Il dono della terapia
Che personaggio straordinario, Irvin
Yalom! È lo psicoterapeuta psicoanalitico più incarnato che io abbia mai incontrato.
Con questo voglio precisamente dire che il suo talento nella psicoterapia è
tale da consentirgli di muoversi nelle più diverse situazioni cliniche
individuali o di gruppo con la stessa disinvoltura che potrebbe avere un pesce
nell’acqua. Causa o conseguenza di questo talento, cioè della sua capacità di
padroneggiare la relazione psicoterapeutica a 360 gradi e di cogliere e
descrivere i dettagli dello scambio psicologico in atto da dentro e da fuori,
come se fosse dotato di un magico zoom per il mondo interiore, è sicuramente
l’altra sua inestimabile dote, quella dello scrittore. Yalom, infatti, ha
creato un vero e proprio genere letterario, trasformando innumerevoli casi
clinici in altrettanti racconti avvincenti e pieni di suspense e i propri
pazienti in personaggi sorprendenti nei quali possiamo scoprire le infinite
sfaccettature, le complessità e le tortuosità dell’animo umano. Per quanto io
sappia, soltanto Oliver Sacks è riuscito a compiere prima di lui un’impresa
paragonabile, creando il genere letterario delle storie neurologiche, dedicate agli
imprevedibili modi di essere e di percepire dei pazienti con lesioni
neurologiche. Grande fenomenologo, esploratore dei mondi esperienziali più
inaspettati e strani quest’ultimo, grande terapeuta Yalom, geniale nel
declinare la terapia in modi coraggiosi e assolutamente originali, al di là di
ogni rigida prescrizione di scuola, sempre, implacabilmente, alla ricerca della
medicina più importante, quella dell’autenticità dell’autocoscienza. Yalom
confessa di non essere mai riuscito a fare atto di appartenenza a nessuna
scuola e questo me lo rende davvero simpatico. Afferma che la lettura più
importante durante il suo periodo di formazione è stata Nevrosi e sviluppo della personalità di Karen Horney e questo me lo
rende ancora più simpatico. Definisce se stesso come “psicoanalista
esistenziale”, per dire che quattro temi particolari sono sempre presenti, al
centro delle sue riflessioni sulle difficoltà psicologiche delle persone: la
morte, la solitudine, il significato della vita e la libertà. Yalom ha scritto
tantissimo: tanti libri dedicati ai casi, un manuale di psicoterapia di gruppo
adottato da tante scuole di orientamento diverso, tre romanzi filosofici,
dedicati, rispettivamente, a Spinoza, Schopenhauer e Nietzsche e tanto altro.
Il dono della terapia, uscito nel 2002 e tradotto in italiano soltanto nel 2014, è un’opera
molto particolare, una sorta di testamento spirituale o di dono per gli
psicoterapeuti, che raccoglie 85 temi di psicoterapia e li discute con
innumerevoli esempi tratti dal vivo della propria esperienza personale.
Praticamente una summa, un distillato di sapienza pratica tratto dal lavoro di
tutta una vita dedicata alla psicoterapia.
Mi è capitato di vedere citato Yalom
come portabandiera della relazione nella terapia, in affermazioni del tipo:
“magari, alla fine, ha ragione Yalom e quello che cura è la relazione…”. Si
tratta spesso di affermazioni sottilmente svalutative, che presuppongono una
sorta di rassegnata passività da parte del terapeuta. Come dire che qualsiasi
interpretazione, come pure qualsiasi prescrizione di teoria della tecnica, per
quanto ricercate e scientificamente corrette, alla fine servono a poco e non si
capisce bene quale sia l’effettivo fattore terapeutico, capace di promuovere un
cambiamento nel paziente. La relazione sarebbe per questi critici una sorta di
nutrimento somministrato per osmosi, per il fatto stesso di passare del tempo
in compagnia del terapeuta che, si suppone, gode del possesso di una
personalità più sana rispetto a quella del suo paziente (una verità tutta da
dimostrare!). Niente di più lontano dalla realtà delle cose, per quanto
riguarda Yalom. Egli è davvero uno psicoanalista dedito all’uso terapeutico
della relazione, ma ciò che sorprende ad ogni pagina dei suoi scritti è
l’attenzione con la quale attivamente esplora ogni dettaglio di ciò che accade
nella relazione e l’energia con la quale sostiene e guida il paziente verso
l’esperienza e la consapevolizzazione dei propri modi di relazionarsi a se
stesso e agli altri. Mi pare interessante, a questo riguardo, riportare le
seguenti spiegazioni tratte dal capitolo 38, “Fornire il feedback in modo
efficace e gentile”, dove Yalom stesso istruisce una paziente con lo scopo di
introdurla all’utilizzo del proprio metodo:
Forse posso aiutarla a capire cosa
c’è di sbagliato nei rapporti della sua vita esaminando il nostro man mano che
si sviluppa. Anche se il nostro rapporto non è l’equivalente di un’amicizia,
esiste, ciò nonostante, una buona sovrapposizione, in particolare per la natura
intima delle nostre conversazioni. Se posso fare osservazioni su di lei che
riescano a gettare luce su ciò che accade tra lei e gli altri, vorrei poterle
evidenziare. È d’accordo?
