in più: più tempo, più salute, più cibo, più informazione… non voglio dire che tutto ciò non conti, ma resta comunque esclusivamente a noi il compito di approfittare di quelle risorse per portare a compimento il percorso di crescita interiore di cui, da sempre, ci parla la religione.
[9] Mi sembra superfluo precisare che il primo animale a sperimentare la coscienza primaria non fu realmente un’antilope, ma una specie di vertebrato molto più primitiva, probabilmente un dinosauro.