Certo Yalom, a differenza di Atwood,
non è stato un pioniere che abbia aperto nuovi territori alla psicoanalisi e
con fatica riesco a immaginarlo nei panni del terapeuta che accetta di perdersi
nel labirinto del delirio del paziente psicotico con la fiducia di ritrovare il
nucleo della salute psichica a dispetto di ogni buona norma di razionalità
condivisa. Ma forse non è nemmeno giusto dire che non abbia aperto nuovi
territori della psicoterapia: la relazione per come si svolge nell’hic et nunc,
per come coinvolge e condiziona l’esperienza, la coscienza, l’incoscienza e le
emozioni di entrambi i partecipanti, non mi risulta che siano mai state
indagate con tale metodicità e infallibile acume. Sembra a tratti che Yalom
possegga una straordinaria capacità di muoversi e di vedere le cose da dentro e
da fuori, articolando in tempo reale una sorta di ottica bifocale: la realtà
come appare agli occhi del paziente e a quelli di un visitatore curioso che si
affaccia ad esplorare il suo mondo.
Per illustrare ancora più
precisamente cosa significhi la psicoanalisi della relazione secondo Yalom,
vorrei soffermarmi su due argomenti in particolare, che, oltre a essere
esplicitamente illustrati in alcuni capitoli del Dono della terapia, rispecchiano in maniera significativa il suo modo
costante di impegnarsi nella terapia, come in generale emerge nei suoi scritti
di carattere clinico.
Il primo argomento è quello della
concretezza dell’interazione terapeutica, per cui non posso fare a meno di citare
il titolo del capitolo 11, assolutamente emblematico: “L’atto terapeutico, non
la parola terapeutica!”. In questo capitolo è riportato il caso della paziente
taccheggiatrice compulsiva che in periodo natalizio rischiava di essere
sopraffatta dalle proprie pulsioni:
“Cosa posso fare per aiutarla
adesso?” chiesi. “Come la si può aiutare a superare la sensazione di essere
povera?” “Potrebbe cominciare col darmi dei soldi” disse maliziosamente. Subito
tirai fuori il portafogli e le diedi cinquanta dollari in una busta, con le
istruzioni di prelevare ogni volta il valore corrispondente all’oggetto che
stava per rubare. In altre parole, avrebbe derubato me, piuttosto che il
negoziante. L’intervento le permise di troncare di netto la follia compulsiva
che aveva preso il controllo di lei, e un mese dopo mi restituì i cinquanta
dollari. Da quel momento facemmo riferimento all’episodio ogni volta che
utilizzava la razionalizzazione della povertà.
Riconosco in questo modo di
affrontare i momenti critici della terapia quello che in alcuni miei scritti ho
chiamato lo “psicodramma in seduta”, cioè, in un certo senso, la trasformazione
dello scambio verbale in evento teatrale e la capacità di parlare lo stesso
linguaggio agito parlato dalla nevrosi del paziente, in modo da usare la
coscienza primaria, tutt’uno con le emozioni, per coinvolgere nella terapia
quelle parti dissociate di sé (quel mister Hyde) che in nessun altro modo
potrebbe esserne contagiato.[1]
L’altro argomento sul quale vorrei
porre l’attenzione è quello affrontato da Yalom nei capitoli 26, 27, 28 e 29:
si tratta di una questione niente affatto secondaria in ambito di psicoanalisi
relazionale, anzi di una questione molto dibattuta negli ultimi anni, la
cosiddetta selfdisclosure o
autosvelamento del terapeuta.
“È controproducente che il terapeuta
rimanga opaco e nascosto al paziente. Ci sono tutte le buone ragioni per
rivelarsi al paziente e nessuna buona ragione per nascondersi”, afferma Yalom
in apertura del discorso. A ciò tuttavia fanno seguito alcune importanti
precisazioni. Anzitutto Yalom divide l’argomento in tre ambiti che riguardano,
rispettivamente, il meccanismo della terapia, i sentimenti del qui e ora e la
vita personale del terapeuta.
Per quanto riguarda il primo punto,
Yalom raccomanda un’apertura totale. Cita il grande inquisitore dei Fratelli Karamazov, il quale affermava
che gli uomini hanno sempre voluto “magia, mistero e autorità”, per rivendicare
la posizione diametralmente opposta: “La psicoterapia è intrinsecamente così
forte che ha soltanto da guadagnare da una completa trasparenza del processo e
della base logica della cura”. In altri termini, Yalom istruisce i pazienti e
li introduce apertamente all’utilizzo del proprio metodo.
Per quanto riguarda l’apertura nel
qui ed ora, egli consiglia di essere prudenti: aperti, ma solo quando ciò
risulti utile, nell’interesse del paziente.
Un paziente abitualmente descriveva
episodi problematici della sua vita, ma raramente mi raccontava il seguito.
Spesso mi sentivo tagliato fuori ed ero curioso… Forse sentiva di non essere
importante per me. Forse pensava a me come a una macchina senza curiosità e
desideri. Alla fine ho discusso tutte queste sensazioni e congetture e la mia
apertura lo ha portato a rivelare che preferiva pensare che io non fossi una
persona reale, per il timore di scoprire le mie mancanze e di conseguenza
perdere fiducia in me.
Venendo infine alla vita personale
del terapeuta, Yalom dice che non ha mai avuto bisogno di rivelare molto di sé,
per quanto condividere alcune sue sfaccettature sia spesso risultato molto
utile.
Se i pazienti vogliono sapere se sono
sposato, se ho figli, se mi è piaciuto un certo film, se ho letto un
determinato libro o se mi sono sentito a disagio incontrandoli durante un
evento sociale, rispondo sempre in modo diretto. Perché no? Qual è il problema?
Com’è possibile avere un incontro autentico con un’altra persona rimanendo
sempre indefiniti?
Riguardo a un paziente che lo aveva
criticato per avere usato un ristorante di lusso come indicazione per arrivare
allo studio, gli rispose candidamente così:
“Be’ Bob, ha ragione! Avrei potuto
dire: volti a destra alla bancarella di tacos… sono sicuro che preferisco
associare me stesso con un ristorante più raffinato”… solo dopo esserci tolti
di mezzo il problema con la mia ammissione potemmo dedicarci all’importante
questione di esplorare il suo desiderio di mettermi in imbarazzo.
Bibliografia
When Nietzsche Wept, 1992; E Nietzsche pianse
(Rizzoli, 1993), Le lacrime di Nietzsche
(Neri Pozza, 2006)
Sul lettino di Freud (Lying on the Couch, 1996)
(Neri Pozza, 2015)
Il senso della vita (Momma and the meaning of life,
1999) (Neri Pozza, 2016)
La cura Schopenhauer (The Schopenhauer Cure, 2005)
(Neri Pozza, 2005)
Il problema Spinoza (The Spinoza Problem, 2012)
(Neri Pozza, 2012)
Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo (con Molyn Leszcz) (The Theory and Practice of Group
Psychotherapy, 1970) (Bollati Boringhieri, 2009)
Every Day Gets a Little Closer,
1974
Existential Psychotherapy,
1980
Inpatient Group Psychotherapy,
1983
Love's Executioner and Other Tales of Psychotherapy, 1989, Guarire d'amore, Rizzoli, Milano 1990, Nuova Ed. Guarire d'amore. Storie di psicoterapia,
Raffaello Cortina Editore, 2015
The
Yalom Reader, 1998
Il dono della terapia (The Gift of Therapy: An Open Letter to a New
Generation of Therapists and Their Patients, 2001) Neri Pozza, 2014
Fissando il sole (Staring at the Sun: Overcoming the Terror of
Death, 2008) (Neri Pozza, 2017)